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 2024  aprile 21 Domenica calendario

Intervista a Fausto Bertinotti


L’ex leader di Rifondazione (commosso) e la marcia dei 40 mila: «Lama a Roma disse: abbiamo perso, scriva Romiti il comunicato, io lo firmerò»
Bertinotti: «La sinistra è finita nel 1980. D’Alema premier? Per fare la guerra  serviva un postcomunista»
Fausto Bertinotti
D’un tratto la sua voce si incrina e le parole si fanno confuse. Prova a tenere il filo del racconto ma è costretto a fermarsi. «Chiedo scusa», dice Fausto Bertinotti mentre trattiene le lacrime e tenta di riprendersi. Non sono stati i trascorsi politici da leader di Rifondazione e da presidente della Camera ad averlo emozionato, «non c’era più pathos allora». Sono stati i ricordi della sua vita sindacale ad averlo sopraffatto: le stagioni da segretario regionale della Cgil in Piemonte e la durissima vertenza sindacale con la Fiat del 1980: «Lì sì che ci fu pathos. Lì terminò la storia della sinistra italiana del dopoguerra, il 14 ottobre del 1980».
Anche se 18 anni più tardi la sinistra sarebbe arrivata a Palazzo Chigi con Massimo D’Alema?
«Ma quella è tutta un’altra storia. Ricordo che pochi mesi dopo la nomina di D’Alema a presidente del Consiglio, quando iniziò l’attacco della Nato contro Belgrado, Francesco Cossiga mi confidò che “serviva un postcomunista per fare la guerra...”».
Cosa vuol dire?
«Voglio dire che a seguito della sconfitta del movimento operaio negli anni Ottanta, il capitalismo non solo si liberò del suo avversario storico ma inglobò anche coloro i quali sarebbero dovuti diventare i suoi nuovi avversari, portandoli al governo. E infatti in Germania, in Francia, in Gran Bretagna e ovviamente in Italia, si affermarono i leader del centrosinistra, cioè quelli che avevano accettato la sconfitta del 1980 come una liberazione. Non avevano compreso, forse avevano fatto finta di non comprendere, che il patronato aveva avviato un’operazione su scala internazionale che mirava una volta per tutte a chiudere la sfida. O noi o loro».
Sta dipingendo un centrosinistra succube di un sistema di potere che si muoveva come una Spectre.
«Nel 1980 il capitalismo si convinse che era l’ora dell’aut-aut in tutto l’Occidente. E decise di mettere fine al ciclo storico che negli anni Settanta aveva prodotto un forte avanzamento dei diritti sociali e civili. Nel 1980 in Inghilterra il sindacato dei minatori fu posto di fronte a licenziamenti di massa. E perse. Rammento ancora la scena terribile dei lavoratori che rientrano nei fori delle miniere con le bandiere rosse ripiegate. Negli Stati Uniti i controllori di volo che facevano una rivendicazione salariale vennero piegati duramente. E in Italia la Fiat annunciò quattordicimila licenziamenti. La Fiat, che era stata madre e matrigna, luogo di repressione anti-operaia e di sicurezza del posto di lavoro, aveva pronunciato la parola indicibile».
Era l’11 settembre.
«E fu un trauma. Utilizzando un’improvvisa crisi di governo, l’azienda aveva tramutato i 14 mila licenziamenti in 24 mila casse integrazioni a zero ore per 18 mesi. E mentre il sindacato si interrogava sulla risposta da adottare, come reazione immediata i lavoratori decisero di presidiare la fabbrica. Nacque quel giorno il popolo dei cancelli. Gli operai furono invitati a bloccare l’entrata e l’uscita di uomini e mezzi per bloccare la produzione. Questa scelta durò trentacinque giorni, caso senza precedenti nella storia europea. Allora maturò la convinzione che ci stavamo giocando tutto. O passavamo noi, salvando le riforme degli anni Settanta, o passavano loro che puntavano alla rivincita di classe».
E «loro» erano rappresentati da Cesare Romiti, amministratore delegato della Fiat e capofila della linea dura con il sindacato.
«La Fiat aveva deciso di rompere con la tradizione del negoziato. Non trattava. Fu una contesa di una drammaticità senza pari, uno scontro di classe allo stato puro. Molti anni dopo, Romiti mi raccontò che durante quei trentacinque giorni si faceva portare con un’auto nei pressi dei cancelli. Ci andava soprattutto di notte. “Spesso – mi disse – ho pensato che avremmo potuto perdere. Ho avuto paura di perdere”. Mentre i padroni lottavano contro i lavoratori, il popolo dei cancelli issava all’ingresso di Mirafiori una grandissima tela con l’effigie di Marx».
Quel «popolo» poteva davvero contare sulla solidarietà esterna?
«La solidarietà manifesta era totale ma all’interno del sindacato e ai vertici del Partito comunista c’era chi pensava che, in fondo, la Fiat stesse operando una necessaria ristrutturazione aziendale».
Eppure Enrico Berlinguer venne ai cancelli.
«Ma Berlinguer era un’eccezione».
Un’eccezione?
«Berlinguer non era il Pci, era Berlinguer. Lui era in minoranza. E quando venne a Torino a parlare al Lingotto, Tonino Tatò, il suo più prezioso collaboratore, mi chiamò da parte: “Fausto, visto il contesto così drammatico, chiamate qualche volta. Tu lo sai che Enrico è su una posizione isolata rispetto alla vertenza Fiat. Ed è qui contro il parere prevalente della direzione. Perciò fatevi vivi”».
E lei chiamò Berlinguer?
«Qualche giorno dopo. Perché nel partito sotto un certo aspetto c’era grande libertà. Una volta ricordo di averlo contattato ripetutamente per un suo intervento alla Camera contro un provvedimento sulla mobilità. Chiedevo che tenesse una posizione intransigente. Ma in una di queste telefonate accadde un incidente. Credendo di parlare con Tatò fui, come dire, piuttosto esplicito: “Tonino – esordii – puoi dire per favore ad Enrico di non fare come fa sempre lui? Stavolta deve essere netto. Lo so che non è nelle sue corde, ma per favore...”. Dall’altro capo del telefono una voce con chiara inflessione sarda rispose: “Ho capito benissimo. Se vuoi ti leggo il testo che ho preparato”».
Era Berlinguer?
«Sì. E mentre io provavo a scusarmi, a dirgli che non pensavo di parlargli in quel modo, lui imperterrito mi leggeva il discorso. Confesso di non aver compreso il contenuto tanto ero in imbarazzo. Non ero più in condizione di ascoltare».
E con Luciano Lama? Com’era il suo rapporto con il segretario della Cgil?
«Ammetto di aver apprezzato Lama con il passare del tempo. Ma la sua autorevolezza non era in discussione. Lo si intuiva anche dal modo in cui gestiva le assemblee».
Perché, come le gestiva?
«A Torino era stata organizzata una conferenza operaia del Pci. Allora c’era un contrasto tra il sindacato piemontese e il sindacato nazionale sul ruolo nelle industrie dei capi fabbrica, che avevano un peso significativo alle catene di montaggio. Ecco, per noi piemontesi i quadri intermedi erano “la frusta dei padroni”. Per il vertice nazionale erano invece “lavoratori come gli altri”. Il confronto era già iniziato a pranzo, dove c’era anche Berlinguer. A tavola la discussione si era un po’ scaldata quando Berlinguer alzò la testa dal piatto e chiese: “Ma quanti sono questi quadri?”. Risposi: “Quindicimila”. E lui: “Troppi”. E tornò a mangiare».
Dalla chiosa non sembrava sulle posizioni di Lama.
«Più tardi all’assemblea il segretario della Cgil affrontò quel tema con un breve inciso del suo discorso: “E siccome i quadri, che sono naturalmente lavoratori come voi...”. La sala esplose con i fischi. Lui fece un passo indietro dal leggio, guardò la platea, tornò davanti al microfono e stavolta scandì: “I quadri, che sono lavoratori come voi...”. La sala a quel punto si divise, tra fischi e applausi. Lui ripetè i suoi movimenti. Andò indietro, tornò al leggio. E mentre si avvicinava al microfono sferrò un pugno sulla tavoletta e urlò: “I quadri sono lavoratori come voi, dico io”. Scattò l’applauso generale. Era il segno del carisma del ruolo».
Ma quel carisma venne meno il 14 ottobre del 1980, quando veniste sconfitti dalla manifestazione dei dipendenti Fiat che volevano tornare a lavorare.
«La marcia dei Quarantamila non fu la nostra sconfitta, registrò la nostra sconfitta. La lotta si era fatta molto difficile e intanto si era incrinata l’unità del gruppo dirigente. Il segretario della Cgil però, durante quei 35 giorni, non espresse mai una critica alla lotta. E non contestò mai, né allora né dopo, la conduzione della vertenza. Al contrario di altri dirigenti autorevoli, come Bruno Trentin e Sergio Garavini, da Lama non sentii mai dire: “Non potete continuare con il blocco dei cancelli”. La sua fu una grande figura, drammatica, senza alcuna traccia di banalità. Lo dimostrò subito dopo la fine del presidio davanti alla Fiat, quando andammo a Roma al dicastero del Lavoro».
Dove incontraste Romiti.
«Romiti era il capo della delegazione Fiat. A guidare la delegazione del sindacato c’erano i segretari di Cgil, Cisl e Uil. C’era un’atmosfera funerea. Entrando nella sala ci accolse il ministro del Lavoro, che dopo un breve confronto disse: “Mi sembra che si siano determinate le condizioni per un comunicato conclusivo. Propongo che a redigerlo siano il dottor Romiti e il dottor Lama”. Lama compì un gesto semplice quanto solenne, che ho custodito per anni. Si alzò e disse: “Chiedo scusa. Io, noi, abbiamo perso. Che sia il dottor Romiti a scrivere il comunicato. Io lo firmerò”. Silenzio glaciale e fine. La nostra storia finisce così... Non potevamo non batterci... Accettare la resa... Tradire i nostri ideali...». (Bertinotti si commuove).
Se vuole riprendiamo dopo.
«Chiedo scusa. No, finiamo pure. Perdemmo e da allora c’è stata una progressiva dissintonia tra la sinistra e il suo popolo. Ma, come spiegò anni dopo con cinismo e lucidità il finanziere Warren Buffet, “Non è vero che la lotta di classe non c’è più. È vero che abbiamo vinto noi”. Cioè hanno vinto i padroni».