il Giornale, 19 aprile 2024
Jean Cocteau: un poeta non solo della parola
da Venezia
Il profilo con l’occhio del pesce al centro del disegno a china intitolato Poetry, del 1960, è quello di Orfeo, il mito classico in cui il giocoliere Jean Cocteau si identificava come una sorta di alter ego artistico; i pensieri scritti a mano che fanno da contorno al ritratto, invece, sono una sorta di manifesto dell’accezione universale che il poliedrico francese conferiva al concetto di poesia, «non la conseguenza di una ispirazione ma di una espirazione, così come il poeta non è che la manodopera di forze che lo abitano, estranee alla coscienza e alla ragione».
Quest’opera, che apre la mostra di oltre 150 esposte alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, è una di quelle che più incarnano i sentimenti e l’idea di questo enfant terrible della scena avanguardistica parigina dilaniato dalle spinte dei suoi molteplici talenti, tra scrittura, arti visive, teatro, design e cinema; un multilinguismo che fu ironicamente rappresentato nella fotografia del 1949 di Philippe Halsman che lo ritrasse con sei braccia a impugnare un pennello, una penna, un paio di forbici, un libro aperto e una sigaretta. Quella versatilità aveva proprio nella poesia il suo fil rouge, che egli stesso decodificò nel volume di disegni Dessin dedicato a Picasso, in cui affermava che «i poeti non disegnano, scompongono la scrittura per poi ricomporla diversamente»; e poi nel suo primo film Il sangue di un poeta in cui sottolineò che è appunto poesia il termine che descrive la sua arte in qualsiasi forma espressiva: poésie de roman (romanzo), poésie graphique (disegno), poésie de theatre (teatro), poésie critique (saggistica), poésie cinematographique (cinema). Pareva di ascoltare Dino Buzzati e le sue storie dipinte; proprio come lo scrittore bellunese, Cocteau non scindeva quasi mai le immagini dei suoi disegni dalla parola scritta rimanendo sé stesso nelle vesti di pittore, di drammaturgo, di poeta, di cineasta, di critico e perfino di designer di moda.
La mostra di Palazzo Venier reca un titolo emblematico, La rivincita del giocoliere, e testimonia l’ambizioso intento di condensare le tante anime dell’uomo che amava circondarsi, attingendone l’energia creativa, di grandi artisti con diversa estrazione, da Picasso a Edith Piaf, da Tristan Tzara a Coco Chanel. Ma il valore di rivincita, in questa prima vera antologica, sta soprattutto nel consacrare il profondo valore artistico di una figura che, pur introdottissima nell’establishment culturale parigino, fu sempre guardata con snobismo proprio per quel suo inafferrabile eclettismo. A cominciare dai surrealisti, a cui lui fortemente si ispirò sia in una grafica carica di simbologie magiche e oniriche, sia soprattutto nel cinema visionario. Basti pensare alla scena della trasformazione di Lee Miller da statua a figura umana nella pellicola Le sang d’un poete; o a quella di Orfeo che attraversa lo specchio verso l’aldilà. Eppure Andrè Breton, che dei surrealisti era il padre nobile, ne rifiutò l’adesione al gruppo, ufficialmente per la sua omosessualità sempre pubblicamente dichiarata, e spesso presente nei testi come nelle immagini. Il curatore della mostra Kenneth E. Silver, tra i più autorevoli storici di Cocteau, ha selezionato disegni, opere grafiche, arazzi, gioielli, documenti, libri, riviste e film, dagli anni Trenta ai Sessanta, ripercorrendo il viaggio del «giocoliere» che non seppe mai scindere l’arte dalla verità della vita, senza nascondere pulsioni e fragilità, come la dipendenza dall’oppio cominciata a seguito della prematura morte dell’amante Raymond Radiguet.
L’esposizione di Venezia incarna però anche il concetto di genius loci, dal momento che proprio con una mostra dedicata a Cocteau ebbe inizio nel 1938 la carriera artistica della mecenate Peggy Guggenheim nella galleria londinese Guggenheim Jeune, un sodalizio simbolicamente rappresentato da uno dei disegni esposti, intitolato La paura dona le ali al coraggio. Si tratta di un’opera dipinta a grafite, gesso e pastello su un grande lenzuolo di lino, la più grande da lui mai realizzata, con quattro figure allegoriche tra cui il suo compagno Jean Marais. L’opera, che fu bloccata alla dogana britannica perché ritenuta scandalosa a causa degli evidenti peli pubici sul nudo maschile, resta misteriosa, forse creata come metafora della causa repubblicana antifascista nella guerra civile spagnola. Scandalosa o no, quell’opera venne recuperata da Peggy, ed è uno dei tanti disegni a sfondo erotico (e omosessuale) in mostra a Palazzo Venier, come la serie delle falliche Mandragore del 1936, quella dei Marinai, i Due uomini abbracciati Jean e Jean (l’artista e il compagno Marais), il ritratto del pugile panamense Al Brown (ennesimo dei suoi amanti), quello alquanto bizzarro del dadaista Tristan Tzara intitolato Palle giganti; e non da ultimi il corpo di Eduard Dermit, il figlio adottivo presente anche nel cast del film Il testamento di Orfeo del 1950.
Il mito di Orfeo – nella pellicola interpretato dall’onnipresente Marais – era un’ossessione ricorrente nei disegni, nei film e nella serie dei gioielli del suo brand creato nel dopoguerra e antesignano delle future liaisons tra arte e moda, con la collaborazione di Cartier e della stilista Elsa Schiaparelli. L’apice di questa instancabile giocoleria risplende sulla spada di oro e pietre preziose da lui progettata nel 1955 e prodotta da Cartier per l’elezione all’Académie française ed eccezionalmente prestata dalla collezione della maison francese. Cocteau ne decorò l’impugnatura con il profilo di Orfeo, con la lira sull’elsa (altro simbolo legato al mito greco) e la stella a sei punte che accompagna la sua firma in quasi tutte le opere. Sulle ragioni di questo «avatar», l’artista spiegò che Orfeo «è come un thriller che attinge sia al mito sia al sovrannaturale, una terra di nessuno che è il crepuscolo dove fioriscono i misteri».