Corriere della Sera, 16 aprile 2024
La componente araba della difesa di Israele
C’è una componente araba nella coalizione che ha neutralizzato l’attacco iraniano contro Israele: un punto a favore della diplomazia Usa in Medio Oriente. Il successo di Israele e dell’America nell’intercettare gran parte dei droni e missili lanciati da Teheran, è dovuto anche alla cooperazione di alcuni Paesi arabi.
La Giordania si è esposta di più, con l’intervento delle sue difese antiaeree. Ma anche l’Arabia Saudita, e altri Paesi suoi alleati, hanno contribuito: con informazioni dei loro servizi segreti sull’attacco iraniano, con lo spionaggio dei cieli da parte dei loro sistemi radar, e la concessione del loro spazio aereo per il sorvolo di jet Usa.
È stata una cooperazione preziosa, razionale, e gravida di rischi. Se il bilancio dei danni è stato così limitato lo si deve anche all’intervento di questa «coalizione invisibile», non proclamata. I governi arabi sunniti – di orientamento moderato-conservatore – hanno fatto da tempo la loro scelta di campo: l’Iran per loro è la minaccia principale, non Israele. Il basso profilo che molti di loro hanno adottato in questa occasione è comprensibile. La tragedia umanitaria in corso a Gaza ha mobilitato le opinioni pubbliche del mondo arabo e islamico. Venire in aiuto a Israele in questa fase è una scelta impopolare. Meno se ne parla, meglio è… Però la sostanza è quella, il mondo arabo moderato ha preferito il male minore, ha contribuito alla difesa d’Israele e ha ostacolato l’attacco iraniano.
L’Arabia del principe Mohammed bin Salman (MbS) è un attore chiave per capire questo posizionamento geopolitico. È dal 1979 che il Kingdom of Saudi Arabia (Ksa) vive sotto la minaccia esistenziale dell’espansionismo persiano. La rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini lanciò fin dalle origini un attacco alla legittimità della monarchia saudita, custode dei luoghi sacri della Mecca e Medina. Distruggere lo Stato d’Israele, cacciare gli Stati Uniti dal Medio Oriente, infine rovesciare la dinastia saudita e conquistare le città sacre del Profeta, furono gli obiettivi proclamati nella predicazione messianica di Khomeini. Le conseguenze sono state subite da Riad non solo in una sfida ideologica ma sul piano militare. Teheran ha foraggiato gli Houthi nello Yemen per risucchiare l’Arabia in un conflitto regionale e indebolirla. Nel 2019 un formidabile attacco di droni con regia iraniana colpì alcune infrastrutture petrolifere nevralgiche del Regno, incapacitandole per settimane. La monarchia saudita si sente minacciata nei suoi interessi vitali e nella sua sopravvivenza dall’Iran, in una sorta di riedizione contemporanea della sfida millenaria tra gli imperi arabo e persiano.
Il principe MbS ne ha tratto le conclusioni. Nel suo linguaggio da tempo è scomparsa ogni inimicizia verso Israele. È sparita anche la «cultura del vittimismo» di cui il mondo arabo era stato prigioniero per decenni: la ricerca di un capro espiatorio (l’Occidente o il sionismo) per i propri fallimenti. MbS vede Israele come un modello – economico, tecnologico, scientifico – da studiare per emularlo. Dopo gli Accordi di Abramo del 2020 con cui Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco hanno instaurato relazioni diplomatiche con Israele, la tappa successiva doveva coinvolgere il Ksa. L’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023 ha voluto colpire anche quel patto israelo-saudita. Di sicuro è riuscito a congelarlo. In questa fase, con le sofferenze di Gaza in primo piano, perfino un despota come MbS non se la sente di sfidare la propria opinione pubblica. L’Arabia appoggia la linea americana: cessate il fuoco, aiuti umanitari, liberazione degli ostaggi, e una soluzione di governo per la Striscia basata su due Stati. Se e quando dovesse iniziare la ricostruzione di Gaza, il Regno sarà in prima fila con i suoi contributi finanziari. Viste le posizioni attuali di israeliani e palestinesi, tutto il percorso di pace è in salita. Però Riad non ha «perso la bussola», resta chiaro che per i sauditi il pericolo vero è l’Iran. Lo stesso vale per i loro «satelliti» come Emirati e Bahrein, nonché per due Paesi moderati e già rappacificati con Israele quali Egitto e Giordania, i quali oltretutto sono beneficiari di importanti aiuti e investimenti sauditi.
Il successo di Biden nel cucire questa coalizione araba contro la pioggia di missili e droni dall’Iran, rievoca un precedente illustre. Quando Saddam Hussein invase il Kuwait nel 1990, il passo successivo per il dittatore iracheno doveva essere proprio l’Arabia. George Bush padre mandò aiuti militari immediati per proteggere il Regno. Nella prima guerra del Golfo (1991) l’America riunì una «coalizione dei volonterosi» dove il mondo arabo moderato era largamente rappresentato. La salvezza del Regno arrivò con la grande armata assemblata da Bush Senior.
MbS ha portato il Regno a giocare un ruolo più autonomo: ha buoni rapporti con Cina e Russia, è un attore di punta del Grande Sud globale. Ma nell’ora dell’emergenza, l’alleanza militare con gli Stati Uniti ha prevalso.