La Stampa, 26 aprile 2024
Calderoli, lo sfascista
Peggio delle sue riforme c’è, forse, solo il libro che scrisse agli albori della sua carriera, con qualche velleità letteraria, dal titolo «Mutate mutanda», declinazione al plurale dell’incipit memorabile: «Muta mutanda». L’allusione era all’abbigliamento intimo. In verità, con quell’inclinazione da battutista a sproposito che lo contraddistingue, Roberto Calderoli voleva dire, in latino, «cambiate ciò che deve essere cambiato». Le sue «cose da cambiare», trattate alla stregua di un indumento maleodorante sono, per inciso, ciò che di più importante ha uno Stato: il modo di stare assieme. Sono vent’anni che ci prova, dalla devolution, che fu bocciata nel referendum popolare del 2005, all’attuale riforma. Finora non ci è riuscito. L’unico suo successo è stata la famosa modifica della legge elettorale, che definì, andandone fiero, una “Porcata”, bocciata pure quella, ma dalla Corte costituzionale. Mai definizione fu più calzante.
Altro che Stati Uniti, modello federale con pesi e contrappesi. Il suo orizzonte sono, da sempre, le valli bergamasche, la polenta taragna, il prato di Pontida, il Dio Po e i matrimoni celtici. Lo praticò con sua moglie, con tanto di giuramento davanti al fuoco che purifica e Formentini che si arrampicò su un albero per raccogliere il vischio. Insomma, il Nord al Nord e chissenefrega del resto: «Macché Pirandello e De Filippo. Al teatro Donizetti vanno messe in scena le commedie in dialetto», disse così da consigliere comunale agli albori della sua carriera. Al sindaco democristiano per poco non venne un coccolone. I patrioti di oggi sembrano meno sensibili perché, in fondo, manomettere la Costituzione antifascista, per loro, non è come far entrare un turco in Chiesa. E allora, ognuno la sua bandiera: autonomia da un lato, elezione diretta del premier dall’altro, che alle orecchie di una certa destra evoca l’uomo forte, l’autorità, il pugno sul tavolo, il «quando c’era Lui, caro lei». La tenzone non è sulla logica che tiene assieme il tutto, con buona pace della retorica sulla «nazione», ma sui tempi. E dunque gli uni accelerano per avere l’approvazione alla Camera prima delle Europee, gli altri rallentano perché prima vogliono incassare la legge costituzionale. Olè.
È un gran furbone Calderoli che, una volta, guardandosi allo specchio, disse: «Su di me non avrei scommesso una lira». La scommise però Bossi che ne fece uno dei “saggi” chiamati a ribaltare lo Stato faticosamente costruito da Camillo Benso conte di Cavour. E, in quel ruolo, ci è rimasto fino ad oggi. Sempre ministro per le Riforme, col centrodestra al governo, con la breve interruzione delle sue dimissioni, quando, dopo la bravata della T-shirt con Maometto, fu preso d’assalto il consolato italiano a Bengasi. Ma tornò a giurare sulla povera Costituzione al giro successivo, dopo aver espulso dalla bocca tutto ciò che gli passava per la testa, come se fosse, tra i fumi dell’alcool, in un’osteria della Val Brembana: il «maiale day» contro le moschee, la pena di morte, la castrazione chimica, un florilegio di insulti conto i meridionali e gli omosessuali («La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni»). La ministra di colore Cecile Kyenge si beccò l’epiteto di «orango». La giornalista Rula Jebreal fu apostrofata come «abbronzata». E ogni volta lui con quell’aria di chi, compiaciuto, dice: «E non fatela tanto lunga». Poi con Giorgia Meloni nel governo che, stando agli idoli della loro giovinezza, doveva essere il più centralista di sempre.
Calderoli, eternamente uguale a se stesso, è la rivincita degli anni Novanta: la secessione, il Parlamento del Nord, la sbornia federalista che contagiò anche il centrosinistra. Solo in Italia poteva accadere tale rimozione su ciò che è successo durante la pandemia, quando, in modo crudo, si sono mostrati tutti i limiti del regionalismo italiano: mancanza di coordinamento, frammentazione di competenze, scontro tra poteri centrali e locali. Si dice «commissione d’inchiesta sul Covid». Poi, però, ciò che si è dimostrato il problema, diventa la soluzione. Secondo la riforma ciascun territorio s’intesta ciò che più gli aggrada scaricando sulle burocrazie tutto quello di cui non vuole e non sa occuparsi. Praticamente un federalismo “à la carte”, variante 2. 0 della “devolution”. La rivincita (degli anni Novanta) è anche in casa: la Lega Nord che si riaccredita (al Nord) dopo il fiasco elettorale del Capitano al Sud, per fargli capire, una volta per tutte, quale sia il vero core business della Ditta. Se passa, i lombardi potrebbero pagare gli insegnanti tre volte i campani, la Toscana potrebbe gestire i musei diversamente dall’Umbria, il tutto senza la definizione dei livelli essenziali di prestazione. Morale della favola: l’unico caso, in Occidente, in cui un partito di governo mette in discussione la natura dello Stato nazionale. Si dice: c’è una buona dose di propaganda perché basterebbero accordi con le singole Regioni per devolvere ad esse più poteri e non c’è nessun automatismo tra la riforma e l’attuazione successiva. Insomma, è un “ponte” per affermare un principio in attesa di realizzazione. Però è più concreto di quello sullo Stretto, che almeno unisce due pezzi di Italia. Il principio sono le fondamenta che impegnano nella costruzione successiva. Che invece l’Italia la sfascia. —