Domenicale, 18 aprile 2024
Su Alessandro Mendini
T utto (o perlomeno molto) è stato detto e scritto di Alessandro Mendini (1931-2019), l’ultimo dei maestri-giocolieri del Pantheon italiano degli architetti/artisti-/designer/operatori culturali, cui Fondation Cartier pour l’art contemporain e Triennale hanno voluto dedicare un’imponente monografica, nel segno della lunga intesa che ha cementato nel tempo un rapporto speciale di convivenza e di collaborazione.
Chi ha meglio intravvisto il segreto di una figura più drammatica e complessa di quanto non appaia dal glamour mediatico, è stata però l’amica-nemica Lea Vergine che, nel 2016, nel presentare il libro Codice Mendini, spiegava: «si danno persone che non si lasciano chiaramente collocare. Con quella apparenza così mitamente esangue, speziato da un che di imperfettamente umano, chi è veramente l’architetto germanista? Un numismatico, un frate protestante, un teratologo, un sicario, un neoplatonico, un coboldo?».
Chi è stato dunque Alessandro Mendini? È il tema appunto della mostra (fino al 13 ottobre) che si propone l’ambizioso tentativo di raccontare “la vera vita” di questo spiazzante Arlecchino che, in uno sconcertante autoritratto, si definiva «un drago» e non un architetto. Datato al 2006, il disegno si può considerare una sintesi retrospettiva dell’acuta percezione di sé stesso, un accrochage di parti anatomiche corrispondenti a specifiche qualità: testa da designer, mani da artigiano, piedi da artista e gambe da grafico, coda da poeta, corpo da architetto, con l’ironica aggiunta di «petto da manager» e «pancia da prete». È un’immaginifica rappresentazione della sua molteplice attività creativa come sommatoria di parti secondo la logica dell’elenco che ritroviamo in tanti suoi scritti, ma anche la constatazione di come questa sommatoria si realizzi al fine in una figura mitologica connotata tradizionalmente come selvaggia e malvagia e da lui invece ricondotta alla visualità infantile di un cartoon alla Walt Disney.
Costruire per componenti diverse è stato per Mendini un vero e proprio metodo di lavoro, da applicarsi al design, all’architettura, alle riviste dirette e inventate: all’inizio fu l’esperimento del Tea&Coffere Plaza per Alberto Alessi, poi la sua applicazione in grande al Groninger Museum, in Olanda (che precorreva di dieci anni l’effetto Bilbao del Guggenheim di Gehry) sino alla magnificenza delle tre stazioni della Metropolitana di Napoli, forse l’esito più impegnativo della sua visione “invasiva” dell’arte che si distribuisce sui muri e nei vuoti della città reinterpretandone in chiave moderna la sua vocazione barocca.
Applicare tale metodo a sé stessi voleva dunque dire dichiarare la natura polivalente della propria attitudine creativa il cui vero riferimento va rintracciato non nell’eclettismo, ma nel mistero degli Archeologi dei De Chirico. Un mistero che si chiama “memoria”, dispositivo che corre da sempre sotto la pelle del contemporaneo e luogo piscologico che gli artisti usano per rendere presente ciò che il tempo vorrebbe tener lontano. Può sembrare contraddittorio con l’immagine beffarda dell’ex enfant terrible che negli anni del boom del bel design italiano predicava l’astensione dal progetto, il rifiuto di aggiungere merci alla merce in giro per il mondo, di lasciar tracce di sé al punto da distruggere in un rogo purificatore quelle sedie “impossibili” dove non ci si poteva sedere. Eppure il rimuginio sentimentale della memoria, che gli aveva fatto scegliere Proust, il poeta della Recherche, come suo interlocutore ideale, è stato il movimento incessante che gli ha permesso di distruggere la linearità dell’io e disperdere la propria fisionomia in un archivio delirante di «detriti, residui, accumuli, frammenti».
Il vortice della memoria, come insegna Freud, ha origine da una scena primaria: che, nel suo caso, sono le stanze della casa di famiglia in via Jan a Milano: una palazzina disegnata da Portaluppi che il padre, i nonni, gli zii avevano trasformato nel museo domestico delle loro pulsioni collezionistiche. «Sarà un pensiero di autosuggestione – ha più volte ricordato nei suoi scritti – ma ho il ricordo e la sensazione di esser nato in una Wunderkammer»: l’esperienza della “prima casa” si concentra nella dimensione claustrofobica della stanza chiusa, una stanza senza vista, riproposta ciclicamente con la continuità di un filo rosso. La stanza del “drago” ha sempre un sapore autobiografico e rimanda all’epopea della borghesia “infelice” descritta dal cinema di Visconti con il protagonista succube e ribelle al tempo stesso della sua classe sociale, da cui non sa né veramente distaccarsi né mai pacificamente accettare.
Quando negli anni 70 abbandona la pratica professionale nello studio Nizzoli Associati e scopre la sua vocazione di profeta dell’editoria, trasforma la rivista cult del razionalismo italiano – «Casabella» – nell’internazionale degli avanguardismi, mentre progetta oggetti rituali come “valigia per l’ultimo viaggio” e produce lampade senza luce e sedie di paglia e di terra.
Con la poltrona Proust – una sedia finto antica trasformata con la bacchetta magica del colore in un’icona dell’allucinazione visiva – arriva il grande successo internazionale che accetta senza però farsene condizionare. La poltrona della memoria per eccellenza apre la visione di un universo fatto di stelle filanti, di colori e di forme che assomigliano a microbi nel vetrino: li distribuisce come una patina su tutto ciò che attrae la sua attenzione, dichiarando il mondo un’effimera illusione. Un attivismo instancabile (da degno figlio di una borghesia operosa) moltiplica gli effetti della sua opera, in cui qualche psicanalista del design potrebbe scorgere i sintomi della sindrome di Gulliver: giocare sulla scala degli oggetti, far grande ciò che di solito è piccolo (la smisurata Proust che attende i visitatori all’ingresso), e piccolo ciò che è grande, come l’architettura. È la tecnica del détournement per scuotere il torpore delle abitudini, cui tuttavia non si sottrae nella solitudine eremitica della sia vita personale.
Nella casa studio milanese trascorre le domeniche mattina a disegnare mostri, draghi e cavalieri. Un disegno al giorno, sempre su fogli della stessa dimensione; sempre la stessa tecnica tribale di un segno tra l’infantile e il primitivo. Una fodera di mostri da camera, una grotta di Lescault in formato milanese.
Si guarda attorno e si accorge di essere diventato «architetto di prigioni dorate», circondato solo da cose conosciute: è la versione mentale della Malinconia di Dürer, anticipazione di quel testamento a futura memoria che nel 2016 gli fece progettare in Triennale l’ultima stanza della sua vita: Le mie prigioni.