La Lettura, 15 aprile 2024
Homo sapiens è un castoro
Le dighe costruite dai castori sono artefatti tecnologici di tutto rispetto. Alcune sono lunghe anche centinaia di metri. Si possono costruire solo dove la profondità dell’acqua è intorno al metro, né più né meno, perché l’animale deve sempre poter accedere alla galleria subacquea che lo porta nella tana interna. Prima il castoro devia la corrente, poi inizia a conficcare tronchi e rami nel fango per creare una base. Sopra ci mette altri tronchi – meticolosamente rosicchiati nei dintorni, tagliati e fatti navigare lungo il fiume – e poi bastoni, fango, erba, foglie, cortecce, detriti, e all’occorrenza rocce. Quando a monte si è formato un laghetto o uno stagno e l’acqua è calma, i castori iniziano a scavare la tana, che li proteggerà dai predatori, custodirà il cibo e i cuccioli. La manutenzione si fa in autunno e tutta la famiglia partecipa ai lavori.
Alterando il corso della corrente e scavando canali, questi grossi roditori modificano attivamente l’ambiente per adattarlo alle loro esigenze. Non si limitano a vivere il mondo per come si presenta, lo trasformano. Sono ingegneri ecosistemici. Le dighe riducono la dispersione di acqua, filtrano gli inquinanti e aiutano a controllare le piene. La loro azione è benefica: è stato verificato, in Baviera, che nei torrenti popolati dai castori la biodiversità aumenta di un terzo, poiché gli allagamenti moltiplicano gli habitat umidi e favoriscono varie specie di anfibi, uccelli e invertebrati. Peraltro è notizia recente che il castoro euroasiatico è tornato in Italia. Mancava dal Cinquecento. Un maschio dall’Austria si è intrufolato nei boschi del Tarvisio e un altro individuo è stato avvistato in Val Pusteria. Poi sono arrivati, non si sa come, nei dintorni di Sansepolcro e in Maremma. Qualcuno vorrebbe bollarli come specie invasiva, ma stanno semplicemente tornando a casa.
Gli esseri umani sono castori all’ennesima potenza. Noi cambiamo il mondo da quando siamo nati in Africa, circa trecento millenni fa, e abbiamo cominciato a migrare prima in Eurasia e poi in Australia e nelle Americhe. Dove arrivava Homo sapiens, il paesaggio cambiava e la biodiversità diminuiva, giacché molti mammiferi di grossa taglia e uccelli inetti al volo non avevano mai incontrato un predatore così ben organizzato. Alla fine dell’ultima glaciazione, circa dodici millenni fa, i nostri antenati in diverse aree del mondo impararono ad addomesticare alcune specie di piante e animali, a scapito di altre. Indussero gli ecosistemi a produrre un surplus di risorse del tutto innaturale. La transizione neolitica fu un’altra tappa dell’inarrestabile successo della nostra specie nel trasformare il mondo.
Questo «principio del castoro» ha un nome scientifico: «costruzione di nicchia». Alcuni esseri viventi, e noi tra questi, con le loro attività plasmano a proprio favore le nicchie ecologiche in cui sono immersi. Molto tempo fa i cianobatteri inventarono la fotosintesi e inondarono l’atmosfera di un gas di scarto chiamato ossigeno, e il pianeta non fu più lo stesso. Le tecnologie sono un altro modo per costruire la propria nicchia, riempiendola di strumenti. Nel 2020 la massa antropogenica di tutti gli oggetti creati dall’umanità ha superato la biomassa globale, cioè il peso di tutti i microbi, piante e animali messi assieme. Noi siamo castori andati fuori controllo.
Il problema della strategia del castoro è la sua ambivalenza: può regalare un fantastico successo evolutivo, nascondendo però effetti collaterali che si accumulano nel tempo. La costruzione di nicchia implica infatti che la generazione successiva erediti dalla precedente non solo i geni e la cultura, ma anche le modificazioni ecologiche introdotte prima. In pratica, il costruttore di nicchia cambia il mondo, ma poi deve sapersi adattare al mondo che ha cambiato. Se la generazione successiva riceve in dote un ambiente alterato nel quale è più difficile e costoso sopravvivere (ogni riferimento al riscaldamento climatico non è puramente casuale), allora si parla di «trappola evolutiva».
Tutto lascia pensare che Homo sapiens si stia proprio infilando in una di queste trappole. Secondo lo Stockholm Resilience Centre, l’umanità è entrata in una «policrisi», cioè in una situazione in cui crisi diverse (crollo della biodiversità, riscaldamento climatico, eccessivo sfruttamento delle risorse, diseguaglianze globali, conflitti) si stanno intrecciando fra loro, creando effetti moltiplicativi. Quando la temperatura media globale supererà il grado e mezzo di riscaldamento rispetto all’era preindustriale (intorno al 2030, cioè fra meno di sei anni) la policrisi accelererà.
Se il fenomeno è sistemico, difficilmente ne usciremo ricorrendo soltanto a soluzioni tecnologiche miracolistiche, bombardando le nuvole, facendo geoingegneria o sperando di stoccare prima o poi l’anidride carbonica. Investire in ricerca scientifica e tecnologica sarà essenziale per affrontare la policrisi (e non lo stiamo facendo abbastanza), ma non sarà sufficiente se non cambieremo anche i modelli di sviluppo, di consumo, di trasporto, di alimentazione. Per converso, appare altrettanto implausibile che se ne esca vagheggiando ritorni romantici a nature incontaminate che, in termini evolutivi, non sono mai esistite.
Già dodici millenni fa, l’80 per cento della superficie terrestre era abitata e influenzata dagli esseri umani. Come costruttori di nicchie, noi coevolviamo da sempre con gli ambienti che incontriamo, nel bene e nel male. Ancora oggi, le aree del pianeta con più biodiversità non sono quelle prive di umani, ma quelle in cui i popoli nativi hanno saputo fare una saggia e lenta manutenzione degli ecosistemi, diversificandoli come fanno i castori nei loro fiumi. Se dunque né una tecnologia salvifica né una natura vergine sono strade percorribili, meglio trarre ispirazione dall’evoluzione. Non possiamo smetterla di essere costruttori di nicchia, ma dobbiamo farlo in modo intelligente e rispettoso di tutte le altre specie.
In Nuova Zelanda, su un territorio grande nove decimi dell’Italia, hanno deciso di eradicare tutte le specie invasive entro il 2050. Un’opera ciclopica di ingegneria ecosistemica, non per tornare indietro, ma per andare avanti. L’impresa è contraddittoria, visto che le autorità si guarderanno bene dal debellare le specie non autoctone allevate (i bovini e gli ovini) su cui si basa un pezzo dell’economia neozelandese. Alcuni scienziati vorrebbero usare una biotecnologia basata sull’editing del genoma (il gene drive) per estinguere in modo intenzionale e programmato una popolazione (per esempio, zanzare portatrici della malaria e di altre gravi malattie) o una specie invasiva. Riusciremo a controllare il processo?
Non ha senso né sposare acriticamente né rifiutare a priori questi tentativi, perché sono l’espressione autentica di un’umanità costruttrice di nicchie. Se saranno distopie o «utopie realiste» dipenderà da noi. Il non luogo dell’utopia è tipico di una specie capace di immaginare e di sperare in un futuro aperto, cioè di prefigurarsi mondi possibili. Dal castoro a Homo sapiens, l’evoluzione suggerisce che le vere utopie realiste hanno due caratteristiche. Indicano una direzione in modo lungimirante, ovvero con la generosità di chi sa che deve agire oggi affinché gli effetti positivi dei cambiamenti siano goduti dalle prossime generazioni. E poi, sono utopie serendipitose, perché nel cammino che le porta ad avvicinarsi a un obiettivo scoprono qualcosa che non stavano cercando. E che magari è ancora più bello dell’utopia stessa.