Avvenire, 26 aprile 2024
Ayrton Senna a trent’anni dalla morte
Diceva che non esiste una curva dove non si possa sorpassare. Ora ci resta solo il suo volto, impresso in un tempo già lontano ma ancora incredibilmente presente. Trent’anni dopo, Ayrton continua ad accelerare nei nostri pensieri, nella fantasia e nelle vene di chi vive di corsa cercando di non frenare, consegnato dalla morte in pista alla memoria perenne riservata agli eroi dello sport.
Autodromo di Imola, 1 maggio 1994, Gran Premio di San Marino. È domenica, le quattro e venti della sera. Settimo giro. L’indicatore segna 304 km all’ora: Senna imposta la tangente per affrontare la curva del Tamburello. Sposta la macchina un po’ a destra, dà un paio di colpi forti sul freno. Tardi, come faceva sempre, così vicino alla svolta come nessuno riusciva a fare. La sua Williams sobbalza, non curva, va diritta sul muro. Qualcosa si è rotto, forse una leggera sconnessione dell’asfalto, forse le due cose insieme. Occorreranno due processi e 13 anni di dibattimenti per non chiarire del tutto cosa accadde. L’auto sbatte, rimbalza, un pezzo del piantone dello sterzo gli perfora il casco penetrando come una lama tra la calotta e la guarnizione, l’unico pertugio vulnerabile. Con regolamentare cinismo, il presidente della Fia, Bernie Ecclestone, decide che è meglio aspettare la fine della corsa per annunciare che Ayrton Senna è morto. Lascia un mondo incredulo. E 150 milioni di orfani nella sua patria: dall’altra parte del pianeta il Brasile si ferma, mu t o e l a c r i ma nt e. S e n na e ra l a s u a d iversità: lui così bianco, ricco, veloce. Figlio di una terra sempre disperata e sconfitta. Un perfezionista, grande piede, splendida testa, riservato nella sua solitudine anche se muoveva la passione delle folle. Un mistico dagli occhi profondi. L’ultimo viaggio, quello di ritorno a casa, lo farà in business class, dietro la quarta fila di sedili dei passeggeri paganti. Il comandante della Varig, la compagnia aerea che lo trasporta, era di San Paolo come lui. Si rifiutò di far caricare la bara nella stiva, come un bagaglio qualunque.
Ora negli spazi del Mauto, il Museo dell’Auto di Torino, riprende vita la storia del pilota brasiliano, restituito al pubblico come campione automobilistico ed essere umano che ha lasciato il segno nell’immaginario di un’epoca. Una straordinaria mostra, “Ayrton Senna Forever”, aperta fino al prossimo 13 ottobre, e curata da Carlo Cavicchi, direttore di Autosprint dal 1984 al 1999, si addentra nelle sue curve: dalle prime esperienze sui kart fino alle monoposto di Formula 1, raccontando l’epopea sportiva e la storia umana di un campione amatissimo. I visitatori troveranno ad affiancarli nel viaggio del mondo di un mito, le automobili più significative che ha guidato nel corso della sua carriera: dalle prime Formula Ford all’ultima Williams. Oltre all’importante corpus di pubblicazioni e memorabilia, tra cui la più vasta selezione di tute da corsa e caschi mai esposta. Il filo rosso della carriera sportiva del pilota si arricchisce di elementi intimi e personali, con oltre 250 oggetti, restituiti al pubblico anche attraverso l’ampia documentazione, riunita insieme a tutti i libri scritti su di lui in ogni lingua. Tra filmati in Super8 e installazioni audiovisive, nei 6 maxi schermi presenti, spiccano le 114 fotografie scattate dai più grandi autori dell’epoca che contribuiscono a costruire un ritratto a tutto tondo di Ayrton Senna: dall’amico e fotografo Angelo Orsi, a Keith Sutton, da Ercole Colombo a Bernard Asset, da Steven Tee a Rainer Schlegelmilch.
Completa l’esposizione il ciclo di cinque appuntamenti di incontro e dibattito che coinvolge piloti, giornalisti, progettisti e amici, gli affetti e i rivali di sempre nella ricostruzione corale della vicenda sportiva e personale del campione. Tra questi, lo speciale evento del 1 maggio con un collegamento streaming con l’Autodromo di Imola per le celebrazioni commemorative alla curva del Tamburello. Insomma, non la solita esposizione ma un viaggio immersivo, avveniristico e coinvolgente tra installazioni di vetrate e metallo, con oltre 20 schede sulla vita di Senna, e le sue frasi impresse sulle pareti.
«Ayrton è rimasto impresso nell’immaginario collettivo anche di chi non è un patito di F1 – spiega Carlo Cavicchi – perché è stato l’unico grande campione morto in diretta e in mondovisione. E per i suoi occhi che ipnotizzano con un magnetismo intrigante che non può lasciare indifferenti. Tutti quelli che c’erano, ricordano dov’erano e cosa facevano il giorno della sua morte. Per gli appassionati invece ancora oggi è una pietra di paragone: nei sorpassi, nel numero delle pole position conquistate, nel modo unico che aveva di correre». Le foto, i caschi e le tute esposte al museo riflettono l’anima del più bravo di tutti: a partire, ad andare veloce, a sorridere, a chiudersi nei suoi pensieri. Il più bravo nelle curve sotto la pioggia, e a dare l’impressione che sorpassare fosse l’unica maniera di vivere. Ayrton voleva brillare, sempre. Si placava solo se arrivava primo. Aveva la faccia pulita che faceva dimenticare quelle sporche. Determinato e malinconico: un eroe preciso, idolo di un popolo che con lui viaggiava sicuro. Correva con tutto e su tutto. Non era un robot, anche se lo sembrava. Pignolo, metodico, competitivo. Tre titoli mondiali, 161 Gran Premi vinti, 65 pole position. Ma il suo volto, ora impresso sulle pareti della mostra, è pieno di anima. Senna credeva in Dio, non si vergognava a dirlo: lo vedeva sul traguardo, diceva che Lui lo aspettava. E che sentiva la propria anima staccarsi dal corpo prima di ogni partenza. C’è una foto del cimitero di Morumbi, la sua tomba è la numero 11. Vasi di margherite, una bandiera carioca, la lapide: “Nulla mi può separare dall’amore del Signore”. Sembra il traguardo di chi correndo cercava una pace interiore, nascosta dietro l’ultima curva.