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 2024  aprile 21 Domenica calendario

I nemici perfetti

In Medio Oriente è finito il gioco delle ombre. Lo scontro diretto fra Israele e Iran illumina di luce rivelatrice lo scenario della guerra a pezzi che infuria tra Mediterraneo orientale, Mar Rosso e Oceano Indiano. Fase estrema del disfacimento degli imperi rivali che fino a un secolo fa vi signoreggiavano, dall’ottomano al britannico e al francese. Tutti defunti meno uno, di gran lunga il più antico: l’impero persiano. Fondato da Ciro il Grande due millenni e mezzo fa, imperniato sullo spazio grosso modo corrispondente all’Iran attuale, si estendeva allo zenit dall’Egitto all’Asia centro-occidentale, fino alla valle dell’Indo, mentre a nord toccava i Balcani. Includeva quindi l’odierno territorio di Israele e dintorni giordani, dove racconto biblico vuole che Davide abbia fondato intorno al 1030 a.C. il primo regno unitario degli ebrei.
Per noi occidentali drogati dall’ideologia della fine della storia resta difficile intendere quanto profonde siano le radici su cui Repubblica Islamica di Iran, battezzata nel 1979, e Stato di Israele, creato nel 1948, poggiano le rispettive esistenze. E da cui derivano la vertenza geopolitica che li oppone: chi sarà la potenza regionale dominante. Insieme alla Turchia, se i disegni neo-ottomani e panislamici di Erdo?an si compiranno.
Un altro travisamento tipico degli europei consiste nel considerare strategica la partita fra Israele e palestinesi, intorno a cui opportunisticamente variano le posizioni degli Stati arabi o di ciò che ne resta (Siria, Iraq). Posta in gioco rilevante, soprattutto per il valore simbolico e religioso di Gerusalemme, ma inscritta da subordinata nel superiore duello israelo-iraniano. A sua volta interpretabile su scala mondiale nel triangolo della competizione per il primato fra Stati Uniti, Cina e Russia, che ha nel Medio Oriente un teatro secondario ma potenzialmente esplosivo. Quanto avvenuto fra il pogrom di Hamas in Israele (7 ottobre 2023) e il corrente mese di aprile, con l’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco, la rappresaglia di Teheran contro lo Stato ebraico – tecnicamente una sceneggiata, ma di enorme valore simbolico, ed è quel che conta – e la controllata replica di Gerusalemme cancellano la linea rossa delle guerre per procura. Fuori i secondi. Iran e Israele sono faccia a faccia, carte scoperte e nervi irritati. Nessuno dei due può permettersi di apparire debole. Da stabilire quale sia il grado ultimo dello scontro. Ovvero se scalino dopo scalino, fra rappresaglie e controrappresaglie, un giorno i duellanti rischieranno lo scambio atomico. Israele non finge più di non possedere la Bomba, mentre l’Iran potrebbe allestirla in qualche mese, se non l’ha già pronta.
L’ipotesi prevalente resta che in prossimità dell’apocalisse entrambi si fermeranno. Per banale istinto di conservazione, classico nella pragmatica mentalità persiana, meno evidente nelle correnti apocalittiche emergenti in Israele, ben rappresentate nel governo Netanyahu. Ma soprattutto per calcolo strategico: Gerusalemme e Teheran sono nemici perfetti. L’uno vede nell’altro la minaccia principale e il decisivo fattore di legittimazione, interna e internazionale. Nel segno di Ovidio: non posso vivere con te né senza di te. Si aggiunga il vettore antropologico, per cui divisi su tutto ebrei israeliani e musulmani persiani condividono il medesimo sprezzante giudizio sugli arabi, coltivato anche dai turchi. Quando gli argomenti razionali barcollano sotto i colpi del messianismo islamico o ebraico, rispunta il razzismo primario.

L’impero persiano e i suoi nemici

Osservando questa mappa e rimanendo con il pensiero alla notte dell’attacco iraniano a Israele, la prima analisi da non lasciarsi sfuggire è che tutto quello che accade in Medio Oriente ha moltissimi strati di profondità, a volte contraddittori ma solo ai nostri occhi. Le alleanze, gli accordi, gli equilibri che vengono dichiarati apertamente sono solo un aspetto superficiale. Il “corridoio imperiale” disegnato in verde che connette la città di Herat con Beirut, passando per Teheran, Baghdad e Damasco, oltre ad avere una continuità territoriale, soprattutto grazie alla guerra americana in Iraq, ha anche una continuità religiosa che riguarda gli sciiti. Quindi questo corridoio è una realtà piuttosto solida ormai. La parte centro-meridionale dell’Iraq, evidenziata con un pattern diagonale e con il numero uno racchiuso in un cerchio, è sempre stata d’influenza iraniana anche durante il regime sunnita di Saddam Hussein.
Iran e Israele sono separati in linea d’aria da oltre 1.700 chilometri. Questo esclude una guerra terrestre. Due altre modalità possibili, atomiche a parte: il bombardamento da remoto al di sotto del grado nucleare, potenzialmente infinito a meno che uno dei due Stati non crolli dall’interno; lo scontro indiretto, via clienti (proxies). Qui Teheran segna un vantaggio: da mandante può contare su diversi mandatari, più o meno disposti a sacrificarsi per il capo cordata in nome della riconquista di Gerusalemme e di più prosaici interessi materiali. Israele conta invece sul massimo protettore strategico, gli Stati Uniti. Ma il mal d’America che ne affligge e divide la popolazione consente di dubitare della disponibilità illimitata di Washington a difendere Gerusalemme.
La relazione molto speciale fra Stati Uniti e Israele non ha nulla del vincolo fra leader e proxy, malgrado lo scarto di potenza a favore del primo. «La stella di Davide non è solo un’altra stella sulla bandiera americana», proclama Itamar Ben-Gvir, punta dello schieramento oltranzista che nel governo israeliano auspica l’espulsione dei palestinesi dal territorio che Dio ha assegnato agli ebrei. Altri arrivano a sostenere che nella regione sia Washington a dipendere da Gerusalemme. Perché l’America non può permettersi il trionfo dell’Iran e dei suoi clienti, che vedrebbe Teheran elevarsi al rango di potenza nucleare, quali già sono Pechino, Mosca e Pyongyang. Quartetto atomico da incubo.
Per decrittare i termini del duello, conviene gettare uno sguardo su quello che è oggi l’informale impero persiano. Catena di paesi o gruppi armati che traversano quei 1.700 chilometri quasi senza soluzione di continuità e consentono all’Iran di colpire indirettamente Israele da vicino, anzi da dentro. Per quei paradossi che sconvolgono le geometrie strategiche troppo razionali, quell’asse pro-iraniano molto deve all’impero americano.
Il 19 marzo 2003 le truppe americane invadono l’Iraq e marciano verso Baghdad, dove entrano trionfalmente tre settimane dopo. Il regime arabo sunnita di Saddam Hussein è rovesciato. A Washington il presidente George W. Bush celebra la «missione compiuta». A Teheran si festeggia con almeno altrettanto entusiasmo. Un marziano che osservasse quelle scene parallele ne trarrebbe che Stati Uniti d’America e Repubblica Islamica sono ferventi alleati. Noi terrestri sappiamo invece che la convergenza apparente dei due nemici deriva dal più grave errore strategico compiuto dalla superpotenza a stelle e strisce nel suo breve momento unipolare, quando immaginava di poter rifare il mondo a sua immagine e somiglianza. Convinta che l’umanità, a partire dal Grande Medio Oriente, non aspettasse altro. Nella versione dei più disinibiti fra i neoconservatori americani, guidati dal vicepresidente Dick Cheney e dal vicesegretario alla Difesa Paul Wolfowitz, dopo Saddam l’Iraq sarebbe evoluto in liberaldemocrazia afferente a Washington. Modello per il mondo islamico, che ne avrebbe passo dopo passo seguito il percorso, ispirato dal cambio di regime iracheno. Su tutti, l’Iran. Il sogno si rivelerà presto incubo.
A Teheran non si festeggia una futuribile utopia ma un concreto successo geopolitico. L’arcinemico Saddam, che sostenuto dall’Occidente aveva scatenato una sanguinosissima guerra contro l’Iran (1980-88), è eliminato. Con lui cade il predominio della minoranza sunnita nell’Iraq prevalentemente sciita. A Baghdad non gli subentrerà un emulo di Jefferson, ma il caos. Il paese è in rovina, penetrabile dall’Iran non solo per affinità religiose. Le milizie pro-iraniane che tuttora scorrazzano per la Mesopotamia in permanente instabilità segnalano l’espansione dell’influenza della Repubblica Islamica verso il Golfo e la penisola arabica. Si disegna così il corridoio imperiale dall’Afghanistan occidentale al Libano meridionale e a Gaza, lungo l’asse Herat-Beirut, passante per Baghdad e Damasco e imperniato su Teheran. La correlazione delle forze nel Grande Medio Oriente muta in senso sfavorevole a Israele proprio mentre il regime degli ayatollah – di fatto sempre più dei pasdaran – raddoppia gli sforzi per dotarsi dell’arma atomica. Gerusalemme sente stringersi attorno al collo il “cerchio di fuoco” allestito dall’Iran ai suoi confini: oltre alla Siria di al-Asad, Jihad Islamica e Hamas a Gaza (con corpose filiali in Cisgiordania), Hezbollah in Libano, milizie sciite irachene, poi anche gli Houti nello Yemen, tutti più o meno collegati a Teheran.
Il fallimento degli Stati Uniti in Iraq ha una dimensione regionale, che si riflette su scala globale. Quando le fantasie rivoluzionarie neocon si svelano irrealistiche, negli apparati americani comincia una revisione strategica che culminerà nella fuga dall’Afghanistan, il 31 agosto 2021. Ad avviarla è lo stesso Bush che, visto l’esito della «missione compiuta», commissiona nel 2007 ai suoi strateghi un rapporto sull’Iraq in cui si pongono le premesse della graduale ritirata dal Grande Medio Oriente, da cui gli Usa hanno smesso di dipendere per le forniture di idrocarburi. Il principio primo della geopolitica mediorientale americana è il rifiuto di combattervi qualsiasi vera guerra che non sia esistenziale. Disimpegno da surrogare con il sostegno ad amici e alleati o altri clienti (proxies) disposti a battersi “stivali sul terreno” per sé stessi e per l’America in conflitti limitati. Principio esteso ormai al resto del pianeta. Non può stupire che Cina, Russia, Iran e altri rivali degli Usa ne profittino, come le guerre in corso fra Ucraina e Israele confermano. Allo stesso tempo, i tradizionali riferimenti dell’impero americano in Medio Oriente o altrove sentono di non potersi più affidare completamente alla protezione americana, fino all’altro ieri data per scontata. È il caso dell’Arabia Saudita e delle altre petromonarchie del Golfo. E dopo il 7 ottobre perfino di Israele.
Quando gli storici del XXII secolo indagheranno le origini del declino americano, troveranno nella liquidazione di Saddam, fino allora antemurale contro l’Iran imperiale, la chiave decisiva di questo cambio di paradigma su scala non solo mediorientale. È dalla catastrofe irachena che origina la crisi della strategia regionale americana fondata sul contenimento dell’Iran e della penetrazione cinese verso gli stretti di Suez, Bab al-Mandab e Hormuz che connettono il Medioceano (Mediterraneo allargato) al sistema Indo-Pacifico, cuore della competizione fra Washington e Pechino.

Il ventennio delle illusioni…
Negli ultimi vent’anni gli Stati Uniti sono tornati a concepire la riconfigurazione del rebus mediorientale secondo il principio dell’equilibrio delle potenze. Esercizio nel quale gli strateghi di Washington non sono specialmente versati. Giacché si basa sulla profonda conoscenza delle popolazioni locali, sulla lettura fine dei territori contesi, delle ambizioni degli attori che vi si agitano, delle loro pretese da contenere, sostenere o reprimere secondo necessità. Approccio praticato dagli imperi inglese e francese al loro apogeo. Gli Stati Uniti, refrattari alla cultura imperiale classica, smessa l’ubriacatura neocon, hanno azzardato la “guida da remoto”. Come se la colossale impalcatura del primato americano potesse subappaltarsi a partner e clienti più o meno (in)affidabili, risparmiando risorse umane e materiali. E come se questi non fossero interessati a sfruttare a proprio vantaggio il margine di manovra concesso dal leader.
Tale avventurosa idea, battezzata da Obama e variamente interpretata da Trump e Biden, era basata nel Medio Oriente del dopo-Saddam su quattro princìpi.

Primo Nella regione abbiamo un unico interesse vitale: Israele. I dietrologi lo interpretano come riflesso della lobby israeliana in America, sostenuta dalla corposa e influente diaspora ebraica. In realtà, simpatia e sostegno per lo Stato ebraico derivano dalla considerazione di Israele quale unica democrazia della regione. E da un fattore intimo: la tendenza a identificarsi con Israele quale progetto di Dio, in missione universale per la redenzione dell’umanità. Come l’America dei padri fondatori. Tesi specialmente cara agli evangelicali, che leggono nella fondazione dello Stato ebraico il glorioso annuncio della fine dei tempi. Nelle parole del pastore John Hagee, fondatore di Cristiani Uniti per Israele, «siamo alla vigilia della guerra fra Gog e Magog descritta da Ezechiele» (capitoli 38 e 39). Al di là dell’interpretazione biblica, più che alleati americani e israeliani sono parenti. Meglio: gemelli. Non solo sentimento di élite.
Secondo L’unica potenza regionale in grado di distruggere lo Stato ebraico è l’Iran, che ne fa il basso continuo della propria propaganda.
Se Teheran si dotasse dell’arma atomica, scatenando una corsa al nucleare fra i protagonisti regionali – a cominciare da Arabia Saudita e Turchia – da retorica la minaccia si farebbe tangibile. L’accesso dei pasdaran alla Bomba va impedito ad ogni costo. Non però con la guerra preventiva, come Netanyahu e l’ultradestra che lo sostiene sarebbero pronti a fare, sperando che prima o poi Washington accenda luce verde. Perché senza appoggio americano l’impresa sarebbe follia.
Terzo Per garantire Israele e frenare le ambizioni iraniane serve un’intesa fra Stato ebraico e regimi arabo-sunniti del Golfo, più Egitto e Giordania, uniti dal timore della sovversione iraniana. Con la benevola astensione della Turchia. Assieme di convenienza, contro l’impero persiano non più bloccato dalla diga Saddam. Gli accordi di Abramo, avviati il 13 agosto 2020 con una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti – al cui spirito aderiscono altri paesi islamici, dal Marocco al Bahrein e a ciò che resta del Sudan – danno il tono a questo progetto.
Quarto Corollario delle intese abramitiche, la soluzione della questione palestinese fondata sul principio “due popoli due Stati”. Rivitalizzando quanto resta dell’Autorità nazionale palestinese ed emarginando Hamas. Israele mantiene comunque il controllo dello spazio fra Mare (Mediterraneo) e Fiume (Giordano), necessario alla propria sicurezza. Alla Palestina resterebbero Cisgiordania – Giudea e Samaria nella denominazione religiosa cara allo Stato ebraico – meno gli insediamenti che Gerusalemme giudica irrinunciabili. Oltre alla Striscia di Gaza.
…e le sue rovine

Che cosa resta dei quattro princìpi dopo lo shock del 7 ottobre, l’offensiva di Tsahal su Gaza e lo scontro diretto fra Israele e Iran? Vediamo punto per punto.

Primo Per l’America la sicurezza di Israele resta centrale. Però l’accento è più sulla collocazione geopolitica – avamposto mediorientale dell’Occidente – che sull’identificazione sentimental-identitaria. I rapporti fra Biden e Netanyahu, sempre critici, sono gelidi. Quel che è peggio, la strage infinita di palestinesi a Gaza ha alienato buona parte dell’opinione pubblica a stelle e strisce e accentuato le polemiche nella stessa diaspora ebraica d’America, non unanime nel sostegno alle ragioni di Gerusalemme.
Secondo Dopo il ritiro degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano (Jpcoa), sancito da Trump nel 2018, Teheran è libera di muoversi rapidamente verso la bomba atomica. Apertamente, se denuncerà il Trattato di non proliferazione nucleare cui ha aderito nel 1968. O in segreto. Il genio è uscito dalla bottiglia e nessuno può rimettercelo. I pasdaran più radicali vogliono rompere gli indugi e compiere l’ultimo miglio. Ciò potrebbe indurre Israele a rischiare l’impensabile pur di impedirlo. Teheran dotata di arsenale atomico e di missili capaci di colpire a migliaia di chilometri di distanza è rivoluzione strategica su scala globale. Tana libera tutti. Almeno una mezza dozzina di paesi sarebbero in grado di produrre armi nucleari nel giro di un paio d’anni, se non mesi. La deterrenza finirebbe per scadere ad argomento da manuali di storia. L’impiego dell’arma estrema, avviato e sospeso dagli Stati Uniti nel 1945, si svelerebbe probabile. Questione di quando, più che di se.
Terzo Qui la realtà per Netanyahu è migliore dell’apparenza. Uno degli obiettivi di Hamas era la rottura delle intese fra Israele e regimi arabi. La guerra in corso ha costretto le monarchie del Golfo a interrompere la tessitura della rete con Gerusalemme, assai vantaggiosa sotto il profilo economico, infrastrutturale e della sicurezza. Omaggio alla retorica pro Palestina e alla necessità di calmare la cosiddetta “piazza araba”, peraltro non esattamente scatenata nel sostegno ai “fratelli” di Gaza e Cisgiordania. Nella notte fra il 13 e il 14 aprile non solo la Giordania (o meglio la base americana e quella francese presso Amman) ma anche l’Arabia Saudita e altri paesi della regione hanno contribuito a contenere il molto telefonato attacco iraniano a Israele, partecipando alla coreografia coordinata dagli Stati Uniti che lo ha ridotto a pur gravissimo atto simbolico. Mohammad bin Salman e i suoi emuli regionali hanno segnalato così i loro veri colori. L’intenzione è di riprendere e sviluppare gli accordi di Abramo appena possibile, senza però interrompere le relazioni appena rilanciate con l’Iran. In nome della pace e in omaggio al dio dei commerci. Ma previo decente compromesso sui palestinesi. Assai improbabile, come da punto seguente.
Quarto I riti diplomatici cui la “comunità internazionale” si dedica pur di fingere vivo il cadavere della soluzione a due Stati, in sé cinici, nel nuovo contesto sono totalmente vuoti di senso. Il punto è semmai quanti e quali territori occupati dai coloni – se non tutti – saranno annessi da Israele. Mentre il mondo guarda a Gaza (da ricolonizzare, secondo gli ultrà), insediamenti ebraici si allargano a man salva in Giudea e Samaria, protetti dai militari legati agli estremisti guidati dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. A liquidare il mantra dei due Stati contribuisce la constatazione che nemmeno i massacri di civili palestinesi provocati dalla rappresaglia israeliana hanno unito quel popolo, tantomeno suscitato iniziative per una Palestina indipendente da parte dei paesi arabi e musulmani. Secondo recenti sondaggi Gallup, il 65% degli israeliani è contrario ai due Stati, come il 72% dei palestinesi (indagine della scorsa estate). Se poi vi è una logica nella operazione Gaza, non può che essere l’espulsione di quanti più palestinesi da Giudea e Samaria, più Striscia. Terra di Israele. Taglia small per gli estremisti religiosi che traggono dal Libro la versione “autentica”, estesa dal Nilo all’Eufrate. Il dibattito verte su quale percentuale di arabi israeliani, pur cittadini di secondo rango, sia compatibile con l’esistenza dello Stato ebraico. Oggi sono il 20%. E non hanno aperto un fronte interno, come qualcuno a Gerusalemme temeva o a Teheran sperava. Alternativa: la confederazione fra una frazione dei territori cisgiordani e la Giordania. L’importante è che la minima entità palestinese formalmente indipendente non sia a disposizione dell’Iran.

Solo Israele può sconfiggere Israele
La principale minaccia all’esistenza dello Stato ebraico deriva dalle faglie domestiche che ne minano la coesione sociale e istituzionale. Il pogrom del 7 ottobre e lo scambio di rappresaglie missilistiche con l’Iran le hanno leggermente sedate. Sospensione in nome dell’emergenza, che non cura la tabe profonda. Evocata compiutamente dall’allora presidente Reuven Rivlin, esponente del Likud non allineato con Netanyahu, il 7 giugno 2015 alla conferenza di Herzliya. Vi si fotografava la partizione della società in quattro tribù principali: ebrei laici, religiosi, ultraortodossi più gli arabi (altre se ne potrebbero aggiungere, a cominciare dai russi). Ognuna dotata di specifico curriculum scolastico, sicché da garantirne la perpetuazione. Vere e proprie società parallele.
Rivlin denunciava il carattere “strutturale” delle tribù, «che non avremo mai il potere di cancellare». Due di queste, l’ultraortodossa e l’araba, non sono nemmeno sioniste. Le classificazioni politiche non colgono il senso di questo fenomeno. Se non nella fulminante definizione di Arthur J. Finkelstein, grande amico di Netanyahu ai tempi della sua vita americana: «In Israele destra contro sinistra significa ebrei contro israeliani». Spinto all’estremo: Stato degli e per gli ebrei o Stato a maggioranza ebraica basato sul principio di cittadinanza uguale per tutti. Israele resta a cavallo fra le due ipotesi, ma la guerra favorisce la prima. Anche per questo, e non solo per sfuggire alla prigione, Netanyahu ha scelto la più sproporzionata delle risposte possibili al massacro del 7 ottobre.
Le milizie di Hamas hanno scatenato l’inferno perché convinte che Israele stia per soccombere alle sue ferite interne. Prima le violenze del maggio 2021 fra ebrei e arabi israeliani, poi le proteste di massa contro le riforme di Netanyahu volte contro la Corte Suprema, tali da dividere le Forze armate, hanno indotto i nemici di Israele a colpirlo perché indebolito. Quasi bastasse una spallata finale per abbatterlo. La risposta israeliana – tabula rasa a Gaza – non è mirata tanto a distruggere Hamas (Netanyahu, che lo ha coltivato per anni in funzione anti-Olp, sa che è impossibile) quanto a rassicurare il paese sotto shock con un micidiale contro-shock. Dagli effetti paradossali: Hamas o qualsiasi altra organizzazione palestinese non può distruggere Israele, l’Iran teoricamente sì. Però lo Stato ebraico sta trattando le milizie gaziane da minaccia strategica e l’impero persiano da questione tattica. Mentre paga un altissimo prezzo quanto a reputazione internazionale, che significa minore sicurezza per sé e per la diaspora. E proprio mentre stava alleviando il suo isolamento nella regione, quanto meno con i regimi arabi.
Per uno Stato eccezionale, fondato nell’emergenza e che continua a vivere con il fucile al piede, improvvisare è la norma. Hans Blumenberg, filosofo tedesco di ceppo ebraico, ricordava che «vi sono Stati fondati dai propri nemici». Israele ne è esempio supremo. «Siamo una villa nella giungla», amava ripetere l’ultimo premier di sinistra, Ehud Barak. Vero. Nel frattempo la giungla è penetrata nella villa. Le vecchie ricette non funzionano più, paiono anzi autolesioniste. Le nuove si fanno attendere. In questo, se non altro, Israele è più occidentale che mai.