Corriere della Sera, 22 aprile 2024
Intervista a Stéphane Lissner
Passando davanti a Palazzo Donn’Anna a Posillipo, il sovrintendente Stéphane Lissner si infervora a raccontare la leggenda della principessa che, qui, riceveva ogni notte un amante diverso che poi all’alba uccideva, facendolo gettare dalle finestre a picco sugli scogli. Giura che lui quell’invito per una notte lo avrebbe accettato, eccome: «Vuole mettere il brivido di un incontro amoroso senza sapere che ne sarà di te la mattina dopo?». Arrivati al San Carlo, Lissner, 71 anni compiuti il 23 gennaio, scavalca una buca con un saltello: «Certi marciapiedi di questa città sono un disastro totale. Non le dico portare in giro mio figlio col passeggino...». Il figlio, il quarto, avuto dalla quarta moglie, ha undici mesi. Lissner spiega che, nelle loro passeggiate, gli parla come a un adulto. Per esempio, gli spiega le opere. Chiedo se gli ha spiegato la Turandot, che ha appena messa in scena. Lui: «Nooo. La Turandot non l’ho mai capita neanch’io». Poi, sbuffa aria verso il cielo. Fa: «Pufff». E ride. Nel suo teatro, Lissner non è il sovrintendente, non è il direttore artistico, è un folletto che, salendo nei suoi uffici, ha una pacca sulla spalla e un saluto per ogni lavorante che incrocia. Intanto, racconta di come la paternità l’ha ringiovanito. Il colmo per uno che, nel frattempo, veniva rimosso dall’incarico perché un Decreto Legge stabiliva che 70 anni son troppi per dirigere un teatro. Dopodiché, il tribunale ha accolto il suo ricorso, lui è stato reintegrato ed eccolo qua, reduce dal successo della Gioconda, ultima sua messa in scena fra le centinaia allestite nei dieci anni in cui è stato Sovrintendente alla Scala di Milano, nei cinque in cui è stato all’Opéra de Paris e, in generale, in 52 anni di carriera vissuti, pare di intuire, con sommo divertimento.
Lissner, che ha pensato apprendendo del Decreto che la obbligava a restare a casa?
«Che era una legge valida solo per uno, una decisione politica per catturare un posto per Carlo Fuortes uscito dalla Rai e che Fuortes sbagliava a sperarci. I miei colleghi all’estero erano stupefatti: nessuno aveva mai visto un decreto fatto per mettere un altro al loro posto».
All’estero, la politica interferisce meno con la cultura?
«In tutti i Paesi in cui ho lavorato, se un politico appartiene a un partito, conosci la sua posizione perché ne conosci ideologie e valori; in Italia no, le posizioni dei politici dipendono dalle circostanze. E forse, a Napoli, questo vale un po’ di più. Qui, abbiamo il governatore Vincenzo De Luca e il sindaco Gaetano Manfredi che sono dello stesso partito e non vanno mai d’accordo. A volte, abbiamo un sindaco di sinistra che va più d’accordo col governo di destra che col governatore di sinistra».
E che significa fare il sovrintendente con una politica così fluida?
«Il mio lavoro con orchestra, coro, macchinisti e pubblico va bene: il teatro è pieno ogni giorno, mentre prima non era così; le visite guidate registrano il più 60 per cento; gli artisti internazionali sono felici di venire, tanto che per La Gioconda ho avuto tre cantanti fra i maggiori al mondo, la soprano Anna Netrebko, il tenore Jonas Kaufmann e il baritono Ludovic Tézier. Il problema è fuori dal teatro: pensi di avere un contributo dalla Regione di cinque milioni e, invece, da un giorno all’altro, lo perdi».
Che ha fatto di male per perdere milioni?
«In due anni ne ho persi circa dieci solo perché De Luca non è d’accordo con me: non è d’accordo con la gestione, con lo stipendio del direttore generale, con niente. Forse c’entra che Napoli, che rifugge la stabilità, è una città che quando le cose vanno bene le deve buttare giù».
Però, sbaglio o Napoli le piace molto?
«Moltissimo e mi ci sento a casa. Avendo vissuto già a Milano, pensavo di sapere tutto, invece Napoli non è l’Italia: è una città a parte, ha una personalità unica, immune alla globalizzazione. Qui è importante andare a piedi, per scoprire gli scorci, l’architettura, le persone».
Della Scala, che bei ricordi conserva?
«Ricordo il primo concerto di Natale, nel 2005, con Daniel Barenboim che dirige la nona di Beethoven, salva la mia prima stagione e inizia il suo feeling con l’orchestra con la quale verrà a lavorare. Io ero arrivato a maggio e non c’era niente, neanche il 7 dicembre... Per la prima, venne Daniel Harding, che aveva iniziato ventenne con me, e in più, Riccardo Muti aveva fatto in modo che i cantanti rifiutassero i miei inviti».
Escludo che il maestro confermerebbe.
«Si era dimesso da direttore musicale dopo che orchestrali, artisti e lavoratori lo avevano sfiduciato, capisco che fosse ferito. Il giorno in cui sono arrivato, lui dirigeva la Wiener Philharmoniker. Chiesi se potevo salutarlo e la risposta fu: niente. L’ho invitato più volte a dirigere alla Scala e non mi ha mai risposto».
Muti ha detto che lei non l’ha mai chiamato.
«Ma non è vero. Gli ho fatto dire che non potevo aprire l’anno verdiano se non con lui e non mi ha risposto. Gli ho scritto una lettera quando è stato malato e non mi ha risposto. Vabbè, lasciamo perdere. Il secondo più bel ricordo che ho è quando ho convinto Claudio Abbado a tornare alla Scala e lui ha diretto Barenboim pianista. Il ricordo tristissimo è il giorno della sua morte: Barenboim ha suonato la marcia funebre a sala vuota e porte aperte. Col maestro, avevo un rapporto forte. Da autodidatta, ho imparato moltissimo allestendo il Don Giovanni, io lui e Peter Brook, a Aix en Provence, nel ’98».
Come si diventa sovrintendente e direttore all’Opéra di Parigi o alla Scala da autodidatta?
«A me piaceva il teatro, la lirica mi piaceva così così. La mia vita è stata teatro e musica, che messe insieme, a un certo punto, mi hanno portato all’opera. Capisco chi mi dice: non sei attore, non sei regista, non hai fatto il conservatorio, non sei musicista, ma la mia vocazione era fare il direttore di teatro, costruire cultura e capacità per scegliere un direttore d’orchestra o un regista e capire cosa volevo fare di un’opera».
Prima tappa di questo percorso?
«Mia madre sostiene che a 14 anni avevo detto: sarò direttore di teatro. Non me lo ricordo, ma so che, diciassettenne, partivo da Parigi per vedere a Milano gli spettacoli di Giorgio Strehler. A 18 anni, non volli andare all’università. Mio padre non ne fu contento e mi mise fuori casa».
Lei voleva diventare attore?
«Sì, ma mi sono visto due volte al cinema e ho detto: non fa per me. A 19 anni, ho aperto il Théâtre Mécanique a Parigi; a 25, già sapevo che volevo dedicare la vita agli artisti. Poi, mi chiamarono a dirigere per tre mesi il Centre Dramatique di Nizza, restai per 15 anni. Quindi, ho fatto otto anni al Festival di Aix-en-Provence».
Alla Scala, arrivò e la chiamavano il «sovrintendente di passaggio» ma rimase dieci anni, come fu possibile?
«La mia nomina aveva sorpreso tutti, perché ero il primo straniero, non parlavo italiano e non avevo molta esperienza di lirica. Tutti hanno pensato che mi sarei fermato giusto il tempo di tamponare l’uscita di Muti. Io no, sono andato con l’idea di rimanere».
Perché ride?
«Perché sono stati dieci anni stupendi. E ho portato con me Barenboim, lo conoscevo ma lavorarci ogni giorno è un’altra cosa».
Quando ha pianto ascoltando la sua musica?
«Per un terzo atto del Lohengrin con Jonas Kaufmann, un 7 dicembre. Kaufmann ha cantato in un modo impossibile da spiegare, ma credo che tutto il teatro abbia avuto la sensazione di assistere a un momento musicale storico».
Come riuscì, al suo arrivo, a imparare l’italiano in tre mesi?
«Leggendo La Divina Commedia. Ma la verità è che dopo vent’anni lo parlo uguale ad allora».
Di recente per il Don Giovanni di Mario Martone è stato srotolato in scena uno striscione con scritto «cessate il fuoco». Per lei non c’è cultura senza politica?
«Questa è una mia convinzione non negoziabile. Non posso immaginare un’opera dell’800 senza attualizzarla. Il teatro è un luogo vivo, non un museo dove si vede il Nabucco. Se vuoi solo intrattenimento, ascolti un disco».
Oggi, la sua quarta moglie è la giornalista Anna Sigalevitch. Come l’ha conosciuta?
«Arrivato all’Opéra, ho messo in scena Moses und Aron di Arnold Schönberg, un’opera difficile, scelta per indicare un nuovo corso. Dopo, ascolto una recensione radio su France Culture intelligente, ben formulata. Chiedo di conoscere la giornalista. Per quasi un anno, abbiamo parlato per ore e ore di teatro e di musica. Io, considerate le nostre età, 63 e 33 anni, ritenevo di non avere speranze, invece, è successo. Ma lei aveva qualcuno e io avevo qualcuno».
Vicenda complicata, dunque.
«Molto. Ma non sono il tipo da doppia vita e lei è stata coraggiosa».
Così, dopo tre figli grandi, è di nuovo papà.
«Mia moglie non aveva bambini, io la amo ed è stato giusto così».
Come è fare il padre alla sua età?
«Be’... 50 anni fa, i padri non cambiavano i pannolini né preparavano le pappe, cose che io faccio poco anche ora, però, rispetto a prima, con mio figlio Yasha ci gioco, ci passeggio, lo porto in teatro e mi piace parlare con lui, anche se lui ovviamente non risponde. Gli racconto storie del teatro. L’altro giorno, La Traviata».
Come si spiega La Traviata a un bebè?
«Gli ho detto: c’è una donna innamorata di un uomo che di lei non lo è, lui vuole solo stare con la più bella, la donna di cui tutta Parigi parla».
Pensa mai che quando suo figlio sarà ragazzo lei potrebbe già non esserci più?
«Sicuro. Diventare padre alla mia età ti fa pensare di più alla morte, ma ti dà anche un’energia forte, perché devi stare attento: lui si sveglia la notte o ha fame o piange e non sai perché. Poi, undici chili pesano più ora che a 40 anni, ma più lo prendo in braccio e più ho forza per farlo».
Che farà dopo il San Carlo?
«Finora, ho lavorato senza fermarmi e, ora penso che, se non arriva un festival o altro in cui posso mettere del mio, posso sempre leggere, viaggiare, fare il marito e il padre».