il Giornale, 24 aprile 2024
Così Newman inventò il sublime astratto
Negli ultimi mesi sì è aperta una discussione a più voci sulla morte della critica d’arte che sarebbe il corollario della morte dell’arte contemporanea o sua causa. Un raccolta di saggi, curata da Vincenzo Trione (Armi improprie, Johan & Levi) a seguito di un convengo a cui hanno partecipato le migliori voci dei nostri tempi, ridesta la nostalgia dei grandi critici del passato come Roberto Longhi, Lionello Venturi, Francesco Arcangeli, Cesare Brandi e, risalendo ad anni più vicini, Emilio Villa, Filippo Menna, Germano Celant. È però un librino edito sempre da Johan & Levi, l’unica casa editrice italiana dedita alla critica d’arte, ad acuire la sensazione di fine dei tempi poiché in poche pagine viene esposto il meglio, ai giorni nostri impensabile, della riflessione novecentesca sul tema cruciale del sublime. Il volume (Il sublime astratto, pagg. 114 euro 20) è di fatto un’invenzione di Pietro Conte, docente di Estetica all’Università Statale di Milano, di cui si ricorda un interessante studio sull’iperrealismo (Quodlibet 2014), che non solo introduce la vexata quaestio, bello vs sublime, partendo da una scaramuccia tra Erwin Panofsky e Barnett Newman, ma altresì colleziona e traduce i testi, pressoché inediti in Italia, di Robert Rosenblum, Max Imdahl, Jean-François Lyotard, Gottfried Boehm, Arthur Danto, studiosi che, tra il 1960 e il 2000, hanno analizzato in modo specifico alcuni quadri di Newman: in particolare Vir Heroicus Sublimis (1950-1951) ora in collezione al Moma di New York, e Who’s afraid III (1967) esposto allo Stedelijk Museum di Amsterdam.
Barnett Newman in un suo scritto del 1948, nel quale, ovviamente, si citavano Longino, Burke e Kant, aveva teorizzato il perseguimento del sublime come fine supremo dell’artista. Newman negava in modo deciso che l’arte dovesse occuparsi della questione del bello, anzi proprio il desiderio di distruzione della bellezza connotava il moderno; era invece necessario concentrarsi sull’idea di sublime. L’arte moderna europea, perfino le avanguardie, perfino l’astrattismo, incapaci di tagliare i ponti con il Rinascimento, non erano stati in grado, a sua detta, di disfarsi del fardello della bellezza e toccava dunque agli americani, in particolare agli astrattisti, liberi dai retaggi della cultura continentale e dall’ossessione delle immagini, di portare a termine in modo definitivo questa sorta di emancipazione. Per far ciò, negli anni successivi a questa germinale intuizione, Newman avrebbe dipinto una serie di tele di grandi dimensioni con un preciso intento.
Facciamo un breve inciso: non c’è bisogno di soffermarsi sulla fondante dicotomia bellezza-sublime che innerva l’arte occidentale fin dai primordi. Da un lato c’è l’ideale della bellezza che l’arte persegue spiegherebbe Wilhelm Worringer quando l’artista e la civiltà di cui fa parte sono in una felice concomitanza con il reale. La bellezza sarebbe, in fin dei conti, una adaequatio rei et intellectus. Diverso è il sublime, un sentimento che promana dall’inadeguatezza dell’uomo verso il mondo circostante, di comprensione cioè della propria finitezza rispetto all’eterno, e che Burke definisce delightfull horror: un orrore dilettevole, un piacere misto a sofferenza, che ci proviene quando guardiamo un naufragio dalla riva, provando, anzi immaginando di provare il terrore di chi sta sulla nave, ma essendo in salvo sulla spiaggia e non davvero in pericolo, possiamo godere lo spettacolo. Kant nella Critica del giudizio scrive che «il bello della natura concerne la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime, invece, può essere ritrovato anche in un oggetto informe, in quanto in esso, o occasionata da esso, ci si rappresenti un’illimitatezza»; ed ancora «nel bello ragione e sensibilità concordano, ed è solo in virtù di questa concordanza che il bello ci attira.. Nel sublime, invece, ragione e sensibilità non concordano, ed è precisamente questo contrasto a catturare il nostro animo». Si potrebbe quindi dedurre che la figurazione afferisca al bello, in quanto compostezza di forme, mentre l’astrazione in quanto deformità al sublime; il primo ci conforta, la seconda ci sconvolge e ci stupisce; il primo è piacevole, la seconda terribile; il primo ingenera un placido sentimento, la seconda un esaltante pathos.
Ciò premesso, domandiamoci come Newman crede di poter raggiungere il sublime? Innanzitutto dipingendo tele di grandi dimensioni, oltre cinque metri di larghezza per due di altezza. Secondo, obbligando lo spettatore ad osservarle da vicino e non, come parrebbe logico, da lontano, in sostanza proponendo un all-over multifocale, anticomposizionale, ottenuto non attraverso l’intreccio disorientante di linee, alla Pollock, bensì attraverso il colore: il campo iconico si espande grazie al colore e si trasforma in una totalità. Terzo, stendendo il colore rosso in modo che esso venga percepito in sé, nella sua pienezza ed energia, e non come medium verso qualcosa d’altro, così che il fruitore venga assorbito dal fenomeno cromatico, dal suo continuum spiazzante.
Questi tre elementi (grandezza, illimitatezza, colore) impediscono all’occhio di cogliere interamente l’opera che diventa inafferrabile, lo spettatore naufraga nel colore senza possibilità di appiglio, finisce per essere inghiottito e risucchiato dall’opera; e proprio questo informe e smisurato innesca l’esperienza del sublime che è sempre un sentimento di smarrimento e al contempo di elevazione. Ma mentre nell’arte romantica, pensiamo al Viandante di fronte a un mare di nebbia di Caspar David Friedrich, possiamo solo empatizzare con i soggetti raffigurati, nel caso di Newman e dei suoi sodali (per esempio Rothko) siamo noi i viandanti e «non c’è alcuna mediazione, alcuna rassicurante distanza tra noi e la soverchiante potenza che si para davanti», siamo noi che possiamo esperire il piacere negativo del sublime.
Newman, in definitiva, è interessato a «what to paint», non come ma a cosa si dipinge, le sue non sono immagini (picture), bensì pitture (paintings): un’immagine presenta qualcosa di altro da sé, una pittura invece presenta se stessa. La pittura anogettuale non è però priva di contenuto, piuttosto essa rende possibile la presentazione di un contenuto senza i limiti propri di qualunque immagine. Lo scopo dunque della pittura di Newman consiste nel far vivere un’esperienza che oltrepassi quelle a cui siamo abituati: lo spettatore deve avvertire che l’immagine lo chiama in causa direttamente e lo ha in suo potere. Il fruitore, in definitiva, deve fruire anche il proprio fruire e quindi sé stesso, arrivando a provare l’emozione assoluta.
Per concludere: se l’astrattismo europeo delle prime avanguardie aveva forti connotazioni spirituali e teosofiche (esoteriche, perfino spiritistiche), quello di matrice americana è più interessato alla trascendenza: pensando alla cultura ebraica da cui proviene Newman, forse si perseguono le asprezze del Dio del Vecchio Testamento, innominabile e terribile, in fin dei conti sublime.