la Repubblica, 15 aprile 2024
OJ Simpson e la post-verità
Ci sono momenti nella storia, in quella dei fatti e in quella del pensiero, che determinano eventi successivi. È quel che il sociologo canadese Malcom Gladwell ha definito il “punto critico”, oltre il quale il cambiamento diventa inarrestabile. O, in altre parole, una specie di “paziente zero” delle umane vicende. Un presagio inesorabile del mondo a venire. Ora, secondo un articolo appena pubblicato dall’Economist, la linea difensiva nel processo per omicidio che portò all’assoluzione di O.J Simpson è uno di quei momenti generatori di futuro. A che cosa avrebbe portato? Alla post-verità, al populismo, alla presidenza e forse alla replica di Donald Trump, alla teoria del complotto come dato di fatto accertato e accettato. Si potrebbero aggiungere altre conseguenze: dalla prevalenza dei social come fonte d’informazione ai no vax e la supposta strage ad opera dei vaccini. La teoria è suggestiva, argomentata, non del tutto persuasiva, limitata probabilmente dal fatto di considerare quel che accade negli Stati Uniti come minimo comune detonatore.
A lungo ha prevalso la dittatura della verità ufficiale.
Perfino quando la stessa risultava poco credibile o evidentemente pre-fabbricata. Restando alla storia americana recente possono esserne consideranti esempi il rapporto della commissione Warren sull’omicidio di John Kennedy (9mila pagine per sostenere la tesi del tiratore unico, Lee Harvey Oswald, che aveva agito per contro proprio) o ancora la relazione all’Onu dell’allora Segretario di Stato Colin Powell sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq (suffragata da scatti fotografici falsificati). Menzogne sorrette dall’arroganza del potere. La post-verità è invece una condizione in cui l’autenticità di una notizia è considerata irrilevante e i fatti accertati soccombono alle emozioni di parte.
La vera svolta è nel fatto che questa parte non è, almeno all’inizio della diffusione della post-verità, dominante (lo diventerà proprio grazie a quella).
In materia il processo a O.J. Simpson è davvero illuminante. Si svolge nel 1995, in un’America molto più razzista di quella attuale. Come ricorda l’Economist, al tempo solo la metà era favorevole ai matrimoni misti. O.J. è l’alfiere nero, accusato dell’assassinio della ex moglie bianca e del suoamico, lui pure bianco. Compare davanti a una giuria composta per tre quarti da afro-americani.
Contro di lui ci sono indizi e prove teoricamente schiaccianti (il suo sangue sulla scena del crimine e quello delle vittime nella sua auto e nel suo domicilio). Gli argomenti razionali e logici vengono eclissati da quelli emotivi. Giurati e pubblico valutano per affinità, non analizzano la veridicità dei fatti, ma si affidano a convinzioni personali, sollecitate ad arte. La difesa evoca un complotto delle istituzioni, del potere bianco: la consueta indagine corrotta che porta in galera e poi alla condanna a morte una stragrande maggioranza di neri o latini rispetto ai bianchi americani. Poco importa che O.J. sia ricco e famoso, che faccia parte dell’1 per cento e non della coda del 99 per cento che marcisce nelle carceri o muore nelle strade. Far liberare lui significa, seguendo questa teoria, liberare una parte oppressa. È la vittoria di un popolo contro le élite, traducendo nel linguaggio del populismo che verrà. Si tratta dello stesso artificio usato da Trump per sobillare ilforgotten man contro Washington prima e per far passare l’assalto alla diligenza del 6 gennaio 2021 come una macchinazione dei democratici al governo poi.
Poliziotti razzisti o addirittura nazisti proteggevano i veri colpevoli dell’omicidio dell’ex moglie di O.J..
Giudici schierati con la cricca di Biden e Obama tentano di impedire la rielezione di quello che avrebbe dovuto restare alla Casa Bianca quattro anni fa. Basta agitare uno spauracchio, un nemico potente e ricco, per suscitare quel sentimento: c’è Bill Gates dietro la pandemia. C’è George Soros dietro la guerra. Funziona, ma davvero questo schema è nato così? In America, forse. Lì non si conosce la stessa divisione acerrima del tifo che esiste in Italia. Da noi la creazione della post-verità può essere fatta risalire a 14 anni prima del processo a O.J. Simpson. Il fatto scatenante avviene su un campo di calcio, a Torino, durante la partita Juventus-Roma. Passa alla storia, con tutti gli effetti collaterali, con questa frase: “Er gol de Turone era bono”. Dopodiché O.J.Simpson (anche per ammissioni successive all’assoluzione) era colpevole, su quella rete meglio non esprimersi.