La Lettura, 15 aprile 2024
Pasolini stava veramente con i poliziotti?
«Pasolini stava con i poliziotti»: l’ultimo a dirlo, dopo le manganellate sugli studenti di Pisa, è stato Antonio Tajani. Ma è vero? No, non lo è mai stato. Basta leggere Pasolini stesso: «Un anno fa ho scritto una poesia sugli studenti che la massa degli studenti, innocentemente, ha ricevuto come si riceve un prodotto di massa: cioè, alienandolo dalla sua natura (...). Infatti quei miei versi, che avevo scritto per una rivista “per pochi”, “Nuovi Argomenti”, erano stati proditoriamente riportati da un rotocalco, “L’Espresso” (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan (“Vi odio, cari studenti”), che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. (...) Nella poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di Architettura di Roma (...): nessuno dei consumatori si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia, in quanto il potere (...) ha la possibilità anche di fare di questi poveri degli strumenti: (...) le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come “ghetti” particolari, in cui la “qualità di vita” è ingiusta, più gravemente ingiusta che nelle università».
Quindi, se Pasolini «sta con i poliziotti», ci sta perché li considera sfruttati dal potere, proprio quello incarnato dai ministri. E viene anche da pensare che le condizioni dei lavoratori delle forze dell’ordine non sono molto migliorate. La citazione proviene da Il caos, rubrica che Pasolini teneva sulla rivista «Tempo» ed è tratta da un intervento del 17 maggio 1969. In forma libraria lo si può trovare in I dialoghi a cura di Giovanni Falaschi (Editori Riuniti, 1992), e in successive ristampe. Non proprio una cosa difficile da reperire; la prima volta che la lessi era più di vent’anni fa, e io faccio il regista, non l’accademico. Eppure da decenni la boutade, come la chiama Pasolini, è assurta a verità: singolare esempio di fake news ante litteram. Come pare abbia detto Goebbels, basta ripetere una bugia abbastanza spesso e la gente finirà per crederci.
È interessante che Pasolini, nella citazione, insista su una terminologia relativa al consumo culturale di massa. È un’inconscia preveggenza di ciò che è capitato alla sua figura negli ultimi decenni: essere ridotto a innocuo santino dentro una serie di luoghi comuni prodotti da quell’acculturazione di cui era stato tra i primi a parlare. «Acculturazione» è un termine antropologico per descrivere il mutamento di una cultura autoctona in qualcosa di diverso a causa del contatto con un altro popolo o un’altra cultura. Per Pasolini era l’effetto, largamente negativo, della cultura di massa sul popolo italiano: effetto che vediamo oggi ampiamente dispiegato nella società.
È un processo per cui i ragionamenti logici scompaiono lasciando spazio agli slogan (altro termine usato da Pasolini), che sono oggi la principale materia non tanto della pubblicità, ma della politica. Finisce così che perfino esponenti della destra arruolino il pensiero di Pasolini come «cosa loro», che si tratti di poliziotti o del suo famoso articolo contro l’aborto. Pasolini era contro l’aborto perché, nella sua visione, era un disincentivo all’omosessualità: sarebbe meglio dirlo all’onorevole Pillon. In verità, il miglior modo di ricordare lo «scandaloso» Pasolini è di non fare pace con lui. La sua perfetta epigrafe sono proprio le ultime parole di quel famoso articolo sull’aborto, sfida perenne all’omologazione da lui tanto temuta: «Molti accuseranno questo mio intervento di essere personale, particolare, minoritario. Ebbene?».