La Stampa, 18 aprile 2024
Sugli studenti si deve investire
Aprile è il più crudele dei mesi. L’ha scritto Eliot e ho il sospetto che fosse un insegnante anche lui, perché aprile è proprio il mese in cui fioriscono le proposte, i dibattiti, di disegni di legge, le polemiche su quell’entità multiforme che è la scuola. Come una specie di tardiva sorpresa dell’uovo di Pasqua, ad aprile, forse complice il risveglio della natura, si ridesta anche il desiderio di introdurre cambiamenti significativi in grado di migliorarla con efficacia e in tempi brevi. Devo ancora raccapezzarmi su cosa sia il Capolavoro, che io pensavo fosse soltanto la canzone di un celebre trio, e invece è la novità più recente entrata come un bomber a gamba a tesa a far parte dell’esame di Stato (perché è sempre bello, a due mesi da un esame mantenere alta la concentrazione dei partecipanti, cambiando un po’ le regole mentre si gioca). Ma con il profilarsi all’orizzonte degli scrutini, si avvicinano anche le nuove norme con cui dovranno fare i conti docenti e discenti. Intanto torneranno i numeri, quanto meno per esprimere il voto di condotta delle medie. Quella dei numeri e dei giudizi sintetici è una coreografia a cui si assiste ammutoliti da anni, un’alternanza combattuta a colpi di “adeguato” e “inadeguato” che diventano 6 e 5. Sembra che qualche divinità pagana, dopo un certo periodo, chieda il suo tributo di sangue imponendo di cambiare modalità di comunicazione alle famiglie. Ci sarebbero anche le lettere, statisticamente al prossimo giro di riforme credo tocchi ad A B C. Le proposte che più infiammano il dibattito, però, sono quelle che riguardano le misure draconiane da prendere nei confronti degli studenti rei di aver un comportamento inadeguato. Misure che in larga misura già esistono e vanno semplicemente applicate. Credo che nessuno sia contrario all’idea che chi rompe debba pagare, che a scuola si debba veicolare come le azioni abbiano delle conseguenze: questo è talmente ovvio da risultare pleonastico. Del resto, già ora, sfido a trovare un qualunque regolamento scolastico di un qualunque istituto che non preveda sanzioni per chi è responsabile di azioni pericolose per sé o per gli altri, lesive od offensive nei confronti dei docenti o degli arredi scolastici. La sanzione, la bocciatura quando sono utili e formative sono sacrosante. Ma come molti rimedi dell’ultimo momento, raramente risolutive, da sole. L’idea che basti l’introduzione di una norma più stringente per vedere magicamente sanate le criticità di un sistema è adatta più ai talk show con le tifoserie da stadio che a un dibattito serio. Perché la scuola ha a che vedere con le persone, soprattutto giovani e con quella spiazzante caratteristica tutta dei giovani di evolversi, cambiare e crescere. A volte addirittura di sbagliare. E non basterà mai a cambiare le cose un numero alla fine dell’anno scolastico, una sospensione più lunga, un modulo di cittadinanza e costituzione, materia di tutti e di nessuno, senza ore e senza docenti, spartita e gestita come si può e quando si riesce. Accanto ci deve sempre essere un investimento, concreto ma anche morale, sull’altra funzione della scuola, quella non meramente punitiva ma soprattutto educativa, fatta di dialogo, di tentativi inesausti, di ascolto e di supporto. Che non significa schierarsi e dividersi in nostalgici delle bacchettate sulle nocche e buonisti dalla giustificazione facile, perché la scuola è fatta di cinquanta, cento sfumature, di giornate faticosissime e di soddisfazioni piccole, di un passo avanti e due indietro, di approcci diversi, esperimenti, confronti. L’esclusione, la bocciatura, l’espulsione servono se accanto c’è anche qualcosa che aiuti a ricostruire e a ricostruirsi. Perché uno studente con una condotta “inadeguata”, al netto di tutti i disegni di legge, una volta che vede scritto il suo 5 in condotta con la conseguente perdita dell’anno, può anche permettersi il lusso di scrollare le spalle e infischiarsene, dicendo che non è affar suo. Ma di quello che farà una volta fuori dalle aule, del comportamento che terrà fuori dalla scuola, di quello non possiamo infischiarcene noi. Perché è affare di tutti. —