La Stampa, 18 aprile 2024
Intervista a Enrico Mentana
L’ufficio di Enrico Mentana nella sede de La 7, a Roma, è pieno di scatoloni. «Ma non vado da nessuna parte». Al mattino Fiorello ha parlato, tra il serio e il faceto, di un passaggio a Discovery. Il direttore sorride, per un po’ tace, poi: «Non ho difficoltà a dire che il mio contratto scade il 31 dicembre del 2024. Quindici giorni dopo compio 70 anni, cosa mi metto a fare?».
Ne fa un problema di anagrafe?
«Per carità, solo i cattolici per il matrimonio dicono che non si cambia mai, ma ho fatto nascere il Tg5, rinascere il Tg La7 che Piroso aveva già avviato molto bene, ho condotto due telegiornali molto improntati su di me».
Stanco?
«No, ma me ne sono sempre andato quando non c’erano le condizioni per lavorare bene. È successo alla Rai nel ’92 e a Mediaset nel 2009. Erano vigilie cruciali: la prima un anno prima di Tangentopoli, la seconda due anni prima della fine dell’era Berlusconi. Non è un caso: quando le cose in un’azienda filano sei libero, quando non filano più, e ti accorgi che non le puoi più fare, te ne vai».
Cosa pensa di questa campagna acquisti del Nove?
«In tre-quattro anni ha traslocato Crozza, Fazio e Amadeus. Non mi pare la rivoluzione d’ottobre».
È solo mercato?
«È mercato e lo dobbiamo vivere laicamente».
Non può esserci anche una questione di clima ostile, di ingerenze esagerate?
«Se uno se ne va dalla Rai quando comanda il centrosinistra si dice in un modo, se uno se ne va quando comanda la destra si dice in un altro. Lavorerei molto volentieri in una rete televisiva con Amadeus, ma non mi immagino una Rai povera senza di lui».
Magari Amadeus no, ma Fazio è stato accompagnato alla porta con decisione.
«Negli anni ’80-’90 Mike Bongiorno, Raffaella Carrà, Pippo Baudo, Corrado hanno lasciato la Rai per andare a Mediaset. Da quando esiste il mercato esiste l’attrazione per il privato che non deve parametrare i compensi, rendere conto del canone, ha più velocità decisionale perché non ha la politica come editore».
Quindi il problema è la politica.
«Nessun politico ha diritto di rompere le scatole – come fanno a ruoli alternati – rispetto alle cose della Rai, fin quando tutti i partiti saranno editori della Rai. Si parlino in cda e in Vigilanza, ci sono solo loro».
Gli anchor dei tg hanno letto un comunicato Usigrai in cui dicono: non vogliamo essere il megafono del governo. L’assemblea dei cdr e dei fiduciari ha approvato un pacchetto di scioperi, il sindacato di destra si ribella. Qualche problema in più c’è.
«Sono entrato al Tg1 e rimasto lì otto anni quando il direttore non cambiava a ogni nuovo governo, ma a ogni congresso della Dc. Nessuna Usigrai si è mai lamentata del fatto che tre anni fa c’era un unico partito di opposizione».
Fratelli d’Italia, che è rimasto fuori da tutto. Quindi c’è un senso di rivalsa?
«Certo, e non è che stia dicendo “poverini, li dobbiamo capire”. Ma di cosa stiamo parlando? Della campagna elettorale rispetto ai tempi di presenza del governo? È questo l’allarme democratico?».
È uno sbilanciamento.
«Se succedesse a me, agirei di conseguenza. Quando mi è successo da giovane abbiamo scioperato. Quando mi è successo da direttore me ne sono andato. I giornalisti non sono dei soggetti deboli che hanno bisogno di tutele scritte: hanno gli strumenti per denunciare e difendersi».
Quando ha scioperato da giovane?
«Scioperammo contro Craxi presidente del Consiglio per delle prese di posizione proprio rispetto alla Rai. E si sa di che parte politica fossi considerato ai tempi. I giornalisti della Rai devono essere, più degli altri, al di sopra di ogni sospetto».
E invece?
«E invece da sempre ci sono il Tg1 governativo, il Tg2 a destra, il Tg3 a sinistra. Questo era comprensibile e in qualche modo giustificabile per il pluralismo fino a qualche anno fa. Ora è diventato un’altra cosa. Perché l’era dei social ha acuito non lo spirito di appartenenza, ma di fazione, portando alla demonizzazione dell’avversario. Questo ha contagiato i giornali, i lettori, e anche la televisione. E avviene in assenza della politica dei partiti».
Perché in assenza?
«Perché non sappiamo cosa siano. Come tattico, Conte si sta rivelando il migliore, ma non so se sia di destra o di sinistra e non solo perché non sceglie tra Trump e Biden. Ci sono forze come la Lega che hanno pencolato tra destra e sinistra: possiamo dire che Salvini sia di destra, ma Zaia? Quanto al Pd, chi capisce cosa pensa è bravo. Tutto questo ci mette in una terra di nessuno in cui il giornalista deve innanzi tutto dimostrare che ha dei valori lui, è lui il garante della sua indipendenza».
I giornalisti Agi difendono la loro indipendenza da un’azienda partecipata dello Stato che vuole venderli a un senatore della Lega, Antonio Angelucci, condannato a un anno e quattro mesi per falso e tentata truffa. Nonostante l’Eni sia controllata da un ministro dell’Economia anch’egli della Lega. Neanche questo è un allarme democratico?
«Rispetto e condivido le preoccupazioni di quella redazione, ma bisogna fare un discorso di verità sul ruolo delle agenzie. Molte, a partire dall’Ansa, vivono di convenzioni con i ministeri, col governo. Creiamo le condizioni per renderle autonome, cooperative risalenti a fondi costituiti congiuntamente dagli editori. E rendiamoci conto che parliamo di un mondo morente, come quello dei giornali, dei tg».
È così pessimista?
«Il giornalismo spettacolo, che è fatto della materia di cui sono fatti i talk show, è parte del problema. Tu prendi uno di destra e uno di sinistra. Se sei una rete di sinistra ne prenderai di più di sinistra, se sei di destra prenderai i migliori di quelli di destra e quelli un po’ più deboli di sinistra. Ma la logica della contrapposizione, chi la dice nera e chi la dice rossa, è pericolosa».
Perché?
«Perché è binaria, asseconda la contrapposizione dei social, se ne abbevera, crea gli Orsini: interlocutori che come il Golem si gonfiano a dismisura. Mettendo sullo stesso piano pro vax e no vax, anti-invasione e pro-invasione, anti pogrom e pro-pogrom, anti-sterminio di Gaza e pro sterminio di Gaza».
Scompaiono le sfumature?
«Scompaiono la realtà e la moderazione».
Cosa pensa della querela della presidente del Consiglio contro Luciano Canfora?
«Penso che se qualcuno dice a me, perché di madre ebrea, che sono un massacratore dentro, lo porto in tribunale».
Ma quando c’è una sproporzione di potere questo discorso non cambia?
«Canfora ha detto a Meloni, quando era all’opposizione, “neonazista nell’anima che per questo sta con i neonazisti ucraini” – un’offesa che da lei arriva fino a Zelensky. Non sono sicuro che oggi lo ridirebbe e non sono sicuro che lo avrebbe detto se fosse stata uomo. Un intellettuale ha una responsabilità doppia: perché conosce l’importanza delle parole e perché ha un seguito. Canfora parlava davanti a degli studenti, cos’è un cattivo maestro se non questo? Penso che se chiedesse scusa sarebbe un obbligo morale, per Meloni, ritirare la causa, ma la libertà deve avere un limite: non è mia o tua, è di tutti».
C’è un ritorno di antisemitismo nel Paese?
«No, penso che i ragazzi che oggi protestano in favore della Palestina siano lontani nel tempo dalle ragioni che hanno portato alla nascita dello Stato di Israele. È tutto successo 80 anni fa: la Shoah, l’affermazione della democrazia come miglior sistema possibile, la fede nella scienza, l’antifascismo. Prendiamo il caso di Ghali, che è uno tra le centinaia di migliaia di italiani di seconda generazione di origine nordafricana. A Sanremo aveva il pieno diritto di sostenere la causa palestinese. Non possiamo pensare a un interdetto su questo. E fa un errore incredibile l’ambasciatore israeliano a protestare».
Ma?
«Ma l’ambasciatore ci ha anche fatto notare che Sanremo arrivava pochi mesi dopo la più grande carneficina in una manifestazione musicale e noi non l’abbiamo ricordata neanche un secondo. Non è una questione di antisemitismo, è un passaggio d’epoca che ci rende meno radicati, meno consapevoli, mento empatici se non nella logica dei social. Questa piccola storia è sorella di altre grandi miopie: sono convinto che nel ’900 anche la questione migranti sarebbe stata affrontata in maniera diversa».
Non nei termini paura/nemico?
«O in quelli puramente organizzativi, ma in modo più empatico, più umano. E non è cattiveria, è inadeguatezza. Abbiamo buttato la vecchia biblioteca dei valori elaborati dopo la seconda guerra mondiale. Sono andati fuori corso. Così viviamo tutto, anche la guerra, come fosse Inter-Juventus».
Non bisogna ribellarsi ai passi indietro? Ai manganelli sui ragazzi che manifestano?
«I manganelli di Pisa sono una vergogna democratica, non c’è discussione su questo. Ma se un gruppo assalta il rettorato e il rettore chiama la polizia è un’altra cosa».
Lollobrigida è tornato a dire: prima li lasciavano fare e così è arrivato il terrorismo. Alimenta una propaganda pericolosa?
«È gente che non sa di cosa parla, non ha la preparazione: sarebbero quinte file nella politica di una volta».