La Stampa, 23 aprile 2024
Intervista a Michele Riondino
C’è un soffritto che scoppietta sullo sfondo e l’immagine di Michele Riondino ai fornelli è l’ultimo tassello del mosaico che compone il profilo di attore versatile, regista esordiente candidato al David di Donatello, cittadino impegnato nel sociale, marito e padre che, tra i mille impegni, non dimentica quelli basilari: «Sono pigro – ridacchia -, faccio troppe cose insieme e la pigrizia viene fuori in quelle più semplici. È la mia dannazione casalinga». I giurati della prima edizione del Premio Mazzacurati, nato a dieci anni dalla morte del regista, gli hanno assegnato il riconoscimento «Miglior personaggio» per il ruolo dell’operaio Caterino nel film di cui è regista, Palazzina Laf: «Sono contentissimo. Non ho avuto la fortuna di lavorare con Mazzacurati, ma ho ascoltato tanti racconti su di lui e l’ho sentito affine a certe modalità umane che, nel fare il cinema, non sono affatto scontate».Ha debuttato alla regia con un film di denuncia un tempo bandiera della nostra industria cinematografica. Perché oggi se ne fa così poco?«Come diceva Gian Maria Volontè, tutto è politica, il cinema, il teatro, le canzoni. Sono forme in cui le persone esprimono le loro idee, e, in quelle invenzioni, c’è sempre una presa di posizione, quindi una scelta politica. Il punto sono gli argomenti e in questo siamo un po’ cambiati. Il cinema degli Anni 70 mi ha formato artisticamente e politicamente, è il mio linguaggio di riferimento e comunque quest’anno, insieme a Palazzina Laf, si sono viste varie storie capaci di riflettere le convinzioni dei cittadini, parlo dei film di Albanese, di Garrone, di Cortellesi».Difficile conciliare militanza e lavoro ?«Ho dovuto e voluto dire dei no. Certe volte ci ho visto giusto, altre meno, ma sono soddisfatto del mio percorso, nel bene e nel male, perché è stato sempre ragionato. Non farò mai i nomi dei progetti rifiutati, non li ho accettati perché in quel momento non erano adatti a me».Ha dedicato la sua opera prima alla sua Taranto. Perché?«La storia che racconto è emblematica. Taranto è una città ricattata, dal punto di vista ambientale, politico, sanitario, e anche generazionale. I nostri genitori sono stati costretti scegliere tra la salute e il lavoro. È successo anche a casa mia. Avrei dovuto prendere il posto di mio padre in fabbrica, in cambio del suo pre-pensionamento. È un modo ricattatorio per tenere le persone legate allo stesso destino. Il ricatto trasforma i lavoratori in fantasmi, in numeri, la dimensione del lavoro perde senso, la categoria degli operai si perde, si diventa meschini».Dove stanno le colpe?«Non c’è più un referente, da molto tempo la politica latita. I sindacati, che dovrebbero tutelare gli interessi dei lavoratori, non si fanno sentire. Il mio film è anche una risposta al sindacato che, in tutti questi anni, non ha fatto altro che sminuire la voce mia e di altri che dissentono. Ci hanno definito rinnegati, a me è stato consigliato di occuparmi del mio mestiere. L’ho fatto, girando Palazzina Laf».Si occuperà anche quest’anno del concerto del 1° maggio a Taranto, alternativo a quello ufficiale?«Certo. Il concerto ci deve essere, certi argomenti non sono ancora stati recepiti. Il palco del primo maggio a Taranto è un luogo dove le persone che si occupano dei problemi dei territori trovano un megafono. Un’occasione cui la sinistra dovrebbe guardare con interesse, cosa che, sul palco più blasonato del concertone romano, non avviene da tempo. Il nostro concerto è una gran fatica, lo facciamo senza sponsor, senza aiuti economici».C’è anche un altro Riondino, protagonista di serie di gran successo come I leoni di Sicilia. Quanto le piace trasformarsi?«Mi piace molto la maschera, la possibilità di nascondermi dietro i personaggi, di rischiare e di sorprendere. I Leoni di Sicilia mi hanno dato tutto questo, ho interpretato una figura scomoda, è stato molto stimolante».E Il giovane Montalbano ?«Ha significato tantissimo, mi ha dato la notorietà, è stato un banco di prova fondamentale e devo dire che, sulle prima, ero anche molto spaventato. La sicurezza l’ho guadagnata nel confronto con Andrea Camilleri, un regalo grandissimo. Camilleri è un patrimonio nazionale».Ha fatto anche il «madrino» alla Mostra di Venezia, una prova super glamour. Come ci si è trovato?«L’ho accettata volentieri, ma non sono riuscito a godermela come avrei voluto perché, proprio in quello stesso periodo, avevo le prove di uno spettacolo teatrale. Alla Mostra sono sempre andato, da studente, poi da attore, è un festival meraviglioso. Comunque io sono proprio il simbolo dell’anti-glamour».Incontri fondamentali della vita?«Oltre Camilleri, mia moglie, e Daniele Vicari, il primo che ha creduto in me, quando ero un perfetto sconosciuto».Ci sono guerre vicinissime, lei ha figli, cosa la preoccupa di più di questa fase storica?«Per la prima volta nella vita ho davvero paura che la situazione possa precipitare. Seguo tutto quello che succede con attenzione, non posso fare altro». —