La Stampa, 17 aprile 2024
L’egocentrismo non fa romanzo
Cominciare queste righe con la prima persona è decisamente un paradosso, per quanto inevitabile. Un po’ come quando ci si manda un messaggio su Whatsapp a mo’ di memorandum, e la spunta blu di lettura spunta (perdonate il bisticcio) nel momento stesso in cui lo stiamo scrivendo. Nei giorni scorsi sono stata al Salone del Libro di Bruxelles: una fiera bellissima, local ma fino a un certo punto data l’intersezionalità della lingua francese, ma soprattutto dedicata all’Europa, nostra comune e non di rado trascurata (almeno qui da noi) casa. E di Europa si è parlato tanto anche, naturalmente, nel corso delle intense ma appassionanti due giornate di immersione nella letteratura contemporanea del nostro continente: ero infatti una fra i sette giurati del Premio letterario dell’Unione europea, confindenzialmente Eupl. Pare una barzelletta ma non lo è – anche se è stato molto divertente: eravamo un’italiana, una rumena, una franco-belga, un greco, un estone, un franco-americano e un ucraino (il grande e simpaticissimo scrittore Andrei Kurkov) a dover decidere il vincitore e le cinque menzioni dell’edizione di quest’anno. Tredici libri per tredici paesi e tredici lingue diverse (abbiamo infatti ragionato su delle traduzioni di lavorazione in inglese e lunghe, sempre interessanti audizioni): dal maltese all’arabo tunisino (concorrono i paesi dell’Ue propriamente detti ma anche altri con accordi di cooperazione), dall’ungherese al bulgaro, dallo sloveno al danese e via discorrendo.
Un magnifico caleidoscopio di voci, sintassi, tradizioni, vocazioni, vissuti, orizzonti. Un’esperienza, per quanto mi riguarda, di scoperta, ascolto, dialogo. Abbiamo discusso tanto, ci siamo scambiati sguardi più o meno eloquenti. Tutto con molta serietà, senza “agganci”, conoscenze da sottacere, favori da scambiare, pregressi da rispettare. Ha vinto un libro monumentale, opera di Theis Orntoft, un giovane autore danese tanto ambizioso quanto spontaneo. Nel corso della cerimonia tutti gli autori hanno risposto, in inglese e brevemente, a un’unica domanda formulata dalla conduttrice e letto una paginetta del loro romanzo in lingua originale.
Romanzo, per l’appunto (tranne la sorprendente raccolta di racconti dell’islandese Maria Elisabet Bragadottir, che pure ha ricevuto una menzione). Perché di romanzi si trattava: lunghi o brevi che fossero, confortanti o spiazzanti, facili o involuti. Romanzi nel senso di fiction propriamente detta: frutto di invenzione, fantasia, speranze, illusioni, dolori, ambizioni.
Di fronte a questo panorama, parziale finché si vuole, certo, ma non meno significativo, mentre ragionavo su quel che mi era piaciuto e che mi aveva convinto di più, mentre assentivo e dissentivo ascoltando le parole dei miei colleghi giurati (due giorni intensi, pieni, con brevissima pausa pranzo in piedi, a chiacchierare di libri), mi sorgeva un pensiero, anzi una specie di tormento: come mai il nostro romanzo contemporaneo è altra cosa? Come mai noi lassù a Bruxelles davamo per naturale, scontato, che un autore bulgaro si immergesse per quattrocento pagine nella conquista del Messico, riscrivesse la storia, la immaginasse a misura diversa dalla realtà, o che una giovane autrice olandese/iraniana desse voce a un fiume, anzi due, per raccontare una storia di nomadismo e stanzialità, di vita e di morte? In parole povere, nulla o quasi a che vedere con l’autofiction, che invece è diventato il mainstream dalle nostre parti, senza tema di concorrenza... Perché il nostro romanzo contemporaneo, nel senso di italiano, deve sempre avere a che fare con, in ordine sparso: una madre, un nonno, un luogo, un tempo, un trauma che appartengono a chi scrive?
Non è un giudizio di merito, né una geremiade, la mia, bensì una banale constatazione che però non ha mancato di stupirmi, nei giorni scorsi: e cioè che la narrativa europea non è così riflessiva come la nostra. Che in questi libri, scrittrici e scrittori arrivati alla finale del Premio europeo per la letteratura edizione del 2024 non c’era o non c’era quasi mai l’urgenza di raccontare di sé, di scavare nel fondo del proprio visto e vissuto come fonte primaria (o unica) d’ispirazione per la propria arte, per il romanzo. A Bruxelles, nella stanza in cui ci avevano (comodamente) rinchiuso, si è parlato di tutto un po’, e di tanto. Sono stati citati autori del passato, si sono elargiti consigli di lettura per il dopo, si è chiacchierato del più e del meno. Anche del clima di Bruxelles, che non è dei migliori ma in quei due giorni ci avrebbe anche graziati se non fosse stato che il naso fuori l’abbiamo messo molto poco. Ma quasi niente di autofiction, tranne quando dichiaravo il mio stupore per la sua assenza (è successo varie volte, e i colleghi giurati hanno imparato a trattarmi con indulgenza per le mie ripetizioni. Forse perché ero nella fascia d’età più anziana, lì dentro).
È stata insomma una bella e interessantissima esperienza, che purtroppo a breve non si ripeterà perché ogni anno si cambia: paesi. Lingue. Libri. Giurati. Sono tornata dal cuore dell’Europa – che non solo nei padiglioni del Salone del libro, ovunque è presenza viva in tutta la città e per questo ogni tanto bisognerebbe andarci per capire chi siamo, dove stiamo andando – con tante parole e letture nuove. Ma soprattutto con una domanda che non ha trovato risposta: come mai la nostra narrativa contemporanea è così vocata al sé? Al guardarsi allo specchio, magari nel profondo ma pur sempre lì dentro? È come se autrici e autori non trovassero, se non di rado, il coraggio di quell’uscire da sé stessi per mettersi nei panni di qualcuno o qualcosa d’altro, di luoghi o tempi alieni, menti, cuori e fantasie altrui. Per inventare davvero. Come diceva il grande Amos Oz, la scrittura narrativa è innanzitutto un gran pettegolezzo: si tratta in fondo “soltanto” di parlare (male e bene) del prossimo. Forse, dovremmo diventare tutti un po’ più pettegoli. —