Corriere della Sera, 19 aprile 2024
Intervista a Maria Franca Ferrero
«Lui mi corteggiava e io gli confessai: non amo il cioccolato»: Maria Franca Fissolo Ferrero è la persona che per più di 50 anni ha condiviso idee e scelte con Michele Ferrero. «Si inventò il nome Nutella in due ore».
a casa di Alba è in collina, dalle finestre e dal giardino la vista è quella della fabbrica della Nutella: «Michele aveva sempre nella testa l’azienda ed era felice di averla anche negli occhi. Quando siamo arrivati qui ha detto soltanto: “Si vede bene”». Maria Franca Fissolo Ferrero è la persona che per più di cinquant’anni ha condiviso ogni idea e ogni scelta con Michele Ferrero, l’uomo che ha rivoluzionato più di ogni altro l’idea degli snack, inventando decine di prodotti, dall’ovetto Kinder ai Tic Tac, oltre naturalmente alla Nutella.
«Mio marito aveva sempre idee un po’ strane, era un uomo particolare: studiava, osservava, non stava mai fermo e voleva continuamente sperimentare. Nella memoria vedo sempre un uomo con il grembiule bianco che fa test e assaggi in laboratorio. Quello era il suo mondo. Mai una foto, mai un’intervista, mai in televisione, mai a un evento pubblico. Voleva stare lontano dai riflettori e non gli piaceva mostrare il benessere che aveva conquistato, nemmeno a Enzo Biagi, che stimava moltissimo, rilasciò l’intervista televisiva».
«Interprete in azienda»
Molti anni dopo accettò di raccontare la sua vita a chi scrive ma con un patto categorico, che pubblicassi il nostro colloquio solo dopo la sua morte: «Finché sono in vita non voglio si possa dire che ho parlato con un giornalista».
Anche la signora Maria Franca, che è presidente di «Ferrero International», ha fatto della riservatezza la cifra della sua esistenza e se oggi ha accettato di raccontare la sua vita con Michele Ferrero è perché ci tiene che resti memoria di un sodalizio che ha segnato la storia italiana del costume e dei consumi, che ha inaugurato un modo nuovo di stare in fabbrica e ha innovato il welfare aziendale. Ma anche per parlare di una storia d’amore. «Il nostro è stato un rapporto profondo, abbiamo condiviso tutto: entusiasmo, successi ma anche dolori e fatiche. Non è sempre stato rose e fiori, ma ci aiutava il fatto che parlavamo tantissimo».
Una storia, la loro, nata da una serie di «no». «Avevo studiato per diventare interprete e parlavo inglese, francese e tedesco, ero appena tornata dalla Germania quando mi assunsero alla Ferrero, avevo solo 22 anni e mai avrei pensato che in pochi mesi la mia vita sarebbe cambiata completamente. Uno dei primi giorni mi chiamano ai piani alti e mi dicono che la traduttrice, che veniva da Milano e faceva l’interprete da quindici anni, non stava bene e andava sostituita subito perché stava per cominciare una riunione. Ricordo ancora l’imbarazzo e il timore che avevo: era un incontro in cui si doveva decidere un importante acquisto di cacao, c’erano persone che venivano dall’Africa e altre da Londra. Tutto andò liscio e alla fine Michele Ferrero si girò verso di me e mi disse: “È andata bene, complimenti”».
Il primo invito a cena
Qualche giorno dopo si incontrano all’ingresso, di fronte all’ascensore. Quando si apre la porta lui le fa segno di entrare: «Si accomodi, io vado all’ultimo piano, venga pure, non le voglio far perdere tempo». «Io rimasi ferma e dissi soltanto: “No, grazie. Un’altra volta”. Ci rimase malissimo. Poche ore dopo, la porta del mio ufficio si aprì, Michele fece per entrare ma appena mi vide, si tirò indietro e la chiuse di scatto. I miei colleghi, che erano molto spiritosi, capirono al volo e dissero: “Hai fatto un grosso guaio a questo ufficio”. Lo rividi quando organizzò uno dei suoi test: ogni volta che c’era un prodotto nuovo organizzava assaggi, lo avrebbe fatto coinvolgendo perfino figli e nipoti. Quella volta voleva capire se una scatola di cioccolatini poteva avere successo. Ci invitò a gruppi di tre nella sala riunioni; quando venne il mio turno mi chiese: “Le piace questa scatola?”. Gli risposi poco diplomaticamente: “A dire il vero non sono una divoratrice di cioccolato”. Insistette: “Lei mi sembra una persona di gusto, regalerebbe questa scatola di cioccolatini al suo fidanzato?”. “Le ho già detto cosa penso del cioccolato e il fidanzato non ce l’ho, quindi non so cosa dirle”. Si mise a ridere, e si arrese». La volta successiva fu quando le arrivò la richiesta di fare alcune ore di conversazione con lui prima della partenza per un viaggio in Ghana: aveva bisogno di esercitarsi. Ma lei rispose di nuovo di no, dicendo che c’erano persone più esperte in azienda.
Le chiedo il perché di tutti questi «no»: «Perché le cose dovevano essere spontanee e chiare, senza ambiguità. Aveva 14 anni più di me, solo quando fece un passo diretto e mi invitò a cena, accettai».
La cena si svolse in un ristorante che era appena stato inaugurato a Pino Torinese in occasione dell’Expo «Italia ’61»: «Dalle finestre si vedeva una casa, io continuavo a guardarla e lui mi chiese: “Non trova che sia bella?”». La interrompo: «Ma continuavate a darvi del lei?», chiedo. Maria Franca Ferrero si scioglie in un sorriso, piega la testa di lato, e torna indietro nel tempo: «No, quella sera abbiamo smesso di darci del lei e sono cambiate le nostre vite. Un mese dopo Michele ha comprato quella casa, sette mesi dopo ci siamo sposati e siamo andati ad abitarci. È stata la nostra casa per quasi quindici anni, fino alla telefonata del generale».
Siamo a metà degli anni Settanta, la coppia ha avuto due bambini, Pietro e Giovanni, che sono ormai alle scuole medie, e a fare quella telefonata è il generale Carlo Alberto dalla Chiesa che guidava il Nucleo Speciale Antiterrorismo e aveva base a Torino. «Risposi al telefono e il generale mi spiegò che aveva urgente bisogno di parlare a me e a mio marito e che sarebbe arrivato in mezz’ora. Dopo 25 minuti era alla porta di casa, ma Michele non c’era ancora. Non perse tempo e mi disse: “Suo marito è nella lista degli obiettivi delle Brigate Rosse, è stato pedinato a lungo e abbiamo trovato anche il percorso che fate per portare i bambini a scuola”. Rimasi senza fiato, in silenzio. Lui aggiunse: “È il primo della lista”. Poi andò alla finestra e indicò una villa sulla collina: “Da lì vi controllavano. Dovete lasciare in fretta questa casa”. Quando ci fu anche Michele si fece ancora più netto: “Entro le 7 di sera in questa casa non ci deve più essere nessuno, neanche i bambini”. Poi disse che li avrebbero portati al Collegio di Moncalieri e che era già stato tutto organizzato. Io gli risposi che i bambini non li lasciavo soli e che sarei andata a dormire in collegio con loro».
«Una villa bellissima»
La mattina dopo la signora Maria Franca e i bambini avrebbero lasciato il Collegio e sarebbero partiti per Bruxelles. «Cominciavano venticinque anni di pioggia...», ricorda lei. Il marito invece si nascose da amici nelle Langhe, per poter continuare a seguire l’azienda.
«Abitavamo in albergo e io cercavo una casa, ma la città mi dava una grande ansia, amavo la natura e non sopportavo tutto quel cemento. Nei miei giri però scoprii un’area che confinava con un bosco e con Michele cominciammo a passare i fine settimana a camminare in quella zona. Un sabato pomeriggio scoprimmo una villa bellissima che sembrava disabitata, invece c’era un custode che ci raccontò che la proprietaria, una centenaria, era scomparsa da poco e che il figlio era un produttore di cioccolato. Michele lo conosceva e dopo un lungo corteggiamento lo convinse a vendercela, è stata la casa più bella della mia vita».
Tra i ricordi che le sono più cari c’è il pomeriggio in cui suo marito inventò il nome Nutella: «Eravamo a Francoforte dove c’era stata una celebrazione della nostra attività tedesca. Alle 17.30 tornammo in albergo, c’era anche sua madre e dovevamo andare a cena alle 18, come si usava in Germania. Lui però disse che sarebbe uscito un attimo. La finestra della stanza affacciava sul Meno e lo vedevo camminare avanti e indietro lungo il fiume insieme al suo più stretto collaboratore, Severino Chiesa. Passò mezz’ora, poi un’ora, sua madre impaziente voleva scendere a chiamarlo, io la trattenevo dicendole che doveva avere qualcosa di importante per la testa. Dopo due ore scesi io e lo incrociai nella hall, salimmo in ascensore e lui mi disse: “Maria, non dirmi niente, la mia testa deve essere libera, lasciami ancora un momento di tempo perché ci sono quasi arrivato”. Si mise alla finestra a fissare il fiume e poi si girò e mi disse: “Nutella”. Io lo guardai come si guarda un matto e gli dissi: “Ma di cosa parli? Cos’è Nutella?”. E lui, come se avesse una visione, mi rispose: “È il nome del prodotto che correrà nel mondo”. Avrei rivisto quella febbre negli occhi per l’idea dell’ovetto Kinder: per convincere le mamme e le nonne a comprarlo, mi spiegò, doveva metterci più latte e meno cacao e una sorpresina dentro. E poi si illuminò: “Sarà Pasqua tutto l’anno”».
Da un’incidente in Costa Azzurra nasce invece l’idea della «Fondazione Piera, Pietro e Giovanni Ferrero» che presiede: «Eravamo in un ristorante sul mare, alla fine del pranzo Michele mi disse che aveva sonno e che avrebbe fatto un pisolino in auto prima di ripartire. Io andai a fare una passeggiata sulla collina, scendendo però caddi: non riuscivo più a camminare e non c’erano i telefonini. Quando si svegliò e non mi trovò venne a cercarmi: mi ero rotta il ginocchio. Quella sera, tornati a casa dal Pronto Soccorso, parlammo a lungo e lui mi disse: “Mentre eravamo in ospedale ho pensato a quante cose belle abbiamo fatto nella vita, siamo stati molto fortunati, ma manca qualcosa di grande, qualcosa che restituisca ciò che abbiamo avuto”. Così è nata la Fondazione Ferrero. Abbiamo fatto cose di cui sono molto orgogliosa, tra cui offrire una diversa qualità di invecchiamento a tutti coloro che hanno lavorato con noi: penso alle palestre, ai programmi sociali, all’assistenza sanitaria, ai laboratori ma anche a momenti felici come l’inserimento degli anziani nelle attività che offriamo per i bambini». Un progetto, questo, pluripremiato, tanto che alla signora Maria Franca è stata conferita dal presidente della Repubblica la «Medaglia d’oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte».
Si potrebbe dire che è stata una vita perfetta: «Sono stata fortunata, ma ho perso Pietro che aveva solo 47 anni, e perdere un figlio è disumano. È stato l’unico momento della mia vita in cui ho pensato che avrei voluto morire. Di fronte al mio dolore, al fatto che non riuscissi a farmene una ragione, un sacerdote francese di cui sono molto amica mi disse: “Se perdi un marito sei vedova. Ma se perdi un figlio cosa sei? Il fatto che non ci sia una risposta ci dice che non è umano”».
Sono passati esattamente tredici anni: «Ma mi fa ancora fatica parlarne. È Giovanni che mi aiuta a farlo, mi dice: “Mamma, ricordiamo i bei momenti che abbiamo vissuto con Pietro”. Erano due fratelli che si volevano molto bene e ancora oggi sento il loro affiatamento».
In pochi anni la signora Maria Franca ha perso il fratello, il figlio e il marito: «I dolori della vita cancellano i colori, ti sembra di vivere in bianco e nero. Per fortuna ho cinque nipoti, il più grande, Michele, ha un grande cuore e mi chiama ogni giorno».
Di quello che hanno costruito invece non si preoccupa: «La Ferrero continua a crescere, Giovanni ha portato avanti l’eredità del padre».
«La foto della nostra intesa»
L’intervista è finita, il the si è freddato nella tazza, lo ha dimenticato due ore sul tavolino rapita dai ricordi, ma si concede un pasticcino con la panna. Poi le racconto che per anni negli archivi dei giornali c’era soltanto una foto di Michele Ferrero, ritratto mentre spegneva le candeline di un compleanno della Nutella. Invece qui, in ogni angolo della casa, ci sono foto di loro due insieme: per la prima volta appare un uomo che sorride, che abbraccia la moglie. Si alza e prende lo scatto che preferisce: «Ricordo di una sera che tornò a casa silenzioso, entrando mi disse soltanto: “Maria, ho un mal di testa che non ho mai conosciuto”. Dovevamo andare a cena da una nostra amica, una pittrice napoletana, pensavo di chiamare per cancellare, ma lui era sempre di parola. Fece uno sforzo e uscimmo. Ci divertimmo e l’emicrania svanì. Alla fine della cena ci fecero questa foto ed è la cosa più cara che ho, perché si vede tutta l’intesa che c’era tra noi». Prima di salutarmi prende un album dalla libreria: «È importante che veda anche questa di foto, è l’immagine che ho sempre di lui, del mio inventore: in laboratorio e con il grembiule bianco».