Corriere della Sera, 15 aprile 2024
Netanyahu vuole tirare dritto e valuta i tempi del prossimo colpo
GERUSALEMME Q uando Benzion curava il giardino di casa a Gerusalemme, imponeva al figlio di aiutarlo: innaffiare, concimare, sradicare le erbacce. E di nuovo: innaffiare, concimare, sradicare le erbacce. Una fatica che al bambino sembrava senza senso, la gramigna continuava a ricrescere, allora il padre gli spiegò l’importanza della tenacia contro le malepiante, «altrimenti infesteranno tutto». La visione pessimista del mondo è stata trasmessa come fertilizzante fortificante al piccolo Benjamin dal genitore che da storico ha studiato per tutta la lunga vita (è morto a 102 anni) le persecuzioni dell’Inquisizione spagnola contro gli ebrei. Il pericolo di un ritorno agli anni bui ha nutrito la risolutezza del premier più longevo contro il rischio di un Iran con la bomba atomica. Secondo il mantra, come ha titolato la rivista Time mettendolo per la seconda volta in copertina cinque anni fa: «Chi è forte sopravvive».
La «guerra ombra» tra i due nemici è stata illuminata dai bagliori delle esplosioni mentre i sistemi di difesa intercettavano centinaia di droni lanciati da Teheran e Benjamin Netanyahu deve adesso decidere quale sia la dimostrazione di forza più efficace. Per ora il primo ministro – scrive il New York Times – avrebbe seguito il consiglio imposto dal presidente Joe Biden e fermato la rappresaglia immediata. Come lui stesso è stato fermato, racconta nell’autobiografia Bibi – My Story – quando voleva ordinare il bombardamento dei centri nucleari iraniani. I piani sono già stati visti e rivisti. Alcune squadriglie di F-35 – ricostruisce il giornale Jerusalem Post – volerebbero sopra il confine tra Siria e Turchia e proseguirebbero sull’Iraq (nonostante l’opposizione di questi Paesi). Altri gruppi potrebbero tagliare attraverso l’Arabia Saudita, se lo consente, e il Golfo Persico. Dopo duemila chilometri, il primo obiettivo sarebbero le difese anti-aree iraniane che proteggono i siti atomici. Problema: per distruggere quelli costruiti a 80 metri di profondità servono le bombe «bunker buster» da 13 tonnellate che neppure l’amico Donald Trump ha accettato di fornire.
Al potere da 15 anni – salvo i 563 giorni passati all’opposizione tra il 2019 e il 2021 – «Mr. Sicurezza» sa di dover riconquistare la fiducia degli israeliani, sa di poterne perdere ancora di più. Nei sondaggi delle elezioni che prima o poi arriveranno viene travolto da Gantz. Invece della potenza militare – speculano alcuni analisti – dovrebbe cogliere l’occasione diplomatica per rafforzare le relazioni con i Paesi arabi sunniti, lui che ha sempre considerato gli accordi di Abramo il suo lascito alla nazione. Eppure non sembra voler cambiare strategia: tira dritto e si tiene stretti gli alleati dell’estrema destra messianica con le loro reazioni «pavloviane» – commenta Anshel Pfeffer sul quotidiano Haaretz – in favore di «una vendetta devastante».
Le sponde politiche
Il primo ministro intende tenersi stretti gli alleati dell’estrema destra messianica
Mentre il comando per il Fronte Interno aerava i rifugi pubblici e consigliava ai cittadini di restare vicini alle protezioni sotterranee, la coppia primoministeriale si è accomodata nella villa offerta in prestito dal magnate americano Simon Falic: non tanto per la piscina coperta, ma per il bunker a prova di attacco nucleare, scrive la rivista digitale Walla. Ancora una volta il politico finito nei guai giudiziari per le casse di sigari e champagne rosé ricevute in regalo dimostra di appartenere a quelle élites che nel 1996 – prima vittoria, primo dei sei mandati totali – prometteva di disarcionare dal potere.
Cinquant’anni fa Golda Meir si dimetteva da premier sei mesi dopo la fine della guerra di Yom Kippur: nonostante la commissione istituita per investigare gli errori di intelligence e strategici l’avesse assolta, si sentiva responsabile del disastro iniziale e soprattutto gli israeliani la consideravano tale. Netanyahu non ha ancora accettato alcuna responsabilità per la mattanza perpetrata dai terroristi di Hamas il 7 ottobre, favorita anche da suoi errori. Nel 1973 tornò dagli Stati Uniti per combattere e con lui sull’aereo c’era Ehud Barak. Era il suo comandante nelle forze speciali, adesso invoca che se ne vada.