Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  aprile 19 Venerdì calendario

Intervista a Roby Facchinetti

Roby Facchinetti, come festeggerà gli ottant’anni il primo maggio? 
«Ho sette nipoti, provi a indovinare...» 
Le canteranno «Cento di queste vite»? 
«Lei scherza, ma Mia (la figlia di Francesco Facchinetti e Alessia Marcuzzi, ndr) suona benissimo “Dammi solo un minuto” al pianoforte».

Talento di famiglia. 
«Mica è stato sempre facile per me. Lo racconto nell’autobiografia “Che spettacolo è la vita”: sono nato ad Astino, nella Bergamasca, da una famiglia umile e tutti i giorni mi facevo dieci chilometri a piedi per andare prima a scuola e poi al doposcuola». 
La terra di papa Roncalli. 
«Nella mia vita ho incontrato quattro Papi ma lui ha un posto speciale nel cuore. Lo sa che io prego ogni sera? Quando ero bambino a casa mia si recitavano due rosari al giorno. A me adesso la preghiera aiuta nel conforto serale». 
Ottant’anni ma lei è in piena attività. Concerti con i Pooh «ritrovati», serate, libri. 
«Se un giorno mi sveglio senza niente da fare mi viene l’ansia, che ci posso fare?». 
È sempre stato così? 
«Io me li ricordo gli inizi, difficilissimi. Eravamo nella seconda metà degli Anni 60, le band musicali avevano tante spese, per esempio l’acquisto degli strumenti, la manutenzione. Io e Riccardo (Fogli, ndr) tante volte ci siamo divisi un panino. Io e lui, poi, non eravamo di Bologna come gli altri, vuoi mettere anche le trasferte?». 
I Pooh sono stati la sua vera famiglia? 
«No, certo, però posso dire di aver trascorso più tempo con loro che con le mie mogli e con i miei figli». 
Oggi, a distanza di quasi sessant’anni dagli esordi, qual è secondo lei il grande merito musicale dei Pooh? 
«Abbiamo imposto un canone, abbiamo inventato un nuovo modo di fare musica». 
Come i Pink Floyd. 
«Non amo i paragoni e poi sono due cose diverse». 
Però Paul McCartney stravede per voi, lo ha scritto lei. 
«Abbiamo venduto oltre ottanta milioni di dischi nel mondo, faccia lei».
Piccolo gioco della torre? 
«Ahia». 
McCartney o Lennon? 
«Premessa: McCartney è un artista straordinario, versatile e innovativo. Però il carisma di Lennon è qualcosa di unico». 
Phil Collins o Peter Gabriel? 
«Qui sono sicuro, preferisco Collins. Secondo me è lui la vera voce dei Genesis». 
Yoko Ono o Patty Pravo? 
«Che cattiveria». 
Risponda. 
«Patty Pravo. Questa non se l’aspettava, eh?». 
No, perché la leggenda narra che quando lei vi «portò via» Riccardo Fogli...
«Sia messo agli atti: io penso che Patty Pravo sia stata una delle pochissime italiane davvero “dive”. Mi ricordo bene quando lei stava con Riccardo e capitava di incrociarla in qualche città: pellicce, Rolls con vetri oscurati, camere d’albergo blindate. Una volta sotto al nostro hotel vedemmo una folla di trecento persone ed erano tutte lì per lei». 
Lei però ha conosciuto anche Yoko Ono. 
«Come ho detto, sono un fan di Lennon e una volta, a New York, incontrai Yoko proprio vicino al luogo dove John era stato ucciso. Ero con gli altri “ragazzi” e così le chiedemmo di fare una foto assieme. Lei, smentendo ogni maldicenza nei suoi confronti, fu gentilissima, anche se ci pregò di non fare la foto proprio lì. E giustamente, aggiungo». 
Le sane radici bergamasche l’hanno protetta abbastanza dagli «eccessi» di una vita da star? 
«Molto, pensi che io non fumo nemmeno le sigarette. Una volta però a New York ci regalarono un pacchetto di sigarette alla marijuana. Io e Dodi decidemmo di provare, sicuri che ci avrebbe fatto suonare da dio. Poi però salimmo sul palco e mentre gli altri intonavano il primo brano, io e Battaglia passammo subito al finale. Eravamo fattissimi! Inutile dire che quella per me fu la prima e ultima volta».
Niente alcol? 
«Una volta eravamo a Maui, alle Hawaii e io avevo passato una notte insonne per comporre “La mia donna”. Ero così euforico che la sera dopo, al ristorante, mi feci tre cocktail Mai Tai a stomaco vuoto. Tutto cominciò ad apparirmi doppio, vedevo due Canzian, pensi lei. Anche qui, prima e ultima sbornia della mia vita, oggi colleziono vini pregiati e ho una cantina con 2.500 bottiglie, soprattutto rossi». 
Lei tifa Atalanta. 
«Naturalmente. E le racconto una cosa divertente. Quando a Bergamo arrivò Pippo Inzaghi, gli dissi di venire a casa mia per un servizio sui tifosi famosi. Pippo arrivò e entrò dalla taverna, dove c’era mia moglie Giovanna che aspettava l’elettricista. Non lo riconobbe e così lo accolse con un “Ah, meno male è arrivato, allora il quadro elettrico è lì, veda che cosa riesce a fare”». 
Il suo vero nome è Camillo, perché ha scelto Roby? 
«Perché all’epoca andava il diminutivo anglofono, tipo Tony o Ricky, ma in principio avrei dovuto chiamarmi Ferdinando. Poi, qualche giorno prima di partorire, un dubbio atroce assalì mia madre: e se mi avessero chiamato “Ferdinando faccia de bambo”?». 
Roby, nel 1976 lei compose una canzone, «Pierre», che affrontava un tema ancora tabù per l’epoca, l’omosessualità. Come nacque? 
«Dalla sensibilità di un grande poeta come Valerio Negrini, che scrisse il testo sulla mia musica. Vede, il fatto che noi Pooh abbiamo scelto di non avere alcun colore politico, si è rivelato azzeccato perché ci siamo sempre sentiti molto liberi nella sperimentazione, sia nei testi che nella musica. Oddio, è anche vero che, proprio per il fatto che non ci siamo schierati, in quegli anni ci hanno subito messo a destra: se non prendevi posizione a sinistra, voleva dire automaticamente che eri dall’altra parte, assurdo».
Nessuna contestazione tra gli Anni 60 e 70? 
«Ricordo una molotov che sfiorò il palco dove stavamo suonando, al teatro di Salerno. E naturalmente la follia della serata al Vigorelli di Milano il 5 luglio 1971, quando il Cantagiro ospitò i Led Zeppelin. Noi portavamo “Tanta voglia di lei”, ma la gente non voleva sentire le melodie italiane, voleva solo Robert Plant e compagni. Quanti pomodori prendemmo quella sera noi, Gianni Morandi, Lucio Dalla, i Ricchi e Poveri...». 
È vero che lei ha strumenti musicali preziosi? 
«Diciamo storici, come la tastiera Hohner che avevano impiegato i Them per incidere la hit “Gloria”, l’organo Hammond L122 con il Leslie dei Procol Harum. Con i Pooh sono stato il primo a usare questi strumenti in Italia».
Nel 2023 il vostro album «Parsifal», pietra miliare del prog italiano, ha compiuto mezzo secolo. 
«Ma lei lo sa che solo oggi, cinquant’anni dopo, ho capito quanto sia stato importante? È difficile valutare un brano appena nato. Per esempio, noi eravamo convinti che la canzone “In silenzio” sarebbe stata un successo, ma oggi tutti ricordano il lato B di quell’album, “Piccola Katy”». 
Roby, qual è l’antidoto alla noia? 
«La convinzione che ogni volta che suono so che davanti a me ho persone diverse, perché per fortuna il pubblico cambia e cambio anche io»