il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2024
Dylan, Boss o Winehouse: il biopic alla prova del fan
Vivi, o preferibilmente morti. Se vuoi davvero raccontare le leggende del rock & pop con una sceneggiatura hollywoodiana, un conto spese che schizza alle stelle tra diritti, cataloghi, pretese degli eredi, sai bene quali rischi correrai. I fans potranno adorare il tuo “biopic” o farlo a pezzi in un amen: magari perché il protagonista non somiglia al personaggio, oppure canta in sua vece. I produttori di Back to black – nelle sale il 18 aprile – tremano, malgrado l’attrice che interpreta Amy Winehouse, la 27enne inglese Marisa Abela, si sia “preparata come un’atleta” (giura lei), sottoponendosi a una trasformazione fisica che la rende praticamente identica alla scomparsa musa del soul. L’insidia è che la Abela è chiamata a coverizzare con la propria voce le canzoni della Winehouse. Non se la cava male, ma gli ultrà di Amy fanno già sapere di non gradire l’impraticabile confronto. A storcere il naso sull’operazione è anche Mitch, il padre della Winehouse: “Ho rimandato indietro la prima bozza del soggetto, mi faceva sembrare un santo”.
Il botteghino deciderà se lo scandaglio sulla breve, infelice avventura terrena della vocalist si tradurrà in una paracula beatificazione cinematografica o in un rumoroso flop. Come sia, il compianto dello spettatore può rivelarsi un bonus: scopri la donna dietro l’artista e soffri con lei, che è ormai tumulata in un pantheon di semidei, come quasi tutti i target dei “biopic”. Bohemian Rhapsody fece razzia di Oscar, e malgrado Rami Malek non fosse Freddie Mercury, si era calato talmente in profondità in quel ruolo scivoloso da uscirne in modo ammirevole.
Uno dei due registi (occhio, fu accreditato solo Bryan Singer) del filmone sul frontman dei Queen era Dexter Fletcher, che nel 2019 aveva calato un nuovo potenziale asso con Rocketman: eppure, nonostante il plot ben costruito e l’ottima performance di Taron Egerton, la saga sulla movimentata esistenza di Elton John non ha sbancato il box office: forse perché il buon Elton è ancora in giro e appena un anno fa ha regalato l’ultimo bis del tour d’addio?
Il vivente appassiona meno del fantasma?
Sì, ovvio, a prescindere.
Di questa trappola dovrà tener conto pure James Mangold, che dopo il tributo del 2005 a Johnny Cash (I walk the line, con Joaquin Phoenix) sta dirigendo le riprese di A complete Unknown: berrettino, sciarpa d’ordinanza e chitarra acustica, ecco Timothée Chalamet aggirarsi nella fredda New York d’inizio anni Sessanta nell’incarnazione del giovane Bob Dylan. Impresa disperante, sulla carta. Chalamet è tra i migliori attori della nuova generazione, però Dylan è inafferrabile. Ci aveva provato il filmmaker Todd Hayes con Io non sono qui, spacchettando il folksinger in sette personaggi diversi. Pregevole espediente narrativo: ma per afferrare brandelli di un plausibile Dylan meglio i docu storici di Scorsese e D.A. Pennebaker, dove capisci che il vero capolavoro di Bob è sparire restando sempre al centro del palco. Buona fortuna dunque a Mangold e Chalamet (che per affinare la prova si è consultato con Austin Butler, l’impavido, inappuntabile Elvis): sfoglieranno il diario degli esordi del Nostro, di quando cadde sulla terra e cominciò a prendere per il culo tutti, da trasformista di ineguagliato talento, un Fregoli poeta. E chissà come andrà anche per un altro intrigante progetto, Deliver me from nowhere (liberami dal nulla), tratto dal libro di Warren Zanes dedicato a Nebraska, l’album più letterario della discografia di Springsteen. Che era stato registrato dal Boss nel modo più artigianale possibile, un registratore a cassette, voce, chitarra e un mucchio di testi che parevano scritti da Steinbeck. Su Deliver me from nowhere pare si sia mobilitato lo stesso Bruce, pronto a collaborare sull’idea con il regista Scott Cooper. La carta coperta? La solita: quale divo potrebbe risultare credibile sovrapponendo al proprio volto i tratti dello Springsteen datato 1982? Avrebbe firmato Jeremy Allen White (The Bear), che così somigliante non è: i fedelissimi del rocker del New Jersey potrebbero ripudiare una “maschera” troppo spiazzante.
E poi Springsteen è ancora fortunatamente solido come una roccia, nei concerti americani firma giustificazioni ai ragazzi che hanno bigiato la scuola per vederlo, San Siro lo aspetta in giugno. Dai, in questo profluvio di biopic si azzarda in ogni caso meno ripercorrendo la storia di un illustre trapassato, vedi il Bob Marley di One love impersonato da Kingsley Ben-Adir.
In assenza di sosia o di valenti truccatori, ci si può comunque affidare ai familiari: è prevista tra un anno l’uscita dell’attesissimo Michael, nel costume di Jacko ci sarà suo nipote Jafaar Jackson. Più in là, addio al cast umano: sul set basterà l’intelligenza artificiale.