Corriere della Sera, 19 aprile 2024
I segnali economici degli usa
In un ordine internazionale che si incrina ogni mese di più, è facile restare ipnotizzati dal caos e farsi sfuggire ciò che si muove nel senso contrario. Due guerre drammatiche alimentano la percezione di perdita di controllo degli Stati Uniti sul sistema di relazioni formatosi dopo il 1989. Eppure, a guardare sotto la superficie, per alcuni aspetti l’America non ha bisogno di essere resa «great again»: grande lo è già, e sotto certi parametri lo è come non lo era mai stata.
In particolare i fatti, almeno loro, se solo si prova a metterli in fila, raccontano una storia più complessa dalla narrazione trumpiana di un’America prigioniera di un inarrestabile declino. Anche quando nuove crepe si aprono di continuo. Il Medio Oriente è scosso da un conflitto più pericoloso di quelli degli anni Settanta. All’uscita dal Golfo Persico, dove passa quasi un quinto della produzione mondiale di greggio, la Guardia rivoluzionaria di Teheran ha già sequestrato due cargo in pochi mesi. Il traffico nel Mar Rosso è più che dimezzato a causa degli attacchi degli Houthi filo-iraniani, che le poderose missioni navali euro-americane non riescono a sopprimere. La Russia, terzo fornitore di petrolio con circa un decimo della produzione mondiale, è sotto sanzioni di un’ampiezza mai vista nella storia a causa dell’aggressione all’Ucraina.
I l Cremlino e Riad intanto stanno orchestrando un profondo taglio di produzione dell’Opec «plus» (un club che ora include anche Mosca) per far salire i prezzi e strizzare fino all’ultimo dollaro o euro dalle tasche dei consumatori occidentali. E dopo i 350 missili e droni lanciati per la prima volta direttamente verso Israele da un Iran il cui programma nucleare militare è ormai esplicito, fermare la spirale fra i due Paesi sembra sempre più difficile.
Sono tutti segni, innegabili, che l’ordine internazionale a guida americana è oggi sotto attacco. Eppure, si parva licet, guardate dov’è il prezzo del petrolio. È un po’ più alto di un anno fa, certo. Ma nell’ultimo paio di settimane è sceso di quasi il 6%, malgrado le ritorsioni in corso fra l’Iran e Israele che rischiano di trascinare l’intero Medio Oriente in una guerra senza precedenti. Una volta corrette per l’inflazione, le quotazioni del greggio sono ancora perfettamente nelle medie degli ultimi vent’anni: come se lo scacchiere internazionale fosse perfettamente pacificato, anziché destabilizzato in profondità. E naturalmente tutto può ancora accadere, inclusa una nuova fiammata dei prezzi; ma se lo stesso fosse successo anche solo dieci anni fa, la quotazione del barile sarebbe già esplosa e l’Occidente sarebbe già alle prese con un’altra ondata d’inflazione a doppia cifra, tassi alle stelle, cadute dei mercati finanziari, violenta perdita del potere d’acquisto e ulteriore impoverimento dei ceti più fragili. La stagione che stiamo attraversando, già difficile, sarebbe ancora più dura.
Invece almeno per ora non accade. La ragione principale di questa piccola isola di relativo ordine nel caos si trova negli Stati Uniti. Negli ultimi dieci anni sono diventati il principale produttore di greggio al mondo, davanti all’Arabia Saudita: non solo perché hanno il petrolio di scisto nel sottosuolo, ma soprattutto perché hanno investito immense quantità di capitale e sviluppato nuove tecnologie di estrazione. Già solo questa svolta ha messo un calmiere sulle quotazioni e drasticamente ridotto il potere di ricatto dell’Opec allargata alla Russia. Negli ultimi quindici mesi il cartello ha tagliato la propria produzione di due milioni di barili al giorno, per far salire i prezzi. E gli Stati Uniti – seguiti dal Canada e dal Brasile – hanno incrementato la loro di altrettanto.
Naturalmente non tutto è così semplice. Per quanto tenga Teheran sotto sanzioni, ora rafforzate, la Casa Bianca di Joe Biden ha permesso all’Iran di triplicare la produzione di greggio in modo da tenere sotto controllo i prezzi per il consumatore (e l’elettore) americano. Per lo stesso motivo anche le sanzioni sul petrolio russo sono più morbide del necessario: il necessario, ovviamente, a fermare l’apparato militare-industriale del Cremlino.
Ma la traiettoria di fondo non corrisponde affatto alla retorica sul declino americano. È vero il contrario, almeno sul piano economico, produttivo, dell’innovazione, delle tecnologia e dei mercati finanziari. Quella degli Stati Uniti è l’unica grande economia il cui tasso di crescita sia stato rivisto fortemente al rialzo, ancora una volta, nelle ultime previsioni del Fondo monetario internazionale. Solo nell’ultimo anno il Paese ha integrato e messo al lavoro tre milioni di nuovi immigrati – il triplo delle attese – eppure viaggia ancora su un regime di piena occupazione. Un’altra è che continua a trasformare il mondo con sempre nuove ondate di innovazione. In confronto, l’Europa è quasi irrilevante e la Cina ha perso la direzione. Anche per questo il reddito per abitante in America è ormai circa doppio rispetto all’Italia e al Giappone, di un terzo sopra la Germania (anche parametrato al potere d’acquisto di un dollaro o euro in ciascun Paese). E anche per questo le borse americane ormai pesano per la metà dei mercati mondiali.
«It’s not only the economy, stupid», si potrebbe dire parafrasando Bill Clinton. In questa epoca geopolitica e populista tanto altro entra nell’equazione, certo. Ma i racconti sul declino irreversibile dell’America sono ampiamente esagerati.