la Repubblica, 19 aprile 2024
Autobiografia del Führer da giovane
Nel suo pessimismo cosmico, misantropico e apocalittico, Emil Cioran si dice sicuro che il XXI secolo guarderà a Hitler come a un chierichetto. Forse l’iperbole immaginata dal grande nichilista romeno non si è ancora realizzata, ma se ci diamo da fare possiamo ancora farcela. I fantasmi del Novecento sono qui, tra noi sconvolti dalle guerre che bussano alle porte della Terra dei Logos e dei Lumi. Piccoli “caporali boemi” crescono, nelle pieghe di un Occidente snervato dalle policrisi e disamorato dalle democrazie. Politicanti mediocri investono sulla solitudine del cittadino globale, privato della rappresentanza e condannato all’irrilevanza. Elettori impauriti dall’esclusione sociale, traditi dal suffragio universale e storditi dal rancore digitale, tornano a guardare all’uomo o alla donna forte, sperandoli capaci di tagliare con la spada i nodi che gli eletti non sanno più sciogliere. A Berlino e Budapest la Feccia Nera dei partiti neonazisti sfila con gli elmetti svasati, le uniformi, le aquile del Terzo Reich e i cimeli infilati nel cinturone. A Mar a Lago, Donald Trump si prepara a rivincere le elezioni americane, ripetendo che il Führer «ha fatto anche cose buone».Ci vuole coraggio, a rituffarsi nell’abisso dei deliri hitleriani, con l’intento di captarne gli echi del presente. Ma Stefano Massini l’ha fatto, con un testo teatrale che scompone e ricompone il“manifesto politico” dell’uomo-simbolo del Male della Storia:Mein Kampf (Einaudi), cioè il libro proibito, la summa psicologica e ideologica di una mente sadica e forse malata, ma lucidissima nell’inseguire i suoi demoni e nel perseguire i suoi piani. La “biopsia del testo maledetto”, come recita la controcopertina. Il “feroce distillato” della religione nazista, tra l’odio, l’orrore, il culto dell’io e l’esaltazione della massa. Con la cura maniacale del linguaggio e la forza della dramatis personae, Massini ci regala davvero un “potentissimo déjà-vu”. Di Stefano avevamo già imparato ad apprezzare – insieme alla passione civile che vibra nelle sue orazioni giornalistiche e nelle sue apparizioni televisive – anche la capacità analitica e la precisione chirurgica con le quali sa entrare nei meccanismi di costruzione del potere. In Lehman Trilogy era il capitalismo finanziario, con l’ineluttabilità delle sue leggi di mercato. In Mein Kampf è il leaderismo totalitario, con la mostruosità dei suoi dispositivi liberticidi.Tutto comincia dalle parole, dunque, perché “le parole sono fatti”. E nella farneticazione hitleriana, fatti e parole precipitano insieme nel prologo dal quale tutto ha inizio: il rogo di 25 mila libri, a Obernplatz, in una serata di maggio del 1933, epicedio del sogno mitteleuropeo ed epifania dell’incubo nazista. Thomas Mann fugge di casa, Bertolt Brecht diventa un latitante, Stefan Zweig si suicida. Scrittori e intellettuali diventano appestatati: è l’ora di una nuova “egemonia culturale” (vi ricorda qualcosa?). Ma è agli albori del Secolo Breve che bisogna tornare, alla genesi della tragedia che interessa a Massini (e a noi). All’adolescenza del tiranno. A Braunau sull’Inn il giovane Adolf impara a odiare l’ordinaria nullità di vite come quella di suo padre, ossessionato dalla “paga fissa” e da un rovello quotidiano, «quanto ci costa accendere la stufa?»: decide che non diventerà «mai un impiegato». A Vienna, nel 1909, in pieno collasso imperiale vede chiara «la decadenza incontrollata che fa di un popolo un’accozzaglia di dormienti», la disperazione delle masse e la «solidarietà tra schiavi», il «vuoto derelitto» di una borghesia falsissima persa tra cipria e sorrisi: si chiede dov’è finita «la gloria naturale di essere tedeschi?».A Monaco, nel 1912, trova finalmente il capro espiatorio che cercava, «il parassita annidato nelle nostre viscere», che si prende lo Stato e l’industria: e qui, come in una Schindler’s List al contrario, Massini fa scandire al suo Hitlersulfureo un primo elenco di 37 “parassiti”, i Moses e i David, i Goldman e i Rotschild, i Lubitsch e i Liebeskind: non pronuncia nemmeno la parola “ebrei”, lo stigma che trent’anni più tardi costerà il forno crematorio a 6 milioni di loro, ma è sicuro che «non sono come noi», quindi è quella «la cancrena». A Pasewalk, nel 1918, il caporale ferito ma inebriato dalla guerra schiuma tutta la sua bile contro l’imperatore «vile/ codardo/ coniglio», che ha deposto la corona e ha «umiliato l’intero popolo tedesco»: è lì che il futuro dittatore intuisce «l’energia straordinaria della disperazione». All’Hofbrauhaus, una fatidica sera del 1919, il destino infine si compie: il Mein Führer che verrà ha capito tutto, servono solo «pochissime essenziali parole» – che scavino «come gocce, sempre uguali» o che germoglino come semi avvelenati «nel petto, nello stomaco, tra rabbia, orgoglio e paura» – a innescare quel processo irrazionale che fa innamorare gli umani e li rende «ciechi alla ragione», bambini impauriti ai quali devi solo dire «dov’è il bene, dov’è il male». A poco più di trent’anni, con in tasca la tessera numero 7 del Partito dei Lavoratori Tedeschi, Hitler sale fiero sul piccolo palco, di fronte a 2 mila braccia tese e frementi, e parla: «C’era un tempo in cui tu eri Dio…».Finalmente la Storia può cominciare, esattamente doveMein Kampf finisce. E adesso, davvero, de te fabula narratur: il testo di Massini ci restituisce le intuizioni hitleriane di ieri che permeano e intossicano il nostro oggi. L’enorme potenziale racchiuso nella rabbia del cittadino impoverito, dimenticato, escluso. La formidabile energia attrattiva del capro espiatorio, il giudeo, lo zingaro, l’omosessuale, il diverso, lo straniero. L’impatto di una comunicazione semplice, elementare, quasi infantile, perché la massa è per definizione bambina. Il rancore sociale e il dolore esistenziale come inesauribile capitale politico. La perfetta sovrapposizione tra la politica e la propaganda. Cos’altro c’è da aggiungere che non ci parli di noi, qui ed ora? Come non vedere quanto il populismo contemporaneo peschi nello stesso mare di disagi, quanto il sovranismo arrembante attinga tuttora allo spaesamento indotto da istituzioni apolidi e irresponsabili, quanto le nuove leadership autocratiche investano sul livore dei forgotten men che vagano nei non-luoghi della società globalizzata, quanto le destre scommettano sulla ringhiosa revanche di un consenso carpito con l’infamia xenofoba dei “porti chiusi” e con l’inganno della triade posticcia “Dio-Patria-Famiglia”?Per fortuna non c’è un Hitler all’orizzonte, almeno a queste latitudini. Ma nell’ignavia della nostra democracy fatigue, Massini giustamente vede crescere il fascino perverso dell’illiberalismo, mentre nell’eclissi dei partiti e dei Parlamenti si insinua il subdolo virus dell’autoritarismo. «L’inferno è al potere», scrisse Joseph Roth in quel terribile 1933. Chi ci assicura che non possa tornarci?