il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2024
Segreti, follie e dollari dei produttori italiani a caccia di Hollywood
Tu vuò fà l’americano, e l’hanno fatto. Non gli attori, non i registi, ma loro: i produttori, “lupi di mare a cui sono sempre stati stretti i lidi italici, mentre l’America è sinonimo del connubio tra soldi e libertà”. Sul letto la valigia di un lungo viaggio, in testa idee da export, in tasca, be’, lasciamo perdere, e alla dogana nulla da dichiarare, tranne la professione di fede: In Gold We Trust. Dopo lo strepitoso Per i soldi o per la gloria, gli studiosi del Centro Sperimentale di Cinematografia Domenico Monetti e Luca Pallanch tornano ad maiora con il libro-intervista Champagne e cambiali, sottotitolo Nuove storie e leggende dei produttori italiani da Cinecittà a Hollywood. Archiviata la stagione d’oro dei Gualino, Ponti, De Laurentiis, Amato, Rizzoli, Lombardo e Cristaldi, gli autori alimentano la storia orale del cinema italiano fotografando il passaggio, e i riti connessi, dal cinema in sala all’home video e alla distribuzione televisiva, ovvero “uno straordinario gruppo di sognatori e avventurieri che hanno tentato, con esiti alterni ma con lo stesso ammirevole coraggio, di trasformare la crisi di un’industria in opportunità”. Tra Italia e Stati Uniti la sinergia cinematografica è multiforme, dai film Usa che arrivano nel Dopoguerra ai kolossal della Hollywood sul Tevere, fino alle trasferte romane dei vecchi leoni che svernano sui set dei film di genere. Non ultimo, c’è il sogno americano dei produttori italiani, che con gli omologhi stelle & strisce perfezionano rapporti e ciclostilano esperienze – su tutti, Fulvio Lucisano con la sua Italian International Film.
Se Dino De Laurentiis firma Guerra e Pace di Vidor e La Bibbia di Huston, si trasferisce a Los Angeles negli anni Settanta e si erge a modello per un comparto intero, la leggenda accoglie generosamente carneadi, underdog e capitani screanzati, da Giancarlo Parretti, “il cameriere” o il “leone di Orvieto” che diviene il maggiore azionista di una major a Hollywood, a Ovidio G. Assonitis, che si vende immantinente la Mini Morris vinta a un concorso di Reader’s Digest e col ricavato fonda la IOFT, International Organization Film and Television.
Il suo primo cliente è il thailandese Thien Prapas, che si mette a danzare il kohn e si palesa “effettivamente matto”, in quanto fuggito dall’ospedale psichiatrico di Nakhon Phanom: a raccattarlo a Roma arriva la moglie, e la sua riconoscenza spalanca a Ovidio le sale del Sud-est asiatico. L’esordio alla regia Chi sei?, distribuito nel mondo col titolo Beyond the Door, incassa quelli che oggi sarebbero 400 milioni di dollari, ma Assonitis rilancia: sulla scia de Lo squalo s’inventa Tentacoli, non mero copia & incolla, bensì prodotto della “dialettica, così come la interpretava Aristotele, ossia scienza dell’argomentazione del possibile”. Dal Piranha di Joe Dante mutua Piraña paura, affidandone la regia al giovane James Cameron per poi avocarla a sé, relegando il futuro autore di Titanic e Avatar alla seconda unità: Jim non la prende bene, e di lì in poi ai messaggi di Ovidio risponderà sempre “Fuck you”. Non meno illustre il vaffanculo che Assonitis si prende da Jack Nicholson, cui nel remake di Profumo di donna preferisce Al Pacino: “Jack si è tolto gli occhiali da sole, mi ha guardato fisso negli occhi e con voce metallica mi ha sussurrato ‘Fuck you, my boy!’”. Notevole anche Alessandro Fracassi, ribattezzato per l’abitudine a preamboli e incisi Il Dottor Divago, che tra Coca-Cola e diplomazia sceglie la vendita di film in Sudafrica, incontra Elio Petri detto “settecachet perché aveva un capoccione grande così”, scrittura Diego Abatantuono per Eccezzziunale… veramente staccando un assegno – il suo compenso era di 8 milioni di lire a film – da “80 milioni, pur di toglierlo a Lucisano, Cecchi Gori e Lombardo” e si fa stoppare dall’Avvocato l’adattamento di Vestivamo alla marinara, il best-seller della sorella Suni, in “un’epoca in cui lo Stato di Agnelli comandava più di quello costituito”.
Gianni Bozzacchi, fotografo ardito, già salvatore di Liz Taylor e coinvolto da Sergio Leone in C’era una volta in America: “Vie’ qui che damo la risposta a Il padrino”, rammenta la singolar tenzone tra Antonioni che girava nel deserto Zabriskie Point e Sam Peckinpah che dirigeva nei pressi Il mucchio selvaggio: quando l’americano ostruì la strada impedendo ai camion di accedere al set, Michelangelo “ordinò di far saltare in aria gli ostacoli!”. A non tenersi un cecio in bocca è anche Tony Brandt, che rivela il soprannome di Vittorio De Sica, “er ciavatta, per il modo di camminare”; la paga di Fellini attore ne Il mondo di Alex, seicentomila dollari per tre ore di lavoro; l’originario finale di Apocalypse Now, “molto più bello, dove Kurtz sparava all’America. Ma Francis Ford Coppola l’ha tagliato perché si è cagato sotto”.