Corriere della Sera, 16 aprile 2024
Gi 80 anni di MDPR
Il 17 aprile, seguendo il suo personale calendario «e ricordando che in quella data nel 1961 iniziò l’invasione della Baia dei Porci, mentre nel 1967 Nino Benvenuti conquistò il suo primo titolo iridato nella boxe», Mauro della Porta Raffo compirà non 80 anni ma 29.220 giorni di vita. «Ho calcolato che il 6 giugno 2026 festeggerò i 30.000, a Dio piacendo. Vado per giorni, non capisco perché procedere per anni e mesi» sottolinea il Gran Pignolo, personaggio magari divisivo ma originale. Allacciate le cinture: MdPR quello che pensa, dice.
Da uno a cento, quanto è egocentrico?
«Io sono cosciente: è diverso. Il megalomane e il narciso vedono sé stessi in modo esagerato, mentre io sono consapevole di quello che sono: escludendo chimica, matematica e medicina, delle quali peraltro conosco la storia, so veramente tutto».
Ha scritto una scheda biografica di 75 pagine.
«L’ho fatta rifare da Simone Furfaro, bravissimo ricercatore di Genova: lo conobbi quando gli chiesi di portare un fiore sulla tomba della moglie di Oscar Wilde, sepolta a Staglieno. Si sviluppa a mo’ di racconto, è in minuscolo e senza punteggiatura, va a capo raramente: credo nel flusso continuo narrativo».
C’è poi «Dalla parte di Esaù»: per ora sono «solo» 980 pagine.
«Ci sono miei articoli e interventi di amici. Perché Esaù? Perché ha venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie ed è visto male. Ma a me le lenticchie piacciono... Inoltre non mi va di stare con i vincenti. Anni fa pubblicai la rivista “Dissensi e Discordanze”: ecco, sono sempre dall’altra parte. Come Esaù».
A scuola come andava?
«Malissimo: rimandato varie volte e pure giustamente bocciato. Studiavo altro: mia madre mi aveva già insegnato a leggere e scrivere, il resto l’ho imparato extra scuola. Comunque nei compiti in classe davano tre titoli di temi: li svolgevo tutti, uno lo tenevo e gli altri li vendevo ai compagni».
Il 30 gennaio 1996 nasce «Il Foglio». E lei... lo corregge.
«C’erano errori nelle corrispondenze dagli Usa. Per fax inviavo le rettifiche e con mia sorpresa uscivano. La faccio breve: di rientro da una vacanza a Praia a Mare, dove il giornale non arrivava, scoprii che Giuliano Ferrara non aveva più messo nulla. Gli scrissi che mi aveva tradito e gli diedi dell’ignorante. Mi stupì di nuovo: nel primo numero utile titolò: “Un lettore denuncia la pochezza della stampa italiana”. Pubblicò pure gli insulti e commentò: “Lei merita una rubrica”. Accettai. Giuliano diventò poi direttore di Panorama e mi affidò uno spazio per fare le pulci a L’Espresso. Lo chiamammo “The other place”, come fanno Cambridge ed Oxford che non si citano mai».
Il Gran Pignolo, infine, sbarcò in Tv.
«Onofrio Pirrotta su Raitre aveva creato “È la stampa, bellezza”: correggevo errori di storia, letteratura, cinema. Enzo Biagi sbagliava quasi tutte le citazioni: in un libro ho dedicato 68 pagine ai suoi svarioni».
Piero Chiara, un amico del cui ricordo ora è la «vestale».
«Mio padre dirigeva l’ente provinciale turistico. Creò un comitato di saggi, c’era pure Chiara. A 16 anni mi iscrissi alla Gioventù Liberale e nella sede del Pli trovai lui. Era segretario ma non lo diceva perché temeva il sabotaggio della nomenclatura sinistrorsa che gestiva i premi letterari».
Si narra di interminabili partite a carte.
«Di scopa a due, nella sede del Pli. Piero arrivava con appunti scritti nella notte su bigliettini: li dava a Gigliola, la segretaria, e cominciavamo a giocare su un tavolaccio giallo. A fianco, su un divano sgangherato, c’era Bruno Lauzi che componeva. Nel 1976 i rapporti si guastarono perché non volevo ricandidarmi alla Camera. Ci riavvicinammo quando il tumore l’aveva già colpito: era convinto di farcela, ma purtroppo non andò così».
Si è dato al gioco d’azzardo.
«Mi laureai in Giurisprudenza, però non volevo fare l’avvocato. Diventai giocatore nei casinò, ai cavalli, nelle bische, evitando solo i bari. Mi ricordo le carte che escono, a briscola non ho mai perso. Il poker? Giocato poco: non sopporto il bluff. Nel 1981 decisi di smettere. Nel 1995 tornai nei luoghi frequentati per un documentario. Ritrovai le stesse persone e chi mi conosceva mi chiese: “Ma non eri morto?”. Non è previsto che uno la pianti lì».
Lei ha una passione per la rivoluzione messicana.
«Altro che: 118 anni di guerre, mi affascinano i personaggi. Pancho Villa o Emiliano Zapata? Mi sento più vicino a Zapata, vero rivoluzionario: voleva tornare a un sistema che nel suo stato, il Morelos, aveva funzionato».
È attratto dalle rivoluzioni, però è un conservatore.
«Cito Walt Whitman: “Ci sono contraddizioni in me: certo sono immenso, contengo moltitudini”. Io sono un anarchico di destra».
È vero che non è mai stato negli Usa?
«Verissimo. E non parlo nemmeno inglese».
Come può allora essere il massimo esperto degli Stati Uniti?
«Nessuno conosce come me gli Usa dal punto di vista storico e istituzionale, Bruno Vespa di recente l’ha ricordato. Ogni giorno scrivo articoli – in italiano – sia per “The Science of Where Magazine” sia per la Fondazione Italia-Usa, della quale sono presidente onorario».
Perché non va oltre Atlantico?
«Non vedo perché dovrei farlo. Gli Stati Uniti sono in una situazione pietosa: come nel film Grand Canyon, se sbagli strada rischi la pelle perché finisci nelle grinfie dei teppisti. Dicano quello che vogliono, ma è una società che non funziona. Però sono attirato dalla complessità del Paese: gli Usa sono tutto e il suo contrario».
Sembra che stiano perdendo il controllo del mondo.
«L’egemonia americana è durata poco. Nel 1954 Eisenhower commise l’errore catastrofico di invadere il Guatemala di Guzman, ex militare ma uomo di riforme. Guzman fuggì, però ispirò Che Guevara: “Quello che gli è capitato prova che gli Usa sono il male”. Poi nel 1961 Tito organizzò la conferenza in cui nacque la realtà dei Paesi non allineati: ecco fatta l’alternativa».
Biden o Trump?
«Nessuno dei due. Speravo che si candidasse Justin Amash per il Partito Libertariano, un arabo-americano uscito dai repubblicani. Ma non ha accettato, anche perché Democratici e Repubblicani da sempre fanno in modo di non avere intrusi tra i piedi».
Qual è il suo presidente preferito?
«Sono repubblicano, ma nella politica interna il più grande è stato un democratico: Lyndon Johnson. L’ho fatto aggiungere, in una vignetta, al complesso scultoreo del Mount Rushmore dove figura pure Theodore Roosevelt, per me il migliore sul fronte estero. Fu il primo americano a vincere il Nobel per la pace: nonostante la politica del “nodoso bastone”, trattò per la fine della guerra tra giapponesi e russi».
Ha pubblicato più di 30 libri: ce n’è uno di altro scrittore che vorrebbe fosse stato suo?
«Il mio ispiratore è Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea Francesco Alberto de Chirico, fratello di Giorgio e a sua volta anche pittore. La Nuova Enciclopedia è un capolavoro. Savinio parte citando Arthur Schopenhauer: “Sono così scontento delle enciclopedie che me ne sono fatta una”».
La sua famiglia, dalle nobili radici, ha avuto Il Codice Leicester, o Codice Hammer, di Leonardo. Ora è di Bill Gates.
«Era di Guglielmo della Porta dal 1537. Mia figlia, che parla inglese, ha l’incarico di scrivere a Gates e di farlo tornare».
Mauro della Porta Raffo non ha mai sbagliato?
«Una sola volta: in una Pignoleria scrissi che Dionigi il Piccolo era un monaco “sciita”. Invece era “scita”, cioè originario della Scizia. Fu io a rimediare: il giovedì seguente il titolo fu “Il Gran Pignolo corregge sé stesso”. Più in generale, ne ho combinate di tutti i colori e qualche nemico me lo sono fatto. A volte mi sono “sgridato”: ho commesso tanti errori, ma alcuni li ripeterei».