Domenicale, 18 aprile 2024
La Loggia di Galatea alla Farnesina
Mentirono gli astri o gli astrologi, promettendo ad Agostino Chigi lunga vita, matrimonio nobile e prospera discendenza? A quel che pare, chi compilò il suo oroscopo spostò di due ore il momento della nascita per avere un responso più favorevole. Ma Agostino non riuscì a sposare una Gonzaga come voleva, morì a 56 anni e il patrimonio finì col passare al fratello rimasto a Siena: quasi secondo quel che diceva la vera genitura (la posizione degli astri alla nascita), scoperta dagli studiosi secoli dopo. Questa è una delle molte storie che s’intrecciano nel libro di Costanza Barbieri sulla Loggia di Galatea alla Farnesina, nella cui volta Baldassarre Peruzzi dipinse l’oroscopo per immagini. La traboccante erudizione, i dati e le ipotesi di Barbieri s’innestano su una bibliografia in crescendo, come nel corposo libro di James Grantham Turner, The Villa Farnesina: Palace of Venus in Renaissance Rome (Cambridge University Press, 2022), che Barbieri non ha fatto in tempo a citare; e non sono poi tanto remoti i due volumi dei Mirabilia Italiae (Panini) dedicati alla Farnesina nel 2015 da Christoph Luitpold Frommel.
Come dice Turner, il nome giusto per questo iconico edificio del primo Rinascimento sarebbe “Villa Chigi”: fu Agostino Chigi, ricchissimo mercante, ad affidarne progetto e decorazione al suo concittadino Peruzzi, e i Farnese se ne appropriarono nel 1579. La costruzione iniziò nel 1506, e quando il committente vi si trasferì a metà 1511 l’impresa pittorica era già in corso, ma alla sua morte (1520) rimase interrotta. Guardando all’intero complesso chigiano, Turner insiste sul rapporto col paesaggio naturale di riva Tevere e col giardino ornato di sculture antiche (a cui i Lincei hanno dedicato nel 2023 una mostra curata dalla stessa Barbieri e da Alessandro Zuccari, «Raffaello e l’antico nella villa di Agostino Chigi»). Barbieri mette invece a fuoco un solo ambiente della Villa, forse fra tutti il più celebre e discusso; il suo minuzioso esame di ogni immagine, con nuove proposte di lettura, ci invita a ripercorrere alcuni dei punti più problematici.
Peruzzi congegnò l’oroscopo sulla volta della Loggia (1511) impaginandovi la mappa del cielo (costellazioni, segni dello zodiaco, “decani” e “ascendenti” astrologici). C’è voluto quasi un secolo, in serrato dialogo fra studiosi, per capire che si tratta dell’oroscopo di Agostino, e per “leggerlo” correttamente. Primo a sospettarlo (1926) fu Warburg, e il suo stretto collaboratore Fritz Saxl sviluppò questa intuizione nel 1934, fissando la nascita del Chigi al 1° dicembre 1466. Trent’anni dopo Willi Hartner rifece i conti e la spostò al 28-30 novembre di quell’anno, e finalmente Ingrid Rowland (1984) scovò in archivio il momento esatto della nascita: 29 novembre 1466, «a ore 21 ½». Questa conversazione sulle immagini dipinte ben corrisponde, secoli dopo, alle intenzioni di Agostino Chigi. In un poema celebrativo in esametri composto nel tardo 1511 da Blosio Palladio si legge infatti: «…e dopo che avrai ammirato le opere [della Villa], ti invito ad apprezzarne il significato nascosto (quod latet), e quale discorso si cela dietro un pensiero velato». Era questa l’etica del conoscitore-umanista, espressa già trent’anni prima da Giovanni Augurelli: «…e se di fronte a un’immagine dipinta molti esprimono le opinioni più varie senza trovarsi d’accordo, proprio questo è ancor più bello delle immagini stesse».
Palladio loda le sottigliezze degli affreschi senza fare il nome di nessun pittore, e dunque, secondo il costume encomiastico, attribuendo al committente l’inventione dei soggetti. Ma accanto al Chigi operava il coltissimo segretario Cornelio Benigno, già indicato in questo ruolo da Roberto Bartalini. Una cultura antiquaria allora in vibrante fioritura, nutrita di fonti latine e greche ma anche dei marmi antichi che andavano muovendosi dalle rovine alle case, fu incoraggiata quando nelle fondamenta della Villa emersero cospicui resti antichi, ancor visibili negli ambienti ipogei. È qui che in scavi del 1878-79 emersero gli splendidi affreschi di una villa di età augustea, ora a Palazzo Massimo. Una villa sopra l’altra, a 15 secoli di distanza: simbolo e metafora della renovatio Urbis.
La decorazione a fresco delle pareti della Loggia cominciò con le lunette di Sebastiano del Piombo e il dittico di Polifemo e Galatea equamente diviso fra lui e Raffaello, ma rimase incompiuta. Delle sette campate dell’ordine principale, solo due furono dipinte (Polifemo e Galatea, appunto), le altre restarono vuote (furono riempite nel Seicento da generici paesaggi), e non sappiamo che cosa vi fosse previsto. Delle nove lunette una sola non rappresenta un mito greco, ma una gigantesca testa a monocromo, anch’essa indizio di un lavoro non-finito. Estraneo per tecnica, fuori misura e fuori tema, è un pezzo di bravura a cantiere aperto, una gran prova nell’esercizio del disegno (dovuta al Peruzzi o a Sebastiano?): se mai la Loggia fosse giunta a compimento avrebbe dovuto esser coperta dall’intonaco affrescato.
Anche se qualcuno ha parlato di «improvvisazione geniale», non c’è dubbio che un’idea-base guidasse la concatenazione dei temi anche nel registro principale e nelle lunette; e l’avrà forse escogitata Benigno. Ma al gusto di Agostino si deve la scelta davvero autoriale di inscenare nella Loggia un inedito confronto di stili, spaccando a metà una stessa scena del mito (Polifemo e Galatea) e ripartendola fra un supremo maestro del disegno, Raffaello, e un altissimo adepto del colore alla veneta, Sebastiano, che Agostino aveva portato con sé da Venezia pochi mesi prima. Vasari si stupiva di quell’intrusione, ricordando gli «archetti [dove] Sebastiano fece alcune poesie di quella maniera ch’aveva recato da Vinegia, molto disforme da quella che usavano in Roma i valenti pittori». “Poesie” era a Venezia termine quasi tecnico, a indicare la sottigliezza d’invenzione messa a punto da Giorgione fra il vecchio Bellini e il giovane Tiziano, come risulta dalle lettere fra Isabella d’Este, Pietro Bembo e Bellini.
Il confronto di stili era un nuovo, impensato ingrediente di quel continuo conversare sull’arte. Isabella, «la prima donna del mondo», inaugurò nel suo Studiolo di Mantova il paragone fra artisti di inclinazione difforme, accostando a Mantegna il Perugino e Lorenzo Costa, e cercando invano di aggiungervi Leonardo e Bellini. Agostino Chigi radicalizza il confronto trapiantandolo da una serie di tele all’affresco, e con viva sprezzatura costringe due pittori tanto diversi entro due metà di una sola scena. Quando morì d’improvviso l’11 aprile 1520 (cinque giorni dopo Raffaello) il suo funerale fu «il più gran trionfo che si vedesse in Roma da cinquant’anni», scrive un diarista francese. Era un omaggio alla ricchezza e al potere; quanto alla cultura e al gusto, a suo monumento perpetuo resta la “Farnesina”.
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Costanza Barbieri
Gli astri benigni di Agostino Chigi. Peruzzi, Sebastiano
e Raffaello nella Loggia
della Galatea
L’Erma, pagg. XIV-256, € 50