la Repubblica, 23 aprile 2024
Le verità nascoste sulla leggenda dei fratelli Cervi
Anche Italo Calvino ha contribuito all’epica dei sette fratelli, avendoli ritratti «alti e robusti come alberi» mentre erano piccolini, sdentati e quasi tutti con grandi alettoni al posto delle orecchie. Ma il lavoro più politico lo fece Palmiro Togliatti, abilissimo nel trasformare i sette ragazzi emiliani in martiri esemplari del comunismo italiano. A più di ottant’anni dalla fucilazione, il mito dei fratelli Cervi – uno dei simboli più potenti dell’immaginario antifascista – cede il passo alla ricerca storica. Non più uniforme e indistinto gruppo famigliare, ma sette personaggi ben profilati, ciascuno con le proprie fragilità, virtù, intemperanze. E se diversa fu per ognuno di loro la formazione di una coscienza politica, ad accomunarli alla fine della vita fu il rapporto conflittuale con i dirigenti locali del Pci, che ne disapprovarono le gesta militari fino a condannarli all’isolamento.
Diciamo subito che il bel volume pubblicato da Viella Fratelli Cervi. La storia e la memoria non offre argomenti a chi voglia riscrivere quella stagione gettando fango sulla guerra partigiana. Nulla viene tolto alla carica eroica dei sette fratelli di Campegine, fucilati il 28 dicembre del 1943 dai militi di Salò che più tardi come tanti altri aguzzini l’avrebbero fatta franca. E i numerosi tentativi di screditamento ad opera della pubblicistica fascista, che vasta eco hanno avuto in anni più recenti, sono destinati a infrangersi nella mole di documenti analizzati da Toni Rovatti, Alessandro Santagata e Giorgio Vecchio. Decostruire il mito significa restituire la storia alla sua complessità, non certo rovesciarla. Con il risultato di dare voce non più ai santini edificati dalla politica ma a figure in carne ed ossa.
Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore. Eccoli finalmente uno per uno e non uno per tutti, con quei nomi largamente ispirati all’epos classico filtrato dai racconti invernali al chiuso delle stalle. Come epica sarebbe stata la loro morte, non la vita imperlata di lacrime e sudore. Altro che fusti lanciati verso il cielo, come li rappresentò Calvino negli anni Cinquanta. Le cartelle cliniche ne riportano un’altezza che raramente supera il metro e sessantaquattro, Gelindo fermo al metro e cinquantacinque, per non parlare della piorrea che mortifica la bocca di Ovidio e picchia duro su quella di Ettore, e di tutti i malanni provocati dalle condizioni di vita miserabili. La chiamata alla naja – negli anni Trenta del Novecento – li vede quasi tutti riformati, inadatti a una vita militare, tutt’al più un incarico in ufficio, ma certo non dotati di quella forza fisica che sarebbe stata celebrata nel dopoguerra.
Erano poverissimi i bambini Cervi. I vicini della Bassa Reggiana li consideravano dei singher e dei selvategh, ossia zingari e selvaggi dai quali stare alla larga. Bisogna aspettare il passaggio dalla mezzadria all’affitto del podere di Campirossi, a Praticello di Gattatico nel 1934, per vedere Alcide, la moglie Genoeffa e i nove figli – c’erano anche la Rina e la Diomira – conquistare faticosamente un po’ di benessere, con il bestiame moltiplicato, la produzione di burro e latte, l’acquisto del trattore Balilla e del potentissimo Landini. Tutti traguardi premiati dalle autorità locali del fascismo.
E l’opposizione al regime? Furono le limitazioni imposte da Mussolini con la legge dell’ammasso a far esplodere la resistenza della cattolica famiglia Cervi, la cui ribellione era andata crescendo lungo una traiettoria esistenziale più che politica. Senso di giustizia, insofferenza ai divieti, spirito di indipendenza. Sembra infatti franare la storiella tramandata per tutti questi decenni del terzogenito Aldo lucido oppositore antifascista fin dal 1929, finito in prigione per il suo dissenso.
Le carte raccontano di un intemperante Aldo che, giovane soldato di leva, spara contro un suo superiore non riconosciuto nella nebbia. E a scriverne la difesa più convincente sarebbe stato proprio il segretario del partito fascista di Campegine, il paese dei Cervi vicino a Reggio Emilia. Il primo fratello ad affrontare l’arresto per il proprio orientamento antifascista non fu Aldo ma Gelindo, prima nel 1939, poi nel 1942: per aver contravvenuto agli ordini di consegna all’ammasso. Agli occhi d’una famiglia contadina, la guerra appariva come la più grave delle minacce. Ed è su questo malessere sociale che si innesta una più consapevole coscienza politica, maturata prima in Aldo dopo l’incontro con i comunisti, più tardi tradotta in azione militante grazie all’ingresso in casa Cervi di Lucia Sarzi, un’affascinante figura di “guitta sovversiva”, come viene schedata dalla polizia politica.
Dopo l’8 settembre del 1943 l’opposizione dei Cervi sarebbe andata oltre le “pastasciutte antifasciste”, i sabotaggi, la protezione offerta a disertori e clandestini. In quei pochi mesi si concentrano gli assalti alle caserme dei carabinieri, le rapine, l’aiuto alla fuga dei detenuti dal campo di Fossoli. Fino alla notte del 25 novembre quando i soldati della Guardia Nazionale Repubblicana accerchiano il podere dando fuoco al fienile. I fratelli e i loro compagni sono costretti alla resa. Il più piccolo, Ettore, ha 22 anni.
Le carte raccontano anche i tormentati rapporti con i comunisti reggiani, che non vedevano di buon occhio l’intraprendenza militare della banda Cervi, accusata di «sprovvedutezza», «scarsa disciplina», «insofferenza a qualsiasi cautela cospirativa». Da qui la decisione, prevedendone «una imminente caduta», di isolarla dagli altri resistenti della zona. Dopo la feroce esecuzione, i compagni si guardarono bene dal mandare ai famigliari un cenno di solidarietà, mentre i fascisti continuavano ad appiccare fuoco al fienile.
È una storia di dolore, quella che precede la costruzione del mito. Nel dopoguerra sarebbero arrivate le medaglie – d’argento per i figli, d’oro per il padre sopravvissuto – e la rielaborazione epica abilmente orchestrata dal Pci con le memorie di Alcide, bestseller degli Editori Riuniti da un milione di copie. Non tutto quel che scrive papà Cervi è farina del suo sacco, innumerevoli gli aggiustamenti apportati da Renato Nicolai, l’intellettuale incaricato dell’operazione. Il distacco dalla matrice cattolica era stato molto più lento e frastagliato rispetto alla linea retta che viene fatta tracciare all’anziano genitore, così come ad eccezione di Aldo più incerta si manifesta nei fratelli la nascita di un’identità antifascista. Ma bisognava riscrivere quella storia in base alle esigenze del partito nuovo di Togliatti, in un’Italia che non esitava a sbattere i partigiani comunisti in galera.
Nel nuovo secolo smemorato fece sorridere la gaffe di Silvio Berlusconi che annunciò a Vespa il desiderio di incontrare papà Cervi, già defunto da una trentina danni. Chi rise allora non poteva immaginare che a una destra ignara ne sarebbe succeduta un’altra che vuole cancellare l’antifascismo dalle fondamenta della Repubblica italiana. «Forse c’è qualcuno che dei Cervi non vorrebbe più sentire parlare. Dicono ‘non rievochiamo gli orrori della guerra civile: gli uni valevano gli altri. Pacificazione, perdono, oblio: non parliamone più. Respingiamo questi predicatori di insidiosa indulgenza. Il perdono non si nega ai pentiti ma occorrono il pentimento e l’umiltà del patimento». Lo scriveva nel 1954 il padre costituente Piero Calamandrei. Settant’anni dopo, di “pentimento” continua a non esservi traccia, di «umiltà del patimento» ancor meno, mentre la destra al potere censura chi ricorda i martiri dell’antifascismo.
Il libro
Fratelli Cervi. La storia e la memoria di Toni Rovatti, Alessandro Santagata, Giorgio Vecchio (Viella, pagg. 392, euro 29). In libreria dal 26 aprile