il Giornale, 15 aprile 2024
Kant, l’«a priori» della modernità
Tre secoli fa, il 22 aprile del 1724, nasceva a Koenigsberg (Prussia orientale) Immanuel Kant. Il suo straordinario contributo al pensiero occidentale non è stato solo in ambito filosofico-gnoseologico, ma anche in ambito filosofico-politico. La riflessione di Kant costituisce una tappa fondamentale nella storia del pensiero liberale. Basti pensare ai princìpi sui quali egli voleva che fosse fondato lo stato moderno: 1) la libertà di ogni membro della società in quanto uomo; 2) l’uguaglianza di esso con ogni altro in quanto suddito; 3) l’indipendenza di ogni membro di un corpo comune in quanto cittadino. Tali princìpi erano per Kant a priori, ovvero essi non erano leggi o regole che lo stato già costituito dovesse stabilire, bensì leggi o regole secondo le quali soltanto era possibile una costituzione dello stato ispirata ai canoni della ragione. Il principio della libertà dell’individuo in quanto uomo veniva formulato da Kant nel modo seguente: «Nessuno mi può costringere a essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)». Si tratta, come si vede, di un principio schiettamente liberale, che mira a salvaguardare una larga sfera d’azione dell’individuo nella sua vita sociale e privata, al riparo dalle pretese e dalle intrusioni dei pubblici poteri. Senza tale sfera d’azione, senza la possibilità di seguire le proprie inclinazioni, di soddisfare i propri gusti, di manifestare il proprio carattere e di adottare lo stile di vita ad esso conforme, l’individuo è completamente asservito.
È impossibile sottovalutare la novità e la portata di questa posizione kantiana. Oggi essa fa parte dei nostri comportamenti, del nostro costume, della nostra mentalità, della nostra cultura. Se lo Stato o il potere politico pretendessero di dirigere le nostre attività economiche, sociali, politiche o culturali, noi respingeremmo questa pretesa come il più grave degli attentati. E infatti definiamo totalitari quegli stati dove questo avviene.
Il secondo principio kantiano, quello dell’eguaglianza degli individui in quanto sudditi, significa che tutti gli uomini devono essere egualmente sottoposti alle leggi, e che, dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, essi devono avere gli stessi diritti e gli stessi obblighi. Per Kant tale eguaglianza era perfettamente compatibile con la massima disuguaglianza dei possessi (oltre che,
beninteso, delle doti fisiche e intellettuali). Sicché un uomo può essere più forte o più intelligente di un altro, oppure può essere più ricco di un altro. Ma, per quanto riguarda il diritto, essi sono, come sudditi, tutti uguali fra loro, dotati degli stessi diritti e sottoposti alle medesime leggi. Con ciò Kant condannava i privilegi di casta dell’ancien règime. Egli sottolineava, infatti, che dall’eguaglianza degli uomini nello stato, in quanto sudditi, discendeva la seguente regola: «Ogni membro dello Stato deve poter pervenire in esso a quel grado di posizione sociale (accessibile a un suddito) al quale possono elevarlo il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna, senza trovar ostacolo negli altri sudditi che invocano prerogative ereditarie (quasi avessero il privilegio di una determinata classe sociale) per tenere perpetuamente soggetti a sé lui e i suoi discendenti».
Perciò nessuno può trasmettere per via di successione ai suoi discendenti la posizione che occupa nello Stato. Per contro, ognuno può trasmettere in eredità tutto ciò che è cosa, tutto ciò che si acquista in proprietà ed è alienabile.
Quanto al terzo principio, che postula l’indipendenza (economica) dei membri della comunità quali cittadini, ovvero quali titolari dei diritti politici e partecipi del potere legislativo, Kant considerava la posizione economica e il censo quali condizioni imprescindibili per l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo. Nessuna meraviglia: questo principio fu fissato nella Costituzione del 1791 proclamata dalla Rivoluzione francese: una Rivoluzione che Kant considerò sempre il più grande avvenimento della storia moderna, in quanto poneva fine alla società aristocratico-feudale. Meritano di essere ricordate le commosse parole con le quali Kant celebrò la grande Rivoluzione: «La rivoluzione di un popolo di ricca spiritualità – egli scrisse – quale noi abbiamo visto effettuarsi ai nostri giorni, può riuscire o fallire; può essere talmente colma di miseria e crudeltà che un uomo benpensante, anche se potesse sperare d’intraprenderla con successo una seconda volta, non si deciderebbe di tentare l’esperimento a tal prezzo: eppure questa rivoluzione trova negli spiriti di tutti gli spettatori (non coinvolti in questo gioco) una partecipazione d’aspirazioni che rasenta l’entusiasmo (), e che per conseguenza non può avere altra causa se non in una disposizione morale del genere umano».