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 2024  aprile 23 Martedì calendario

Intervista a Marco De Paolis

Marco De Paolis, 64 anni, procuratore generale militare presso la Corte Militare di Appello di Roma, nelle pagine conclusive dell’appassionante saggio autobiografico «Caccia ai nazisti», uscito di recente da Rizzoli, offre una impressionante sintesi della sua avventura professionale: «Ho istruito più di cinquecento procedimenti penali per crimini di guerra che hanno causato la morte di 6.961 persone, ottenuto il rinvio a giudizio per settantanove nazisti, fatto celebrare diciassette processi contro i responsabili di 2.601 omicidi che hanno portato, in primo grado, a cinquantasette condanne all’ergastolo».
Tutto cominciò nel 1994 con la scoperta del cosiddetto «armadio della vergogna».
«Esattamente. A margine delle indagini per il processo a Erich Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine, furono scoperti in un armadio con le ante rivolte verso il muro di uno scantinato di Palazzo Cesi a Roma, 695 fascicoli archiviati nel 1960 provvisoriamente, cioè abusivamente, dal procuratore militare generale Enrico Santacroce, che riguardavano le stragi dei nazifascisti contro la popolazione italiana e i prigionieri di guerra italiani tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1945. Una tragedia immane in cui furono uccisi oltre 24 mila civili e circa 70 mila militari morti nei campi di concentramento in Germania o fatti prigionieri sui vari fronti e giustiziati in violazione alle norme internazionali».
La decisione di Santacroce non fu una iniziativa personale.
«Il ministro degli Esteri, Gaetano Martino e quello della Difesa, Paolo Emilio Taviani, si opposero all’istruzione di rogatorie contro i criminali nazisti perché si voleva ricostruire un clima di fiducia con un Paese sconfitto e provato. Però in quelle decisioni c’è anche una responsabilità individuale».
Quando comincia a occuparsi di questa vicenda?
«Negli anni Novanta da gip del tribunale militare di La Spezia, dove ero arrivato nel 1988, avevo contribuito ad archiviare alcuni fascicoli. I 695 fascicoli del cosiddetto “armadio della vergogna”, definizione che si deve al combattivo giornalista Franco Giustolisi, furono smistati tra le varie procure militari. A La Spezia, quella con maggiore competenza territoriale, ne toccarono 214, circa un terzo del totale, contro i 129 destinati a Roma, 119 a Torino, 108 a Verona. Quando nel 2002 vinsi il concorso per diventare procuratore militare, due colleghi pubblici ministeri mi fecero presente che dei circa novanta fascicoli non archiviati, alcuni erano esplosivi, perché contenevano notizie di reato attive riguardanti indagati ancora in vita».
Il fascino della toga per un giovane è comprensibile. Come mai un neolaureato in legge scelse di diventare magistrato militare?
«Avevo deciso diventare giudice già a 14 anni, ascoltando i racconti di un magistrato amico di famiglia, Francesco Pavone, che aveva lavorato a processi di grande rilevanza come l’uccisione dello studente greco Miki Mantakas e il sequestro del generale James Lee Dozier. Frequentavo il liceo Tasso. Mi laureai in legge nella prima sessione utile del 1983. Avevo vinto una borsa di studio e già avevo un impiego al ministero del Lavoro. Feci il servizio militare da sottotenente e un colonnello mi segnalò che si era aperto il concorso per diventare magistrato militare. Passai le prove al primo tentativo. Stavo seguendo i suggerimenti di un altro amico di famiglia, il consigliere della Corte dei Conti Mario Giaquinto, il quale mi aveva consigliato i entrare nella magistratura contabile perché offriva maggiori possibilità di carriera. Il modo più rapido per farlo era passare dalla magistratura militare».
Invece…
«Arrivato a La Spezia, fui assorbito da un lavoro che mi piacque molto e non aprii mai il manuale di Contabilità dello Stato».
Quando nel 2002 divenne procuratore militare di La Spezia da dove cominciò?
«Con il sostituto Stefano Grillo scegliemmo di dare la precedenza ai casi più gravi, con il maggior numero di vittime, ma anche a quelli che potevano essere istruiti più facilmente per l’accertata individuazione delle prove a causa dei presunti rei».
Come era possibile lavorare su fascicoli archiviati da oltre quarant’anni?
«Teoricamente il reato di omicidio è prescrittibile, ma quando siamo in presenza di stragi, di uccisioni con l’aggravante di modalità abiette e di futili motivi il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, come dice l’articolo 112 della nostra Costituzione».
Dopo oltre mezzo secolo dai fatti, non le è mai sembrato di fare un processo alla storia?
«Come dissi all’inizio della requisitoria al processo per la strage di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944, con 360 vittime, soprattutto donne, bambini e anziani, il mio non era un esercizio storiografico ma l’azione concreta di un pubblico ministero per provare la colpevolezza di singole persone responsabili di gravi delitti».
Criminali e burocrazia
Gli imputati non erano poveri vecchietti ma criminali vecchi. Quando si trattò di applicare le pene, le burocrazie di Austria e Germania fecero tenace resistenza
In alcuni processi, talvolta chiamati come testi, figurano consulenti storici.
«Vorrei ricordare due nomi: Carlo Gentile, che ha dato un grande contribuito nel rintracciare negli archivi tedeschi la presenza sul luogo delle stragi di singoli soldati e ufficiali; e Paolo Pezzino, il maggiore studioso di violenza sui civili, che ha delineato il quadro italiano».
Importanti per le sue ricerche sono stati anche i giornalisti.
«Fondamentale all’inizio è stato il lavoro di un giornalista tedesco, Udo Guempel, che realizzò nel 2002 per la rete televisiva Ard un documentario in cui venivano intervistate ex SS che avevano partecipato a stragi come Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto. Parlarono tra gli altri, il caporalmaggiore Horst Eggert (rintracciato da Cristiane Kohl): “Dovevamo ammazzarli tutti, era come la caccia al cinghiale”. E il sottotenente Gerhard Sommer, che comandava la settima compagnia e diede ordine di mitragliare donne e bambini. Scioccante fu la dichiarazione di Albert Meier, responsabile di aver ucciso undici bambini a Cerpiano, durante l’operazione Marzabotto-Monte Sole: eliminammo, disse, “soltanto loschi bacilli di sinistra”».
Rosario Bentivegna, il partigiano romano protagonista dell’azione di via Rasella, commentando il processo Priebke una volta sostenne da medico che dopo tanti anni non ci si trova davanti alla stessa persona che ha commesso il crimine.
«Non sono d’accordo. Come dimostra la rivendicazione di Meier, ma anche le dichiarazioni degli oltre cento nazisti che ho interrogato, o le minacce che ho ricevuto, non si trattava di poveri vecchietti, ma di criminali vecchi. Su cento, soltanto uno, Ludwig Goering, ammise di sentire un peso sulla coscienza».
Colpisce che dopo i decenni trascorsi dall’«archiviazione provvisoria» del 1960, altri lunghi anni dal 1994 siano trascorsi prima dell’apertura di molti processi.
«Forse più che da pigrizia professionale, questi ritardi sono stati determinati da egoismo».
Lei ha conosciuto i nazisti, ma anche le vittime.
«Tra i tanti vorrei ricordare Carlo Comellini, il primo testimone che incontrai per l’eccidio di Marzabotto-Monte Sole. Era il 3 ottobre 2003 e mi aspettava seduto su una panca di una caserma dei carabinieri di Bologna. All’epoca dei fatti aveva sedici anni. Quando arrivarono le SS di Reder si era nascosto con il padre in un fienile, mentre la madre e la sorella erano rimaste a casa, perché si pensava che i nazisti cercassero uomini da rastrellare per il lavoro coatto. Invece non era così. Quando sentì che i soldati si avvicinavano, il ragazzo Carlo si rifugiò su un albero e da lì vide i tedeschi che sparavano sulla gente raccolta nel piccolo cimitero di Casaglia. Vide cadere la mamma e la sorella. Quando tutto fu finito scese dall’albero, raccolse la scheggia di un proiettile che avrebbe tenuto appeso al collo per tutta la vita e si allontanò. Perse le due gambe inciampando su una mina. “Dopo tanti anni, cosa volete da me?”, mi disse».
Nel 2008 venne trasferito a Verona, dopo la soppressione di alcune sedi dei tribunali militari in seguito all’abolizione del servizio obbligatorio di leva, e nel 2010 arrivò a Roma, prendendo il posto alla procura militare di Antonio Intelisano, il famoso pm del processo Priebke. Quale situazione trovò?
«Dai 129 fascicoli assegnati alla procura militare di Roma non era scaturito alcun processo».
Lei cosa fece?
«Mi attivai su alcuni casi che ritenevo importanti e che conoscevo: la strage per il Padule di Fucecchio, che avevo seguito già a La Spezia, la strage dei militari italiani a Cefalonia e l’eccidio di 150 civili greci a Domenikon per mano di un battaglione delle Camicie Nere italiane. Per quest’ultima individuai alcuni responsabili ma purtroppo nel 2018 alla fine del mio mandato dovetti chiedere l’archiviazione perché i responsabili erano tutti morti. Se si fosse agito con maggiore sollecitudine dopo il 1994, probabilmente si sarebbe potuto arrivare a un doveroso processo».
Nessuno dei nazisti condannati ai 57 ergastoli ha mai scontato un giorno di pena. Come è potuto accadere?
«Mentre nella fase di istruzione dei processi abbiamo ricevuto la massima collaborazione nelle oltre cinquanta procure tedesche e austriache con cui abbiamo collaborato, la macchina amministrativa dei due Paesi ha opposto una tenace e silenziosa resistenza quando si è trattato di applicare le pene, che in realtà riguardavano circa 45 soggetti, perché alcuni avevano ricevuto più di una condanna. Segnalai il problema in una lettera al Presidente Giorgio Napolitano».
Qual è oggi il bilancio?
«Soggettivamente positivo, perché ho fatto tutto il possibile per perseguire i responsabili. Ho scritto un paio di libri sulla mia esperienza e con Paolo Pezzino dirigo per l’editore Viella una collana sulle stragi nazifasciste in Italia. Il volume che abbiamo scritto su Marzabotto sarà presentato in traduzione tedesca alla prossima Fiera del libro internazionale di Francoforte che avrà l’Italia come Paese ospite d’onore. Alla Buchmesse verrà presentata anche la mostra fotografica sulle stragi nazifasciste nella guerra di Liberazione che ha per titolo “Nonostante il lungo tempo trascorso...”. Una frase questa che ha una doppia valenza. Il procuratore Santacroce la usò nel 1960 per dire che non si era potuti arrivare all’individuazione dei responsabili delle stragi nazifasciste. Per me significa esattamente l’opposto».