La Stampa, 15 aprile 2024
Il tempo dell’infelicità
Io sono ciò di cui ho memoria, la Repubblica è ciò di cui ha memoria, l’umanità è la dolce curiosità di una universale e reciproca domanda, de chi te sen? E nello scambio dei racconti che danno risposta alla curiosità, si compone il romanzo del mondo. Il passato come risorsa, pensava Benjamin. E Mario Tronti, sia chiaro che non è più l’avvenire ma il passato l’arma più potente contro lo stato presente delle cose.
Sono neodo de Garibà e sono figlio della Repubblica. Nel calendario intimo della Repubblica c’è un momento, no, non un momento, un’epoca, in cui ho vissuto e ho partecipato della felicità pubblica. C’è stato un momento incredibilmente felice nella vita della Repubblica ed è stato il momento felice della mia. Il tempo della promettenza, il decennio degli anni settanta del secolo passato. Difficile trovarne traccia di quella felicità così rara nella Storia, quella che per Hannah Arendt si compendiava nell’esperienza del cittadino del partecipare in presenza alla pari, in uno spazio fisico condiviso, e nell’emozione che ne deriva. Il compiersi della democrazia, il punto più alto delle libertà individuali e comuni che un sistema democratico può concedersi. Non ce ne ricordiamo, siamo invitati caldamente a non farlo. Per questa ragione è assai più facile trovarne traccia sotto la voce “gli anni di piombo”, perché alla fine ci fu la sconfitta, una sconfitta severa, una pietra tombale sulla felicità. E se non c’è una data fausta per il suo inizio, non c’è stata una proclamazione ma cento proclamazioni e cento giorni buoni per essere ricordati, è forse possibile fissarne un giorno, quello sì, della fine. Il nove maggio del 1978, il giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, il primo giorno della nuova età, il tempo triste della Repubblica. Quella data è compresa nel calendario ufficiale della Repubblica, ma non per ricordare la fine dell’età della felicità pubblica, bensì alla voce vittime del terrorismo, nel cui elenco la felicità non è compresa.
Non sono stati anni da favola quei settanta, furono anni di conflitto, ma la Repubblica era ancora giovane e il conflitto è stato lievito. Il conflitto non è guerra, è contesa, scontro, conflitto tra padre e figlio, tra capitale e lavoro, tra la pulsione di vita e la pulsione di morte, tra bene pubblico ed egoismo privato, tra luce e gravità, tra me e me medesimo, e il suo destino è la composizione. E sono stati anche anni di guerra, guerra alla democrazia che si stava incamminando nella sua felice forma, assalti armati alla Repubblica, stragi, tentativi di golpe, condotte eversive dei corpi dello Stato, assassinii politici, e il destino della guerra è la guerra. Ma fino alla fine, fino al nove maggio del 1978, a prevalere è stato lo spirito progressivo, la vitalità, l’energia della promettenza. E lì io sono cresciuto fisicamente nello spazio pubblico, assieme e alla pari.
È stata la mia una generazione fortunata, i figli dei fondatori che hanno provveduto a darci ciò che nessuna generazione ha mai avuto, la salute, l’istruzione, il tempo per pensare e lo spazio sociale per farlo assieme. E l’energia per sentirci pronti a una libertà ulteriore, perché questo ci hanno dato i fondatori della Repubblica, la libertà di opporci alla loro stessa autorità. Ed è stata una rivolta generale, e tutto è stato discusso, tutto ciò che era dato per assodato, una rivolta contro l’ovvietà dell’ordine costituito. Ed è stata una rivoluzione totale, politica, sociale, culturale, sessuale, religiosa, perché nell’ordine stabilito delle cose tutto è stato colpito e molto affondato e rifondato, perché è stato sancito un prima e un dopo nella vita della comunità e delle persone. Una rivoluzione duratura perché, nonostante la sua sconfitta, trascorsi cinquant’anni la restaurazione non è ancora del tutto compiuta.
Come posso chiedere al mio cuore di dimenticare? Dimenticarmi degli operai dei cantieri navali che venivano a portare cibo e coperte nella scuola che occupavo nell’inverno del 1969, intanto che il battaglione celere della polizia presidiava in assetto antisommossa la città in attesa dell’ordine di sgombero. Non erano forse i colleghi di mio padre che mi aveva proibito, inutilmente, di mettermi nei guai, di vanificare con la mia insubordinazione i sacrifici che aveva fatto per man62 darmici, a scuola? Sì, erano loro, e mi parlavano, volevano capire cosa volessi e volevano che io capissi cosa volevano loro, perché intanto stavano scioperando. Dimenticarmi forse di quello stesso inverno, intanto che gli studenti imponevano la riforma della scuola, la loro conquista del contratto unico? Dimenticarmi la sera che mio padre si è presentato davanti alla mia scuola con un pacco enorme di dolci, perché aveva vinto, la sua vita di operaio era cambiata, cambiati il suo salario e lo sguardo su suo figlio. Dimenticare il fatto straordinario, unico, che è stato il tempo in cui il conflitto tra capitale e lavoro si era volto a favore del lavoro?
Dimenticarmi che sono diventato maestro di scuola negli anni che la scuola sperimentava con una libertà mai conosciuta non solo modi nuovi della didattica, ma un modo nuovo di vivere in una comunità educante e aperta? Insegnavamo e imparavamo, tutti quanti avevamo bisogno di imparare, tutti quanti avevamo qualcosa da insegnare. Potrei forse dimenticare che il primo alunno portatore di handicap entrato in un’aula di una scuola statale – allora era contro la legge, per i portatori di handicap c’erano gli istituti e le classi differenziali – ci è entrato accompagnato dal consiglio della fabbrica di suo padre, con le bandiere del sindacato? Io ero lì con quel ragazzino e mi ricordo.
Mi ricordo bene quanta energia c’era nelle battaglie, e quanto appassionato amore. Amavamo la rivolta, amavamo la libertà, amavamo la nostra stessa passione, amavamo l’ignoto avvenire, amavamo il sesso, amavamo la strada, non era necessario essere anarchici per cantare con la dolce nostalgia per qualcosa che avevamo appena scoperto l’addio degli anarchici luganesi, la nostra idea è solo idea d’amor.
E quanta emozione nelle vittorie, tutto nello spazio pubblico, fisicamente e alla pari, una perenne esperienza del partecipare. Il divorzio, la sanità pubblica, lo Statuto dei lavoratori, l’aborto, il diritto di famiglia, il diritto allo studio per tutti i lavoratori con le centocinquanta ore garantite e retribuite, io sono uno di loro, mi sono laureato da studente lavoratore. Tutto in quel decennio.
E intanto saltavano in aria i treni, le piazze, le banche, moriva sparata della gente perbene, indifferentemente per caso o intenzione, perché tutto questo era intollerabile all’ostinata reazione dei nemici della Repubblica, gli infaticabili costruttori di una storia di morte. Eppure le strade non erano mai vuote, non era il tempo della paura, era il tempo della costruzione della democrazia pubblica felicità, e Giorgio Gaber cantava
C’è solo la strada/ Su cui puoi contare/ La strada è l’unica salvezza/ C’è solo la voglia e il bisogno di uscire/Di esporsi nella strada e nella piazza.
Perché il giudizio universale/ Non passa per le case/ E gli angeli non danno appuntamenti/ E anche nelle case più spaziose/ Non c’è spazio per verifiche e confronti.
E ricordo bene come ha avuto inizio il tempo dell’infelicità, e anche se non so più dire il giorno non ho dimenticato il luogo della cerimonia, non ce n’è traccia nel calendario repubblicano, ma è qui, ben piantato davanti agli occhi. Erano passati un paio d’anni da quel nove di maggio del 1978, giusto il tempo di prepararne per bene l’avvento, e sui muri delle cento ormai disadorne città d’Italia apparve una vampata di nuovo colore. Enormi manifesti di un giovane uomo assai perbene, forse un padre di famiglia alle prime armi, ben vestito, ben pettinato, eppure scanzonato, che corre con la cravatta al vento e in pugno la borsa da lavoro, non una ventiquattrore di troppo successo e neppure la borsaccia di un idraulico, una cosetta di pelle da impiegato, da promotore finanziario ai suoi albori. Corre felice verso casa, perché corri a casa in tutta fretta, c’è un biscione che ti aspetta. Il biscione sforzesco con il fiore in bocca di Canale 5, Mediaset, la rivoluzione di Silvio Berlusconi. La felicità pubblica si è fatta consumo privato, le strade si sono svuotate, la comunità ha imparato a non riconoscersi più, lo ha fatto in fretta, la nuova urgenza era tornare a casa in tempo per trovare un posto libero sulla Ruota della Fortuna, e Gaber continuava a cantare,
Nelle case/Non c’è niente di buono/ Appena una porta si chiude/ Dietro un uomo/ Succede qualcosa di strano/ Non c’è niente da fare/ È fatale quell’uomo/ Incomincia a ammuffire/ Ma basta una chiave/ Che chiuda la porta d’ingresso/ Che non sei già più come prima.
Da allora sono passati quarant’anni, due generazioni, e la Ruota della Fortuna è ancora lì che gira e gira e gira, perché c’è sempre un fortunato che vince e tutti prima o poi avranno fortuna. E la felicità pubblica s’è rintanata nella mestizia, e la mestizia nel disamore e il disamore nella smemoratezza, perché ricordare fa male, crea disordine, genera conflitto, la memoria lavora per la giustizia e per la giustizia non c’è posto sulla Ruota della Fortuna. —