la Repubblica, 17 aprile 2024
L’idea che gli ayatollah iraniani siano politici provetti e grandi strateghi si è dissolta nella notte tra sabato e domenica
L’idea che gli ayatollah iraniani siano politici provetti e grandi strateghi si è dissolta nella notte tra sabato e domenica. Israele stava perdendo la guerra di Gaza e ora, dopo l’attacco di Teheran, ha ripreso in mano l’iniziativa ed è tornata a raccogliere solidarietà internazionale. È questa la ragione per la quale Benjamin Netanyahu e il suo governo dovrebbero evitare una risposta eccessiva al lancio di missili e droni che ha colpito il Paese. Per stabilire la legittimità di un’eventuale ritorsione massiccia, alcuni funzionari israeliani domandano cosa farebbero gli Stati Uniti se subissero un’aggressione del genere: contrattaccherebbero, rispondono. L’argomentazione ha una sua forza ma impallidisce di fronte alla situazione che si è creata: una guerra, quella a Gaza, che per Gerusalemme sembrava persa o vicina a esserlo, ora ha prospettive del tutto diverse. Sta al governo israeliano non gettarle via.
Fino a pochi giorni fa, l’isolamento politico e diplomatico di Israele aveva raggiunto un’ampiezza mai vista prima. Critiche così esplicite, giuste o sbagliate che fossero, dalla Casa Bianca non erano mai uscite. Per non parlare dell’Europa, dove le argomentazioni israeliane faticavano ad arrivare a Bruxelles e nelle maggiori cancellerie.
I Paesi arabi della regione che non amano (eufemismo) il regime iraniano – Arabia Saudita, Emirati, Egitto, Giordania – erano in difficoltà a parlare con Gerusalemme, di fronte all’offensiva e ai morti della Striscia di Gaza. L’attacco di sabato notte ha dato una forte scossa a questa realtà.
Negli Stati Uniti, le voci crescenti che chiedevano a Joe Biden di negare nuove armi a Gerusalemme – Nancy Pelosi, Elizabeth Warren, Bernie Sanders e molti altri – hanno perso impeto. Cosa sarebbe successo a Israele se non avesse avuto i sistemi di difesa sviluppati assieme a Washington? E cosa succederebbe domani se cessasse di avere tecnologia militare Usa o la copertura americana e britannica? Il Medio Oriente sarebbe sottosopra ancora più di quanto non lo sia oggi, con pericoli mortali anche per l’Europa e per la stessa politica internazionale degli Stati Uniti. L’attacco ordinato dall’ayatollah Khamenei ha avuto l’effetto di togliere dal tavolo la possibilità che l’America smetta di sostenere gli israeliani e di fornire loro armi, ha affievolito le critiche di Londra e scosso il torpore degli europei.
Per parte loro, i regimi arabi temono che i conflitti nel Medio Oriente prendano la strada di una escalation difficile da controllare. E di questo danno, ora, la responsabilità agli ayatollah. Il fatto che per la prima volta Teheran abbia attaccato direttamente il Paese ebraico di per sé alza la tensione, irrita i loro governi e mostra una nuova pericolosità dell’Iran, a questo punto coinvolto in prima persona e non più solo attraverso sue organizzazioni fantoccio o comunque finanziate e sostenute come Hamas, Hezbollah, gli houthi. La possibilità che possa riprendere il rapporto diplomatico tra Israele e Arabia Saudita, congelato dalla guerra a Gaza, ora è maggiore.
Per quel che riguarda il versante interno, gli ayatollah hanno aumentato la repressione in parallelo al lancio dei missili e dei droni, non diversamente da come fa Putin contro gli oppositori quando lancia un’aggressione. La popolazione iraniana, già stremata dal regime, sembra ora avere due reazioni. La prima è la paura che l’apparato teocratico-politico porti verso la guerra con Israele, che ben pochi vogliono. La seconda reazione dipende dal flop dell’operazione di sabato notte. Vero che Teheran aveva preannunciato e annunciato l’attacco, migliorando la possibilità di Israele di difendersi. Ma è anche vero che centinaia di missili e di droni armati non sono poca cosa: il fatto che siano in sostanza stati tutti neutralizzati dà il segno del fallimento militare. La retorica di invincibilità quasi divina propagata dal regime vacilla agli occhi degli iraniani. Probabilmente vacilla anche nelle menti dei combattenti legati a Teheran, che stiano a Gaza, in Libano o nello Yemen.
Il regime dell’Iran ha festeggiato l’attacco (a dire il vero senza troppa convinzione) ma è evidente che le sue conseguenze politiche non sono affatto buone. Ha trasformato un vantaggio che stava accumulando contro Israele in un mezzo disastro. Forse, gli ayatollah e le Guardie Rivoluzionarie non potevano fare altro che rispondere all’uccisione (il 1° aprile) di un loro comandante militare a Damasco per mano, con ogni probabilità, di Israele. Ma questo è il vicolo cieco nel quale si cacciano spesso le autocrazie: essere obbligate a mostrare i muscoli, per ragioni interne e di reputazione del regime, anche quando ciò non è saggio o addirittura folle. Infatti, le ricadute dell’attacco mostrano ora la debolezza politica, diplomatica e militare di Teheran. In questo senso, ha ragione Biden quando in sostanza dice a Netanyahu «hai avuto una vittoria, prendila», non buttarla via.
Se Netanyahu decidesse di fare prevalere la vendetta, la rappresaglia a 360 gradi o comunque dura, in effetti getterebbe via il vantaggio che inaspettatamente si è ritrovato. Sono la diplomazia e la capacità politica, ora, a offrire la possibilità di costruire sulla nuova situazione, di isolare ulteriormente l’Iran, in una collaborazione tra Israele, Washington, i Paesi arabi cosiddetti moderati, Londra, Parigi. Se si tratta di vincere il dopoguerra, adesso sappiamo che, dietro le barbe lunghe, gli ayatollah hanno la vista corta.