Corriere della Sera, 15 aprile 2024
Intervista a Salman Rushdie
NEW YORK Salman Rushdie si scusa per la voce roca e stanca. «È scomparsa, ma è dovuto al blitz mediatico», dice, ovvero alle interviste come questa, in attesa dell’uscita, domani, del suo nuovo libro, Coltello, edito in Italia da Mondadori. Si toglie il cappotto Armani e siede al tavolo delle riunioni dell’agenzia letteraria Wylie, a Manhattan. Una delle lenti degli occhiali, la destra, è scura: copre l’occhio da cui non vede più. L’ultima cosa che il suo occhio destro ha visto è Hadi Matar, il giovane vestito di nero (che ne libro chiama A. come Assassino, ma anche Asino) che correva a testa bassa verso di lui dal pubblico nell’anfiteatro di Chautauqua, New York. «Sei tu dunque, eccoti qui», pensò lo scrittore sul palco quel 12 agosto 2022, trentatré anni dopo la sentenza di morte dell’ayatollah Khomeini per i Versi satanici. Si alzò in piedi, pietrificato, sollevò la mano sinistra per difendersi ma A. vi affondò il coltello, recidendo tutti i tendini e quasi tutti i nervi. Seguirono, in 27 secondi, altri 14 colpi, al collo, al petto, dappertutto, il più crudele penetrò fino al nervo ottico. «La fortuna è stata che non aveva idea di come si uccida una persona con un coltello», gli dirà un chirurgo nei 18 giorni in ospedale e tre settimane di dolorosa riabilitazione. Ed è grato alle persone che gli salvarono la vita, impedendo l’affondo letale e accorrendo dal pubblico per il primo soccorso. «Non credo ai miracoli, eppure la mia sopravvivenza è miracolosa». Il realismo magico dei suoi libri è diventato realtà nella sua vita. «Ma per la ripresa psicologica ci vuole tempo. Non definirei il libro terapeutico, ma mi ha aiutato a prendere il controllo degli eventi». Cinque giorni dopo l’attentato, sua moglie, la poetessa Rachel Eliza Griffiths, ha iniziato a documentare fotograficamente il lento recupero: l’occhio gonfio «simile ad un uovo sodo che sporgeva dalla faccia», lo squarcio orizzontale nel collo rigonfio e annerito... «Forse, all’inizio dell’anno prossimo sarà pronto. Alcune immagini sono durissime, ma le persone devono vederlo». Quando parla, con un accento che unisce cadenze indiane, britanniche e newyorkesi, la bocca slitta leggermente verso sinistra, a causa di un nervo reciso al collo.
Mancò la sicurezza a Chautauqua, «un posto dolce e sonnolento nel mezzo del nulla, dove agli eventi vanno soprattutto anziani. Non è stata negligenza, è stata innocenza», dice senza risentimento. Ma per Rushdie quello è stato l’ultimo giorno di innocenza. Lui e la moglie hanno attraversato «un periodo molto difficile, ma penso che adesso, che è passato circa un anno e otto mesi, stiamo meglio». Non voleva andarci. Due notti prima aveva avuto un sogno premonitore: un gladiatore lo attaccava in un anfiteatro romano. Gli incubi sono continuati dopo, ogni notte. «Ma ora sembra che le cose si siano calmate nella mia testa».
Lei scrisse una volta che, se c’è un libro altrui che avrebbe voluto scrivere, è «La metamorfosi» di Kafka: «La sua convinzione illusoria di poter tornare ad essere la persona di prima è dolorosa da leggere». A volte si sente così?
«Come l’insetto?», ride.
Come qualcuno che cercando di tornare alla persona che era prima dell’attacco?
«A differenza dell’insetto, il mio problema è reversibile. In gran parte ho recuperato la mia vita ordinaria. La differenza è che adesso dobbiamo prendere precauzioni di sicurezza. Per oltre vent’anni avevo vissuto qui come chiunque altro. E adesso dobbiamo essere consci della sicurezza perché non intendo permettere che accada di nuovo».
Sua moglie all’inizio le vieta di guardarsi allo specchio. Quando lo fa, vedendosi con i capelli da pazzo e un occhio solo, lei nota che questo è il suo «quarto passaggio attraverso lo specchio».
«Ci sono stati momenti della mia vita in cui tutto è cambiato e poteva andare diversamente, come nella poesia di Robert Frost sul bivio nella strada. Il primo fu quando decisi di non tornare dai miei genitori in India dopo Cambridge e di vivere in Inghilterra. Il secondo fu la fatwa. Il terzo quando venni a stare in America. La metamorfosi non è solo trasformarsi in un insetto. Sono trasformazioni della vita ordinaria. Nelle Metamorfosi di Ovidio, le trasformazioni non sono casuali ma necessarie. Ci si trasforma in uccello per sfuggire a qualcuno che vuole violentarti».
Lei non vuole essere giudicato per l’attacco ma per la sua arte. Scrivere questo libro è un modo per renderlo parte della sua arte?
«Sì, penso che la conseguenza peggiore di questi anni dopo la fatwa sia che l’attenzione è stata sviata dal mio lavoro. I Versi satanici è il mio quinto libro, questo è il ventiduesimo. Tre quarti della mia vita di scrittore è avvenuta dopo, non mi piace essere trascinato costantemente indietro, ma l’unica cosa che posso fare è scrivere libri e sperare che la gente li trovi».
Sta lavorando a un nuovo romanzo?
«No. L’unica cosa che ho scritto è un testo di 65 pagine, una novella, ma voglio espanderla un po’ o accorciarla, forse aggiungerne un’altra. Vorrei poterle dire che ho un romanzo da scrivere, quando ce l’ho mi sento meglio, il mondo ha un centro, la mia compagnia è più piacevole. Non si è presentato nulla, ma negli anni ho scoperto che, se continui a lavorare, qualcosa compare».
Il movente di A. non è ancora stato definito. Lei scrive che non ha a che fare con i «Versi satanici», che non aveva letto, e non incolpa l’Iran.
«No, probabilmente è stata l’Hezbollah, perché il villaggio dove vive suo padre, vicinissimo al confine con Israele, è molto legato a Hezbollah. Chiunque abbia incontrato, che ha messo la sua vita su un corso diverso, era probabilmente di Hezbollah».
Per via di questo memoir, il processo è stato rimandato.
«Penso che il suo avvocato stia cercando di essere difficile. Non so la data, penso a settembre o ottobre».
Dovrà testimoniare?
«Penso di sì».
Nonostante lei sappia che chi la considera il Diavolo non cambierà idea, nel libro sembra voler convincere il suo assassino.
«Sì, lo so, è molto difficile avere un altro “io” che è stato creato e diffuso in tutto il mondo. E io non penso di essere quella persona. Forse tra un paio di secoli, la gente lo capirà. Ma ti turba essere descritto in quel modo».
Sherazade cercava di civilizzare le persone crudeli, lei ha cercato…
«Senza successo. Ma credo nelle storie e in un certo senso ho sempre vissuto nell’ombra di questa figura gigantesca della letteratura mondiale. Raccontare storie contro la morte, per sopravvivere, per una sorta di immortalità, tutto questo viene da Sherazade».
Prova risentimento per il fatto che ci siano volute 15 coltellate per trasformarla nel «Rushdie buono, il quasi-martire», dopo il «Rushdie demoniaco», dopo quello «arrogante, che se l’è andata a cercare» e quello «festaiolo»?
«Negli anni subito dopo la fatwa, accanto ovviamente a un forte appoggio per me, ho sentito anche molte critiche, non da fonti musulmane ma da scrittori, giornalisti, gente come il principe Carlo. Ho provato molto risentimento per questo. Meglio il Rushdie buono, anche se malconcio».
Nell’attentato ha avuto un peso la cultura della violenza in America?
«Questa è una persona nata e cresciuta in America. E in quest’America la vita umana vale poco. La decisione di uccidere qualcuno non è così difficile. Vai in una scuola, succede ogni giorno».
Questo è anche un libro sull’amore. Sua moglie è centrale. E lei nota che il giorno della fatwa è anche San Valentino.
«I personaggi di questa piccola storia sono tre: io, lui e lei. Lui rappresenta la morte, lei l’amore, questa straordinaria collisione tra le forze dell’odio e della violenza e le forze dell’amore e della guarigione. E io sono nel mezzo. Fortunatamente non sono morto e posso dire che le forze dell’amore e della guarigione hanno prevalso e c’è un lieto fine».
Ha rimpianti?
«I pasticci nella vita romantica. La mia fortuna è che ho trovato la felicità. Nessuno può essere orgoglioso di aver avuto cinque matrimoni, ma questo sembra permanente».
Passerete metà dell’anno a New York e metà a Londra?
«Vediamo che succede a novembre. Se ci saranno altri quattro anni di Trump, sarà molto peggio della prima volta. Sarà un governo di vendetta. Le istituzioni si sono incrinate la prima volta. Con altri quattro anni non so se l’Idea dell’America può sopravvivere. La cosa che Trump ha ottenuto è di far credere alle persone le bugie e provocare sfiducia nella verità».
Le guerre hanno un effetto sulla cultura e la libertà di espressione. Pen America la scorsa estate si spaccò sulla decisione di ospitare autori russi. Cosa ne pensa?
«Ho cercato di evitare di partecipare alla decisione. Ma la mia opinione è che i boicottaggi letterari siano controproducenti. So che ci sono posti in Europa dove si pensa che non si dovrebbero insegnare Tolstoj e Dostoevskij a scuola. Per me è folle».
Sta accadendo anche per la guerra a Gaza. Nelle università è giusto lasciare che gli studenti gridino «dal fiume al mare» o bisogna regolare la libertà di espressione?
«Penso che “dal fiume al mare” sia chiaramente una dichiarazione antisemita. Il principio è che dovrebbe esserci quanta più libertà e diversità di espressione possibile, ma l’odio razziale è il punto al quale bisogna fermarsi. E ho notato quanto rapidamente le proteste contro il governo di Israele si trasformino in odio per gli ebrei. Alla stessa manifestazione dove si grida “Cessate il fuoco ora”, senti “Bombardate Tel Aviv”. Com’è possibile avere entrambe queste idee nella testa? Ho sempre disprezzato il governo di Netanyahu, ma detesto anche Hamas. Ed è per questo che è difficile vedere un cammino di giustizia qui, perché i protagonisti sono entrambi detestabili».
Nel 2017 accettò di partecipare a uno sketch comico nel programma «Curb your enthusiasm» di Larry David (disse che ricevere una fatwa procura un sacco di ammiratrici attratte dal pericolo). Lo rifarebbe?
«Perché no? Se arrivi al punto in cui puoi riderci sopra, è una specie di vittoria. E come dico spesso, avrei voluto fare l’attore, ma mi fu presto chiaro che non avrei avuto una gran carriera».
Lei crede nella libertà di scherzare su tutto, perché nulla è sacro. Pensa che la generazione più giovane abbia perso questa libertà, poiché crede nel diritto a non essere offesi?
«Un diritto che peraltro non esiste. Sono felice di non essere uno scrittore ventenne esordiente oggi, perché è evidente, almeno per alcuni scrittori, la paura genuina per quello che è consentito scrivere e per le parole che è consentito usare. I giovani hanno tantissime pressioni al conformismo».
E all’autocensura?
«È la cosa peggiore. Se è ciò che vuoi fare, risparmiaci, non scrivere».
Ci sono giovani scrittori che ammira?
«Gli scrittori delle minoranze etniche o immigrati. Sono quelli che stanno facendo il lavoro più interessante e rifacendo la letteratura americana: Jasmin Ward, Colson Whitehead, Min Jin Lee, Yiyun Li...».
Lei disse che i libri che le hanno cambiato la vita sono: «I figli della mezzanotte», che l’ha resa lo scrittore che è, e «I versi satanici» per il quale nonostante tutto è grato perché il suo cammino tormentato le ha insegnato per cosa vivere.
«È così. Ma i libri che ho scritto dopo sono tra quelli che considero i migliori. Mi piacerebbe che la gente leggesse L’incantatrice di Firenze. Quando lo presentai a Firenze avevo paura che non piacesse che uno straniero venisse a parlare agli italiani della loro città, ma diverse persone mi dissero che il periodo del Rinascimento è stato insegnato loro in una versione glorificata e trovarono interessante il mio racconto della vita ordinaria, della povertà, delle prostitute, li riportava con i piedi per terra. E me la cavai».
Tutti i suoi libri in fondo parlano della Storia.
«Incluso quest’ultimo, sì. Siamo padroni delle nostre vite? E penso che la risposta sia: solo se lavoriamo duramente per renderlo possibile».