il Giornale, 23 aprile 2024
Così l’Italia ha plasmato De Kooning
Venezia
Il cantante dei Beatles Paul McCartney, accostatosi alla pittura intorno ai quarant’anni, raccontò che il suo vero mentore era stato l’espressionista astratto americano Willem de Kooning (1904 – 1997), con cui nacque una preziosa amicizia e da cui apprese il valore della totale libertà davanti alla tela: «Ero nel suo studio davanti a uno dei suoi dipinti e gli chiesi che cosa rappresentasse una grande forma viola al centro dell’opera. Lui rispose che non lo sapeva, che forse era un divano, ma che in fondo non gliene importava nulla. A me quella forma sembrava una montagna, ma rimasi stupito e rassicurato da quella sua risposta...».
La mostra appena inaugurata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, Willem de Kooning e l’Italia (fino al 15 settembre), la più importante italiana dedicata al maestro della Scuola di New York da diciotto anni a questa parte, dimostrerebbe in realtà che quella fornita al Beatle fu una risposta di comodo; e cioè che, dietro le semplificatorie definizioni di «Espressionismo astratto» e «Action Painting» ci sia stata una pittura che attingeva alla realtà del mondo, alla sua luce e alla sua cultura. Altrimenti sarebbe quasi inspiegabile la trasformazione che ebbe la ricerca di Willem, olandese naturalizzato statunitense, a seguito del suo soggiorno in Italia: anzi, dei «suoi» soggiorni avvenuti nel 1959 e nel 1969, e di cui la mostra veneziana a cura di Gary Garrels e Mario Codognato rende interessante e ricca testimonianza.
Per rendersene conto basta leggere ciò che scrisse il pittore, giunto a Roma già all’apice di uno stellare successo nella Grande Mela, e soprattutto ciò che scrisse una volta tornato in patria. «New York, che mi era sembrata così grandiosa, dopo Roma mi sembrava angusta». E ancora, «nel mio studio sulla Decima Strada continuavo a ripetermi: devo a tutti i costi tornare a Roma». E così fece. Quei soggiorni nella città eterna, il primo di appena una settimana, il secondo di oltre quattro mesi, non influenzarono soltanto il suo spirito – come era avvenuto per il viaggio di Goethe – ma anche inesorabilmente la sua arte. Ovvero le «sue» arti, dal momento che in Italia sperimentò per la prima volta anche la scultura. «La figura non è nulla se non la si torce come uno strano miracolo» dichiarò in un’intervista del 1969 raccontando alla giornalista l’emozione provata davanti alla scultura Il Giorno di Michelangelo Buonarroti: «Lui è riuscito a rappresentare una contrazione del corpo di cui tutti gli artisti sono consapevoli, tutto ritorna al centro, la figura galleggia a partire dal centro».
Non fu difficile dunque, proprio durante il soggiorno del ’69, farsi convincere da un vecchio scultore amico incontrato a Roma, Herzl Emanuel, a lavorare per la prima volta con la creta, anziché con i colori. Da quell’«esperimento» derivarono tredici piccoli calchi in bronzo dalle forme contorte e schiacciate. «Le ho fatte velocemente, raccontò poi l’artista, quasi impastandole come fosse pasta frolla».
Per realizzare le sue prime sculture nella fonderia di Emanuel a Trastevere, Willem raccontò di aver utilizzato una bottiglia di gazzosa come una sorta di armatura interna, una scatola di derivazione e una piastrella di terracotta. Quelle sculture, che nella mostra veneziana dialogano brillantemente con i grandi disegni a inchiostro realizzati a Roma negli anni Sessanta e Settanta (Black and White Rome), non ebbero immediatamente vita facile. Quando le ricevette dall’Italia, il gallerista di De Kooning le guardò e storse il naso («Non sono buone»), ma si dovette totalmente ricredere allorché, dietro consiglio di Henry Moore, Willem decise di riprodurle in scala monumentale. Le sculture funzionano eccome, come dimostra la loro esposizione alle Gallerie dell’Accademia in una delle sale che accolgono 75 opere dell’artista, comprensive dei dipinti precedenti e successivi ai periodi romani, fino cioè agli anni Ottanta. Sono esposti insieme per la prima volta anche tre dei Pastoral Landscapes più noti di De Kooning, Door to the River, A Tree in Naples e Villa Borghese.
Anche nella pittura, l’esperienza italiana si dimostrò illuminante, a confermare quanto il pittore «astratto» fosse in realtà fortemente influenzato dal paesaggio e disponibile a farsi influenzare dalla «classicità», e quindi sempre al guado tra astrazione e figurazione. Del periodo italiano, De Kooning disse: «Ricordo tutto mezzo sospeso o proiettato nello spazio, i dipinti sembrano funzionare da qualsiasi angolazione si scelga di guardarli, e tutto il segreto sta nel liberarsi dalla forza di gravità». È giusto ribadire che De Kooning non aveva alcun bisogno di cercare nuove strade perché nel ’59, quando tornò in Europa per la prima volta da quando aveva lasciato ventenne l’Olanda, era all’apice del successo critico e commerciale, esponente di punta di quella cosiddetta scuola di New York che annoverava rivoluzionari della forma e del colore come Jackson Pollock, Mark Rothko e Franz Kline.
Il viaggio in Italia portò tuttavia cambiamenti che influenzarono anche lo stile dei lavori futuri, così come è evidente il ritorno in America nelle opere del 1960, intrise dei grandi spazi e della luce dei viaggi da New York alla zona est di Long Island, dove prese casa e studio. Questa fase è brillantemente rappresentata a Venezia dai monumentali dipinti intitolati Abstract Parkway Landscapes, paesaggi fisici e mentali che l’artista descrisse così: «La maggior parte, soprattutto i più recenti, sono emozioni, sensazioni legate ai paesaggi, alle strade, allo stare fuori dalla città». Di grande impatto sono pure le opere degli anni Ottanta dell’ultima sala, quelle forse più note al pubblico, dove gli impasti corposi di rosa e carminio danno vita a nuove astrazioni intrise di evanescenti, «barocche» figurazioni. Barocche appunto.