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 2024  aprile 25 Giovedì calendario

Intervista a Melania Rizzoli

Quando era bambina, cosa voleva fare da grande?
«Il medico. Avevo una cugina che si chiamava come me, morta di tumore al cervello. A 23 anni mi ero già laureata. Sono specializzata in Medicina interna, faccio diagnosi, ma ho lavorato anche in Oncologia».
La passione politica quando è arrivata?
«Quando vivevo a Campo dei Fiori con la mia amica Mara Venier. Sono stati sette anni divertentissimi. Mi alzavo alle 7 per andare all’ospedale e la chiamavo alle 10 per svegliarla. Lei mi presentava i suoi amici del mondo dello spettacolo e io i miei politici: Martelli, De Michelis, Craxi».
Padre o figlio?
«Prima Bobo. Ero a cena con lui e altri, una sera, quando si sentì male Bettino, ai tempi presidente del Consiglio. Io avevo sempre con me la borsa da medico, così andai all’Hotel Raphaël, capii subito che era il diabete, gli feci un’insulina e lo rimisi a posto. Da allora sono diventata la sua dottoressa e mi ha fatto entrare alla Camera come medico. D’estate mi invitava ad Hammamet e facevo ambulatorio ai suoi ospiti».
È stata tra i primi a raggiungerlo, quando è morto.
«L’ho proprio lavato, vestito, preparato con i miei trucchi e sistemato nella bara, con gli infermieri tunisini. È stato per me una figura di riferimento. Mi ha fatto anche da testimone di nozze!».
Melania Rizzoli è amabile e veloce, non perde tempo. Del resto, se sopravvivi con la chemio e un autotrapianto di cellule staminali allo stesso linfoma per il quale sono morti Gianni Agnelli e Niccolò Ghedini, non hai più voglia di sprecarne nemmeno un po’. Al Baretto di Milano, nel Quadrilatero della Moda, in tre minuti è capace di presentarti una celebre ex modella, un illusionista, un agente letterario e una milionaria svizzera. Ma la sera, quando è seduta al solito tavolo assieme a Vittorio Feltri, a far la coda per salutarla sono banchieri, imprenditori e manager: frutto di un carattere socievole e generoso, felice sintesi tra la leggerezza romana e il rigore milanese.
Craxi fu anche Cupido.
«Un giorno mi chiese di andare a visitare Angelo Rizzoli, che aveva disertato un appuntamento perché non stava bene. Voleva sapere se era vero».
Ed era vero?
«Certo. In tre giorni lo rimisi in piedi. E bastarono ad Angelo per innamorarsi. Disse subito: ti sposerò, voglio dei figli con te».
Cosa lo aveva colpito?
«Non lo lusingavo, non mi interessava avere una parte in un film, ero affascinata dalla sua intelligenza. Con me aveva ritrovato la gioia di vivere».
Quando vi siete sposati?
«L’8 giugno 1991 all’Argentario. Angelo aveva pure chiesto l’annullamento del primo matrimonio. “Non te lo daranno mai”, gli dicevo. Invece l’8 giugno 1996 abbiamo fatto la cerimonia religiosa al Pantheon».
Come mai lì?
«Grazie a don Virgilio Levi, suo padre spirituale, che aveva firmato l’annullamento».
Avete avuto due figli, Arrigo e Alberto.
«Hanno 32 e 30 anni. Li adorava, soprattutto Albertino, identico a lui nei modi, nelle pose, è impressionante. Si mantengono da soli da quando avevano 20 anni: il maggiore lavora a Milano in un Fondo, il minore si occupa di intelligenza artificiale a Londra, collabora con Musk».
Che mamma è?
«Non dominante. Li ho spinti io a 17 anni ad andare a studiare fuori. Sono trilingue. Quando vivevano all’estero li chiamavo una volta alla settimana. Sono felice di avergli insegnato l’indipendenza».
Vede mai Andrea, il primogenito di Angelo?
«Pochissimo. Provo affetto per lui, l’ho conosciuto quando aveva 12 anni, è cresciuto con noi, ha visto nascere i fratelli. Ci incontriamo nelle riunioni di famiglia: il cugino di Angelo, Nicola Carraro, che ho presentato io a Mara Venier, ne organizza una all’anno; i miei figli ci tengono moltissimo».
Invece non le capita mai di incrociare Eleonora Giorgi, la madre di Andrea?
«In 25 anni che sono stata con Angelo non l’ho mai conosciuta perché mio marito non la voleva incontrare. È venuta al suo funerale, ma lui aveva sempre detto che non l’avrebbe voluta. Mi dispiace che non stia bene: la malattia è una cosa drammatica».
Il suo memoir sul cancro, «Perché proprio a me», scritto nel 2010 per Sperling & Kupfer, è ancora in libreria.
«Restò in classifica sei mesi. Lo scrissi quando ero sicura di essere guarita perché era il libro che mi era mancato mentre stavo male. Ho voluto raccontare la mia storia per dare speranza. Continuo a ricevere messaggi: aiutare la gente è molto gratificante».
Un giorno Angelo le disse: «Tu, Melania mia, sei caduta in mare... o nuoti o affoghi».
«Fu la mia salvezza. In quella frase ho visto la sua stanchezza. Ho pensato: mi sta abbandonando. E allora ho cominciato a nuotare».
Lui non è mai voluto tornare in via Rizzoli. Lei?
«Io ci sono tornata con Urbano Cairo, che era amico di Angelo. Ci ho portato pure i miei figli, per vedere quello che aveva costruito il loro bisnonno: hanno un cognome preciso e conoscono la storia della loro famiglia».
È più bello fare la deputata o l’assessora regionale?
«Fare la deputata mi è piaciuto moltissimo: sono entrata in Parlamento grazie a Berlusconi. Veniva spesso a casa nostra, organizzavo cene con lui, i ministri, i direttori dei giornali: amavo far ritrovare ad Angelo gli amici di un tempo e amici nuovi. Il bello dell’esperienza in Regione Lombardia, invece, è che puoi incidere subito».
Che fine ha fatto la casa romana dove vivevate insieme?
«L’ho consegnata ad Equitalia, così ho saldato tutti i debiti di Angelo. Ho venduto anche la casa di Capalbio al Principe del Liechtenstein, chiavi in mano: piatti, bicchieri, lenzuola ricamate. I vestiti di Angelo li ho regalati agli amici: maglioni, cravatte, biancheria. Così continuano a vivere».
Dopo la prima esperienza parlamentare non è stata eletta alle Europee né alle altre Politiche. Le è spiaciuto?
«Alle Europee mi sono candidata per spirito di squadra, me lo aveva chiesto Berlusconi, ma non avevo aspettative. Alle nuove Politiche, invece, è stata Licia Ronzulli a fare le liste, e io evidentemente non sono una sua amica».
All’inizio, però, si sarebbe potuta candidare anche con Diliberto o con Mancino.
«Sono sempre stata bipartisan. Per me l’amicizia è personale, indipendente dalle questioni politico-ideologiche. E poi per le consulenze mediche mi cercavano tutti».
Diagnosi salvavita?
«A un parlamentare dissi che doveva togliere un neo perché era un melanoma».
Da deputata è entrata in carcere molte volte. L’incontro più forte?
«Quello con Totò Riina, che non ho potuto raccontare nel mio libro Detenuti perché Piero Grasso, ai tempi procuratore nazionale antimafia, mise il veto. Era un uomo magnetico, sembrava stesse al 41 bis da 3 mesi e non da 16 anni. L’ho perfino visitato. Indossava una camicia di lino pulitissima, fu galante. Ma tra una risposta e l’altra mi stava dando messaggi in codice. Tipo: “Mi piacerebbe fare una bella passeggiata a Corso Vittorio Emanuele...”».
Cosa la rende felice oggi?
«Stare con gli amici a cui voglio bene».
Come Vittorio Feltri.
«È molto più di un amico. Mi ha spinto lui a scrivere sui giornali, ora sono una divulgatrice scientifica e sono nel consiglio di amministrazione del gruppo editoriale degli Angelucci. I lettori però mi leggono su Dagospia: nemmeno i miei figli hanno mai acquistato un giornale in edicola, eppure sono informatissimi».
Sgrida mai Feltri per le sue intemerate sui social?
«Sempre! Sono l’unica che lo sgrida! E facciamo liti furiose. Il difetto di Vittorio è che vuole avere sempre ragione. Anche nella vita privata discutiamo, ma non possiamo fare a meno l’uno dell’altra, siamo i migliori amici di noi stessi».
Si risposerà un giorno?
«Mai. Ho già avuto un marito per me unico e ho troppo rispetto per la famiglia. Angelo è morto tra le mie braccia, sorridendomi. Però non ho rinunciato all’amore: è il sentimento che ti accende la luce dentro. Come fai, altrimenti, a vivere una vita spenta?».