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 2024  aprile 14 Domenica calendario

I problemi dell’Iran

Il 9 gennaio del 2020, sei giorni dopo l’uccisione del generale Qassem Suleimani, il numero 3 del regime iraniano, i missili da crociera dei Pasdaran sorvolavano il deserto iracheno. Obiettivo la base di Ayn al-Asad, il più importante complesso militare degli americani nel Paese. I soldati si erano già ritirati nei compound fortificati, dopo la telefonata di avvertimento degli ufficiali di Teheran agli omologhi statunitensi. I missili cadevano uno dopo l’altro scuotendo le piste di cemento e gli edifici. La base, cuore del dispositivo americano in Mesopotamia, era priva di Patriot o altre difese aeree. I soldati potevano solo osservare, aspettare, e sperare che non accadesse il peggio. La rappresaglia degli Ayatollah era studiata per non fare vittime e non innescare una guerra aperta con gli Stati Uniti. Quattro anni fa è finita così. Ma questa volta è diverso. Anche se l’obiettivo resta lo stesso: non perdere la faccia e non esporsi a un attacco devastante da parte di Israele e degli Usa. Ma la guida suprema Ali Khamenei si è infilata in un corridoio sempre più stretto: può andare solo avanti, senza vie di uscita laterali. Lo schiaffo dell’uccisione del generale Mohamad Reza Zahedi, nel consolato di Damasco, bruciava ancora. Le parole di Biden, il monito a «non attaccare», hanno avuto l’effetto del sale sulla ferita. Perché se non avesse fatto nulla, Khamenei sarebbe passato alla storia per quello che aveva piegato il capo davanti al “Grande Satana”.
DIRETTA L’Iran attacca Israele
Nei cieli iracheni e iraniani il rumore dei droni lanciati verso IsraeleIl corridoio è diventato una trappola perché le opzioni erano poche. L’Iran non poteva attaccare le ambasciate israeliane nella regione, come avrebbe richiesto una rappresaglia proporzionata. Colpire ad Amman, come ad Abu Dhabi, avrebbe significato buttare al vento il principale risultato del presidente Ebrahim Raisi. La normalizzazione con gli Stati Arabi moderati, a cominciare dall’Arabia Saudita, che, con l’aiuto della Cina, ha permesso a Teheran di uscire dallo strangolamento delle sanzioni e tenuto in piedi il regime. Sarebbe una sconfitta strategica gigantesca. Operare con azioni terroristiche su interessi israeliani in altri Paesi non avrebbe avuto lo stesso impatto simbolico e non avrebbe salvato la reputazione a Khamenei. Restava solo una possibilità. Colpire Israele stessa. Una scelta, quasi obbligata, che però rischia di far perdere alla Repubblica islamica un altro notevole vantaggio strategico conseguito dopo il 7 ottobre. Aver mantenuto finora le rappresaglie delle milizie sciite in una scala molto contenuta, unito alla sopravvivenza di Hamas in una Striscia rasa al suolo ma non domata, aveva ribaltato il precedente isolamento iraniano nella regione in un isolamento dello Stato ebraico.
Ma se l’attacco sul territorio israeliano si trasformasse in una guerra regionale Teheran tornerebbe a essere la grande minaccia da contenere in Medio Oriente, come la Russia nell’Europa dell’Est. Khamenei doveva però valutare anche un aspetto tattico. Come sottolineano analisti nel campo dell’Asse sciita della resistenza, un lancio massiccio di missili poteva incorrere in due tipi di fallimento. Se la formidabile difesa antiaerea di Tsahal, composta da tre strati di sistemi all’avanguardia, li avesse abbattuti tutti, «la deterrenza iraniana sarebbe seriamente ridimensionata». Ma se ne passavano troppi la rappresaglia «sproporzionata» avrebbe giustificato l’allargamento del conflitto, uno degli obiettivi del premier Benjamin Netanyahu, soprattutto in ottica personale: più si allunga la guerra più resta alla guida di Israele. È ancora presto per capire, con notizie frammentate, se andiamo in questa direzione. Un’azione iraniana limitata a ondate di droni suicidi, seguite da un numero contenuto da missili da crociera, come appariva ieri in tarda serata, non avrebbe queste controindicazioni e confermerebbe la volontà della guida suprema di non farsi invischiare in maniera irreparabile nel conflitto. Bisogna vedere se il premier israeliano è dello stesso parere e le prime dichiarazioni lasciano presagire tutt’altro.
Anche perché il confronto si innesta anche sulle difficoltà che incontra l’esercito israeliano a Gaza, sottolineate da esperti militari di tutte le aree politiche, compresi di centrodestra. Il dubbio che serpeggia è che Hamas stia «vincendo la guerra». Anche se fosse vero che «20 su 24 battaglioni» jihadisti sono stati distrutti, cioè ventimila uomini sui 25 mila stimati all’inizio delle operazioni, questo non è stato sufficiente per arrivare alla «vittoria totale», cioè alla decapitazione del movimento e al pieno controllo del territorio. Come ha notato l’analista Seth Frantzman, appena l’esercito israeliano si è ritirato da Khan Younis, come già da Gaza City, Hamas è tornata padrona. I suoi uomini gestiscono la distribuzione degli aiuti e mantengono l’ordine. I video diffusi dalla propaganda del gruppo mostrano continui attacchi con cecchini e razzi anti-tank sulle forze israeliane rimaste a pattugliare i due grandi assi stradali che dividono in quattro la Striscia. La strategia israeliana è stata altalenante. Sul giornale di opposizione Haaretz, l’ex ambasciatore britannico Tom Phillips ha sintetizzato: «Hamas ha squinternato il mito dell’invincibilità di Israele e ha esposto le sue fragilità nel sostegno internazionale». Uno scomposta reazione da parte dell’Iran è a questo punto la carta migliore nelle mani di “King Bibi”. Khamenei lo sapeva. Doveva attraversare quel corridoio sempre più stretto: colpire senza esporsi, ribadire la propria guida della “resistenza” senza farsi distruggere dai raid di risposta di Israele, dotata, questo sì, di una supremazia aerea schiacciante. Le prossime ore ci diranno se ha passato la prova. O ha azzardato troppo, questa volta.