il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2024
Coca, la leader indigena Piñacué denunciata dalla Coca-Cola per il copyright sulla parola Coca
Fabiola Piñacué, leader indigena colombiana, è riuscita a laurearsi in Scienze Politiche presso la prestigiosa Università Javeriana di Bogotà, pagando la retta grazie ai ricavi dalla vendita di infusi di foglie di coca. Ma non ha avuto tempo per dormire sugli allori. Le pretese del gigante delle bevande Coca-Cola, che reclama il copyright sulla parola COCA, l’hanno spinta a diventare la paladina dei suoi antenati. Le accuse della multinazionale l’hanno costretta a difendere la pianta sacra che da tempi immemorabili accompagna le popolazioni native insediate lungo la Cordigliera delle Ande in America Latina.
Fabiola, 53 anni, madre di tre figli, è un’aborigena Nasa la cui popolazione si concentra nella zona Las Calderas, dipartimento di Cauca, nel sud-ovest della Colombia. Alle richieste del colosso americano risponde: “Da quattromila anni la pianta di coca è patrimonio, religioso e biologico dei popoli indigeni. Rappresenta un alimento spirituale e materiale, un simbolo della nostra identità. La Coca-Cola sostiene di utilizzare il nome da 150 anni e di essersi servita, alle origini della bibita, di uno sciroppo estratto dalle foglie di coca. Chi è l’usurpatore? Sono loro che dovrebbero risarcirci per l’appropriazione indebita del nostro patrimonio culturale”.
All’alba del Secondo millennio, inizia a frequentare l’università, Javeriana, gestita da sacerdoti gesuiti. Nella Capitale mantiene le abitudini acquisite da bambina, così durante le lezioni mastica la foglia secca e approfitta delle pause per bere il tè di Coca che porta in un thermos. Intrattiene i compagni con i racconti sulla coca, spiegando l’utilizzo del millenario cibo dai Nasa. In questa maniera fa conoscere la propria cultura e di conseguenza comprendere che non è una droga. La tisana alla coca divenne una bevanda molto apprezzata.
Grazie alla popolarità dell’infuso, si garantisce i mezzi di sostentamento fino a conseguire il diploma di politologa, prima donna indigena colombiana a ottenere questo titolo.
Dall’esperienza universitaria è nato il progetto “CocaNasa”, un’azienda artigianale specializzata in alimenti e bevande derivati dalla pianta sacra. Nel 2007 registra la sua bevanda “Cocasek”, un energizzante naturale che nella sua lingua significa “Cocasol”. La multinazionale della bibita gassata reagisce subito querelando Fabiola. Lei prepara la sua difesa, in tribunale sfodera le sue arme giuridiche: la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, le risoluzioni delle Nazioni Unite e gli articoli della Costituzione colombiana che riconoscono e rispettano la pluralità e la diversità culturale delle comunità indigene. Uscì vittoriosa dalla prima offensiva della Coca-Cola.
Metà della sua vita, Fabiola l’ha dedicata a combattere i pregiudizi su una pianta avvolta da tabù e divieti. È stata arrestata, i suoi prodotti sequestrati e sabotata la loro distribuzione. Più agguerrita che mai, la sua missione è chiara: evitare la confusione. La foglia di coca non è cocaina, e spiega: “L’uva non è vino, quindi non possiamo accusare la vite di alcolismo. Dire che esistono piante di cocaina è come ammettere che esistono alberi di aspirina”.
La stigmatizzazione della pianta viene da lontano. Già dalla colonizzazione spagnola dell’America Latina dal XVI e XIX secolo. I conquistadores la trasformarono in strumento del diavolo quando si resero conto che, oltre a essere una fonte di nutrimento, medicina e spiritualità, giovava alla coesione sociale delle popolazioni native. La politologa ricorda: “La cocaina è un prodotto della moderna società industriale, grazie al chimico tedesco Albert Nieman che isolò l’alcaloide dalla pianta. Alla fine dell’Ottocento divenne popolare come farmaco e anestetico negli ospedali in Europa e negli Stati Uniti, e anche Sigmund Freud ne fece uso nelle sue terapie psicoanalitiche”.
Nel XIX secolo, la sua proibizione diventò il grande affare per i baroni della droga. In Colombia alimentò il conflitto armato, incrementando le casse dei narcotrafficanti, dei guerriglieri e dei paramilitari. Il commercio della cocaina minacciò alcune delle democrazie del Sud del mondo. Da leader, Piñacué è consapevole che riconciliare le varie sfaccettature spirituali, economiche e politiche della foglia, attraverso i suoi prodotti naturali, sia un compito titanico, ma lei va avanti.
Ammette che continua il riscatto delle “foglie per la pace” perché per i Nasa sono un dono della natura: “Secondo la leggenda indigena, la pianta è scesa dal cielo vestita da donna per nutrire, guarire ed essere moneta di scambio. Riconoscenti alla madre terra, ne siamo i custodi: la raccogliamo a mano, essicchiamo le foglie sui fornelli a legna, rappresenta una parte atavica ed essenziale della nostra economia sostenibile”.
Nonostante un’altra denuncia della multinazionale nel novembre 2023, di recente è riuscita a rinnovare la licenza della sua birra, la “Coca Pola”. Tuttavia, in contemporanea al rilascio dell’autorizzazione legale, gli avvocati della sede colombiana della Coca-Cola (che non hanno risposto alla richiesta d’intervista) l’hanno accusata, per la terza volta, di contraffazione.
Lei prosegue dritta sulla sua strada. È convinta che la natura sia la sua migliore alleata. Ribadisce che il cambiamento climatico ha aperto gli occhi del mondo sulla cura dell’ambiente e che, da quattromila anni, i Nasa vivono in armonia con l’ecosistema. “È per questo che siamo protetti”. Conclude dicendo: “Se siamo sopravvissuti ai secoli della colonizzazione spagnola, a forza di sangue e fuoco, perché non potremmo sconfiggere un gigante del capitalismo con la nostra pianta sacra?”.