Corriere della Sera, 23 aprile 2024
Camicie nere contro Croce
Quando Benito Mussolini, il 21 giugno 1921, prese la parola alla Camera, in un dibattito sui risultati delle elezioni che si erano appena tenute, provò, con uno scombiccherato inciso sulle «filosofie neo-spiritualistiche … perniciosissime per i piccoli cervelli», di ingraziarsi Benedetto Croce (in quel momento ministro della Pubblica istruzione nel governo presieduto da Giovanni Giolitti). Cercava ad ogni evidenza – scrive Mimmo Franzinelli nel saggio Croce e il fascismo, edito da Laterza – un’«interlocuzione». E un qualche dialogo a distanza tra i due ci fu. «Destinato a proseguire». Croce, reduce da un lungo sodalizio con Giovanni Gentile, che lo aveva indotto alla «totale condivisione» della riforma della scuola – come ha notato Ernesto Galli della Loggia sulla base della lettura del loro Carteggio 1915-1924 (Aragno) – avrebbe avuto, alla stregua di molti intellettuali liberali della sua epoca, primi tra tutti Luigi Albertini e Luigi Einaudi, un’iniziale «parentesi» filofascista. Che tra alti e bassi durò fino all’uccisione di Giacomo Matteotti e all’estate che ne seguì (1924).
Del resto, l’adesione al nuovo stato delle cose – ha scritto Eugenio Di Rienzo in Benedetto Croce. Gli anni del fascismo (Rubbettino) riprendendo considerazioni di Federico Chabod, Nino Valeri, Renzo De Felice, Roberto Vivarelli, Massimo Salvadori, Angelo Ventura e molti altri storici – «si estese a larga parte della classe dirigente dell’Italia prefascista: burocrazia, diplomazia, esercito, accademia, e mondo politico, grande industria e grande finanza, Vaticano e una buona fetta delle gerarchie ecclesiastiche».
Poi tra il 1924 e il 1925 le cose cambiarono. Gran parte di quei pensatori liberali mutarono opinione. Giungendo molti anni dopo, in seguito alla caduta di Mussolini, alla conclusione in qualche modo autoassolutoria che Croce sintetizzò in un celebre discorso del settembre 1944. Il fascismo, secondo il filosofo, poteva essere paragonato all’invasione dell’Egitto da parte degli Hyksos (1720- 1525 a.C.). Con «la sola felice differenza», precisò, «che la barbarie di questi durò oltre dugento anni e la goffa truculenza e tumulenza fascistica si è esaurita in poco più di un ventennio».
Lo scontro tra il pensatore e Mussolini divenne esplicito nel 1925, quando Gentile diede alle stampe il manifesto degli intellettuali fascisti a cui Croce ne contrappose uno firmato da coloro che già allora ebbero il coraggio di dissociarsi apertamente dal regime. E anzi si predisposero (non tutti, però) a contrastarlo. Chi desiderasse rileggere i testi assai interessanti dei due manifesti li può trovare ripubblicati a cura di Giovanni Scirocco e Alessandra Tarquini per le edizioni Fuoriscena. Comunque Croce, già dopo il discorso del 3 gennaio 1925 con cui Mussolini aveva dichiarato la propria intenzione di dar vita a un regime totalitario e dittatoriale, si era aperto con il critico letterario Luigi Russo, confidandogli i propri sentimenti di «squallida desolazione» per le sorti del Paese. Curiosamente – ma non sorprende – il giornale socialista «Avanti!» non diede peso al manifesto di Croce: «Assistiamo», scrisse, «ad una presa di posizione degli intellettuali; in Italia questa classe ha sempre dormito, ora si sveglia e accenna a uscire dalle muffe delle biblioteche per partecipare alla vita civile del Paese». Neanche il giornale comunista capì che cosa significasse la pubblicazione di quel contromanifesto. Lo comprese invece il Duce.
Da quel momento, per Mussolini, Croce diventa una sorta di ossessione. Dapprima parte una campagna di discredito su tutti i giornali fascisti. Si distingue per volgarità «L’Impero» che pubblica un articolo dal titolo Un tremendo scocciatore: maledetto Croce. Gli attacchi proseguono per oltre un anno finché la notte del 31 ottobre 1926 un gruppo di squadristi devasta l’abitazione napoletana del filosofo, a Palazzo Filomarino. Poi l’ossessione mussoliniana contro Croce proseguì ininterrotta per tutto il corso del Ventennio. E oltre. Come dimostra il fatto che nell’aprile del 1944, in piena Repubblica sociale, il Duce fece recuperare dagli archivi quarantasette documenti, frutto di un dossieraggio ventennale, per dare alle stampe un saggio (poi rimasto inedito) dal titolo Il filosofo del tradimento. Mussolini definiva Croce un «commediante dell’antifascismo» che «troppo tardi e malamente è passato dalla biblioteca alla piazza, dal libro al comizio». Rinfacciava a «questo apostolo della libertà» di essersi «proclamato martire» mentre «in venti anni di tirannia fascista egli ha potuto esprimere in qualunque sede e con qualunque mezzo le proprie idee e i propri sentimenti». Mimmo Franzinelli suppone – sensatamente – che la mancata pubblicazione di quel saggio «sia dipesa dal dubbio sulla sua opportunità, ovvero dal rischio di risultare controproducente».
Ma torniamo al 1925. Dopo la pubblicazione del manifesto, la rottura di Croce con il regime fu pressoché totale. Tronca ogni rapporto con il senatore Corrado Ricci, conosciuto a fine Ottocento e frequentato fino a quando l’archeologo e storico dell’arte (a cui si deve la riscoperta dei Fori imperiali) firma il manifesto di Gentile. Dopo la morte di Ricci (1934), così il filosofo spiegherà alla vedova, Elisa Guastalla, le ragioni di quella «separazione»: il distacco è avvenuto «perché, purtroppo l’ideale e la passione politica ora infrangono persino i rapporti personali e privati; costringono ciascuno a tenersi nel campo che la sua coscienza gli assegna». Questa circostanza, prosegue Croce, ci mette in una situazione che «supera i nostri affetti e le nostre volontà individuali». Elisa Guastalla, nota a margine Franzinelli per sottolineare la drammaticità del caso in questione, verrà colpita dalla legislazione antiebraica e a stento «riuscirà a scampare al lager ricoverandosi in una clinica per malati mentali».
Ma, con il trascorrere degli anni, Croce sa essere duro anche con chi nel 1925 firmò il suo manifesto. Arturo Labriola, in gioventù teorico del sindacalismo rivoluzionario, poi ministro social-riformista, infine fuoriuscito a Parigi, rientra in Italia nel 1935. Siamo ai tempi della campagna d’Abissinia e Labriola esprime «piena solidarietà» a Mussolini. Labriola, ricostruisce Franzinelli, «attende per mesi un invito di Croce»; alla fine gli chiede formalmente di potergli far visita. A margine della richiesta, il filosofo annota: «No, non voglio vederlo». Diniego «provocato dal disgusto per un personaggio cui il Duce ha fatto ponti d’oro, procurandogli un impiego al Banco di Napoli e sistemandone il figlio Lucio alla Montecatini». Favori che, secondo il filosofo, sono stati «ripagati» da Labriola con il lancio di una «campagna di pacificazione nazionale» equivalente a una «resa incondizionata».
Però il 5 dicembre del 1935 Croce, dopo averne parlato con Luigi Albertini, decide lui stesso («contravvenendo al parere di sua moglie», sottolinea Franzinelli) di aderire alla campagna «oro alla patria». E invia questo messaggio al presidente del Senato Luigi Federzoni: «Quantunque io non approvi la politica del governo, ho accolto, in omaggio al nome della Patria, l’invito dell’Eccellenza Vostra, e ho rimesso alla questura del Senato la mia medaglia che ha la data del 1910». Su 419 senatori, si comportano allo stesso modo in 414. Quasi tutti.
Il regime dà notizia di quel gesto con ovvia soddisfazione. Senza menzionare, furbescamente, le riserve crociane d’ordine politico. Scriverà molti anni dopo Ernesto Rossi (la testimonianza può essere letta per intero in Epistolario 1943-1967. Dal Partito d’Azione al centro-sinistra, edito da Laterza): «Non dimenticherò mai quale penosa impressione fece la notizia a noi antifascisti che eravamo da diversi anni detenuti a Regina Coeli». Qualche tempo dopo (nel marzo del 1936) la professoressa Bianca Ceva – «intermediaria» con «coloro che sono in carcere» – si diede carico di consegnare al filosofo una lettera di Riccardo Bauer, all’epoca detenuto. «Mi dica lei quello che c’è scritto», le ingiunse Croce «emozionato». Lei glielo disse. E lui «scattando impetuoso» così reagì: «Che cosa possono sapere loro chiusi là dentro, senza possibilità di giudicare e senza contatti». «Lei sa», proseguì, «che io quella medaglietta non la volevo dare, mi sono lasciato persuadere dagli altri che hanno insistito… non la volevo dare, tanto è vero che l’ho accompagnata con una lettera». A questo punto la professoressa gli fece osservare che la lettera era stata ignorata dalla stampa di regime e nessuno poteva esserne venuto a conoscenza: «Quello che per loro conta è la medaglia e quella l’hanno avuta», gli dice Bianca Ceva. E Croce: «Lo so, è sempre stato così nella mia vita; non ho mai fatto cosa di cui fossi contento, mai… dica che io sono sempre lo stesso, che sono sempre con loro».
Il 16 maggio del 1936 il Senato vota all’unanimità per solennizzare la proclamazione dell’impero. Alcuni giornali, non solo italiani, menzionano il nome di Benedetto Croce tra quelli dei votanti unanimi. «La notizia è falsa», si irrita lui, in una postilla ad un ritaglio di stampa che lo cita come presente in aula.
Al varo, il 5 settembre del 1938, dei tre regi decreti che ufficializzano il razzismo di Stato, annota nel diario la propria tristezza «per le orrende notizie»; «ho conversato con parecchi amici ebrei, rovinati dalla presente persecuzione malvagia». Ancora: «Mi sono recato a Milano a vedere gli Spinazzola, colpiti anch’essi, la signora e i suoi congiunti, dalla caccia ora indetta contro gli ebrei»; reagisce con sdegno ai «discorsi che si fanno da alcuni mesi in qua, sulla cattiva persecuzione degli ebrei, che ha assai ferito gli animi». Croce scrive lettere per aiutare in qualche modo Antonello Gerbi, Arnaldo Momigliano a trovare un posto all’estero. Non partecipa alla seduta del Senato per il voto alle leggi razziste. Si sottrae al «censimento» degli intellettuali che accettano quelle leggi e per questo viene radiato dall’Accademia nazionale dei Lincei, nonché dalla Società napoletana di storia patria. Alla lista dei «compilatori del compromettente modulo» si sottrae anche l’antichista Gaetano De Sanctis. Ci sono invece, ha notato Michele Sarfatti, Luigi Einaudi, Norberto Bobbio, Concetto Marchesi, Gioele Solari.
Un gesto importante, quello di Croce e De Sanctis. Ottemperare alle disposizioni del censimento, scrive Franzinelli (riprendendo il giudizio di Sarfatti), significava accettare implicitamente l’esclusione dei colleghi «non ariani». Un modo – pur indiretto – di dare il proprio placet alla persecuzione. La lettera con la quale il filosofo rifiuta di farsi «censire» è un piccolo capolavoro: «Ha senso domandare ad un uomo che ha circa sessant’anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo Paese, dove e quando esso sia nato e simili cose?». Per poi aggiungere: «L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome Croce, all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata».
Nonostante ciò, Benedetto Croce è sempre all’attenzione di Mussolini. Il Duce fa trovare sul suo scrittoio i fascicoli de «La Critica» – riferiscono in molti – e, alla meraviglia dei visitatori, dice essere quella «l’unica rivista italiana che leggo, perché è una rivista seria». E quando Croce dà alle stampe la Storia d’Europa, sentenzia «è il più importante libro venuto fuori quest’anno; io lo leggo e lo medito». A chi gli riferiva di questi giudizi, Croce rispondeva che Mussolini era «vanitoso» e aggiungeva (annotandolo sul diario): «Nella sua vanità io incontrai una spontanea alleata». Poi, però, le cose per il fascismo peggiorano, e Mussolini cambia atteggiamento.
Negli anni della Repubblica sociale (1943-1945) il Duce scatena contro Croce una campagna assai intensa. La guida un ex discepolo del filosofo, Edmondo Cione. Partecipa con entusiasmo l’antisemita Giovanni Preziosi. Prendono parte più o meno consapevoli alcuni futuri antifascisti come Giampiero Carocci («Gentile ci affascina immensamente più di Croce»). Lando Ferretti, futuro parlamentare del Msi, rinfaccia a Croce l’«imboscamento» nella Grande guerra. Qualche tempo dopo, a proposito di Ferretti, Benedetto Croce annota sul diario: «Aneddoto sull’anzidetto guerriero. Luigi Russo mi raccontò che avendo incontrato a guerra finita questo suo compagno d’università e avendogli domandato come fossero andate le cose per lui, ne ebbe per risposta “la massoneria e la sifilide mi hanno salvato dalla trincea”… Superfluo dire che tenne alte cariche nel regime fascista e forse ne tiene ancora oggi». Balza agli occhi come a Croce, a parte alcuni momenti di tristezza, non mancò mai l’ironia. A volte feroce.