Corriere della Sera, 14 aprile 2024
L’occidente indietreggia
Oswald Spengler intravide Il tramonto dell’Occidente (Aragno) già nel 1918, alla fine della Prima guerra mondiale. Ma – come è noto – quella che individuò era, piuttosto, la fine o l’inizio della fine della civiltà europea. Con straordinaria lungimiranza pochi anni dopo, nel 1921 al terzo Congresso del Comintern, Lev Trotsky confermò che l’Europa appariva ormai «rovinata», dal momento che la capacità produttiva del continente era molto più bassa di prima della guerra. Ma Trotsky comprese anche che il centro economico mondiale si stava «spostando in America». Pochi giorni dopo il concetto fu ribadito dall’organo ufficiale del regime leninista, «Izvestija», che – se ne accorse già Edward H. Carr in La rivoluzione bolscevica 1917-1923 (Einaudi) – stabilì in modo perentorio esser diventati gli Stati Uniti la «principale potenza del mondo». Cosa che – scrive Alessandro Vanoli nello straordinario L’invenzione dell’Occidente, in uscita per Laterza dopodomani, 16 aprile – divenne «drammaticamente chiara» alla fine della Seconda guerra mondiale.
Dopo la sconfitta di Adolf Hitler, ricorda Vanoli, il dominio dei mari del mondo, che era stato della Gran Bretagna dal 1600 fino al 1945, passò agli Stati Uniti. Anche se pochi al momento capirono quel che stava accadendo. Tale dominio fu «confermato» nel 1949 con la nascita della Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (Nato) a conduzione statunitense. E in quel momento la supremazia Usa divenne chiara a molti più analisti.
Tutto ciò mentre l’Europa centro-orientale entrava nell’orbita sovietica e Paesi di antica civiltà vennero trasformati in regimi con una ben identificabile impronta staliniana. Poi le cose rimasero tali fino alla riscoperta culturale della Mitteleuropa ad opera di scrittori come Milan Kundera e Claudio Magris. Riscoperta che precedette di qualche anno la caduta del muro di Berlino. Di questo non irrilevante cambiamento del secondo dopoguerra si accorse quasi immediatamente Arnold Toynbee, il quale nel 1948 fu perentorio nel sostenere che il «rimpicciolimento dell’Europa» era ormai «un inequivocabile fatto compiuto». In un certo senso ci si può spingere a dire che «l’Europa intesa come civiltà» – quello che era stato l’Occidente spengleriano – fu la grande sconfitta della «guerra dei trentun’anni» – 1914-1945 – dal momento che, quando si concluse, due Stati esterni ad essa (Usa e Urss) ne depredarono l’identità.
Se si vuole ritrovare un presumibile «atto di nascita» dell’Occidente si deve risalire a un giorno di metà aprile del 1524 allorché, in Estremadura, si incontrarono geografi spagnoli e portoghesi che avevano il compito di spartirsi il Nuovo Mondo scoperto dai loro navigatori nei trent’anni che avevano preceduto il consesso. Prima di allora l’Occidente non esisteva. O meglio, scrive Vanoli, «esisteva la direzione, esisteva l’arte dell’orientarsi». Ma «non c’era un luogo che corrispondesse davvero a quel nome»; non c’era «uno spazio che fosse tale in quanto “occidentale” e che facesse pensare alle persone che lo abitavano di avere particolari caratteristiche sociali, politiche e culturali». Quello del 1524, però, fu solo l’inizio di una lunga storia. Il resto, tutto ciò che gradualmente fece passare dal concetto di «direzione geografica» ad «un’idea di appartenenza» venne dopo, nel Seicento, nel Settecento, nell’Ottocento.
La vera e propria nozione di «civiltà occidentale», ricostruisce Vanoli, nacque negli Stati Uniti (non in Europa come ancor oggi si è indotti erroneamente a credere). L’espressione cominciò a circolare già agli inizi degli anni Novanta dell’Ottocento. In discorsi pubblici e accademici tanto inglesi quanto americani. E prese un definitivo «statuto storico e culturale» nel 1919 (l’anno successivo alla pubblicazione del libro di Spengler), allorché alla Columbia University di New York venne istituito un corso didattico denominato per l’appunto «Western Civilization». L’idea alla base di questa definizione universitaria era che vi fosse «una civiltà la cui evoluzione andava dai Greci ai Romani, passando per l’Europa rinascimentale per giungere sino agli Stati Uniti, intesi come autentici eredi delle libertà maturate nell’Europa moderna».
Nel 1949 questo «percorso» fu precisato meglio dal congresso dell’American Historical Association (ne riferì George Mosse, studioso ebreo dei nazionalismi fuggito anni prima dalla Germania nazista per riparare negli Stati Uniti). In quella sede, sottolinea Vanoli, fu definita la parabola storica con cui veniva identificata la «civiltà occidentale»: «un percorso che dai fasti della classicità greca e romana giungeva sino all’apice della libertà, cioè la democrazia statunitense».
Fu poi nel 1956, dopo il mancato (probabilmente impossibile) intervento – anche in forme soft – di sostegno europeo alla rivoluzione ungherese e il fallimento anglo-francese nella guerra per il canale di Suez, che l’Europa venne costretta a prendere atto della crisi della propria rilevanza. Vero è che proprio in quegli anni l’Europa aveva imboccato la via dell’unificazione. Ma ci sono voluti decenni per compiere passi che ci hanno consentito di ritrovarci, oggi, a metà strada. E forse neppure a metà del percorso.
Trascorse qualche anno da quel 1949 e nel mondo anglosassone cominciarono ad essere pubblicati libri anche divulgativi – come L’ascesa dell’Occidente di William H. McNeill (1963) – che definivano in modo più appropriato in cosa consistesse la nuova identità. Romanzi, film e serie televisive fecero il resto. La fine della guerra fredda ha conferito – almeno per qualche tempo – un valore accresciuto al concetto di «Occidente». L’«Occidente» sembrò avere una «fugace apoteosi» come vincitore del conflitto che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra. Nella sua identificazione finì dentro un po’ di tutto: «un’economia sviluppata», scrive Vanoli, «un’idea – non sempre chiarissima – di libertà, garanzie individuali sul piano giuridico, democrazia nella sfera politica, liberalismo ed economia di mercato». Appartenevano adesso all’Occidente Paesi come Australia, Nuova Zelanda, ma anche Paesi asiatici come Giappone e Corea del Sud. Persino i non pochi studiosi polemici contro questa concezione dell’Occidente non ne mettevano sostanzialmente in dubbio l’identità. Qualcuno ha parlato per quel periodo di «età neoliberale»: una fase in cui di fatto «si è consolidata l’ideologia del mondo occidentale, definendo un paradigma che, per quanto ormai ampiamente messo in crisi», è stato a lungo dominante. Finché…
Finché sono apparsi all’orizzonte «elementi concreti per pensare che il centro del mondo potesse per l’ennesima volta cambiare». Soprattutto, due. Il primo: «il mondo si è ormai globalizzato» (il termine «globalizzazione» fu coniato dal settimanale «The Economist» già nel 1962) e in un simile contesto anche la più grande potenza dell’orbe terracqueo «non ha più le mani libere per agire come le pare». Il secondo («che a suo modo può essere pensato come un corollario del primo»): siamo di fronte ad una sorta di «declino americano» a cui fa da contraltare l’«ascesa di altre potenze». In particolare, la Cina. Ma anche altre. E questo ha modificato nel profondo la scena politica mondiale. Temi, questi, già affrontati da Niall Ferguson in Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà (Mondadori) e più recentemente in un libro di Franco Cardini del quale ci siamo già occupati su queste stesse pagine: La deriva dell’Occidente (Laterza). Vuol dire che la fine degli Stati Uniti è imminente? Assolutamente no. Ma la crisi del monopolio Usa sul mondo occidentale è ormai «un dato di fatto». Dal XVI secolo in poi l’Europa ha progressivamente esteso il suo potere sul resto del mondo. Poi, per due secoli, tutto ciò ha assunto davvero «la dimensione di un controllo quasi globale». Nell’Ottocento sotto l’egemonia inglese, nel Novecento sotto quella americana. Adesso non è più così.
Nello stesso tempo abbiamo dovuto prendere atto del fatto che non è mai esistito l’«Oriente», se non come una semplicistica proiezione del nostro mondo. Tema imposto già alla fine degli anni Settanta da Edward Said con Orientalismo (Feltrinelli). Con buona pace, scrive Vanoli, «di molti nostri storici troppo presi ad occuparsi di castelli, principi e comuni», i cinesi non avevano torto a pensare che la vera civiltà era stata «molto spesso» la loro. Erano stati in Asia i più importanti centri culturali, le più importanti civiltà, gli spazi dove si erano intrecciate per secoli le grandi vie commerciali che già allora trasportavano uomini su scala globale. Di qui qualche inevitabile domanda: è mai possibile che uno spazio di quelle dimensioni sia tutto uguale? Può essere considerato plausibile che in un mondo che va dai Dardanelli alla Malesia la gente «orientale» ragioni più o meno tutta allo stesso modo? Ma soprattutto: «Siamo davvero ancora così egocentrici e “orientalisti” da pensare che tutto quell’immenso spazio abbia bisogno di noi per darsi un senso?».
Aggiungiamo a quel che si è detto il tema del risveglio religioso. Solitamente – vedi, pur da prospettive assai diverse, Maxime Rodinson Il fascino dell’islam (Dedalo), Bernard Lewis La rinascita islamica (il Mulino) o Robert Irwin Lumi dall’Oriente. L’orientalismo e i suoi nemici (Donzelli) – lo si associa all’islam. Ma non si tratta solo di questo. Il fenomeno riguarda in modo diverso quasi tutte le religioni. L’India, per fare un esempio, sta vivendo qualcosa di estremamente importante oscillando tra «nuove forme di induismo sempre più globali» e «tendenze radicali spesso fortemente nazionaliste». Che talvolta si intrecciano con l’esplosione demografica e le migrazioni. A partire dagli anni Sessanta del XX secolo, nota lo studioso, l’emigrazione da molti Paesi dell’Asia è andata crescendo a dismisura: Cina, India, Filippine e Vietnam hanno visto milioni di persone spostarsi verso Nord America, Europa e Australia, ma anche verso l’Estremo Oriente (Singapore, Malesia, Taiwan) e i Paesi del Golfo.
A tutto ciò si aggiunge la rinascita di forti ideologie etniche. Popoli e nazioni che, come la Russia, hanno cominciato a ricostruire la loro storia e il loro senso di appartenenza a partire da un passato («più o meno mitizzato»), da una nuova idea di sangue comune e, cosa che più preoccupa, dalla costruzione di un nemico condiviso. Che spesso è stato identificato con quell’«Occidente» da cui abbiamo preso le mosse.
Si è tornati per certi versi a un’intuizione della fine del Settecento colta dallo straordinario libro di Antonello Gerbi La disputa del Nuovo Mondo (Adelphi), secondo cui la storia universale era configurabile come una grande freccia tirata sul planisfero da destra verso sinistra, da est verso ovest. Idea che aveva sedotto persino un grande filosofo – Georg Wilhelm Friedrich Hegel in Filosofia della storia universale (Einaudi) – il quale nel corso del semestre invernale 1822-23 sostenne che «ogni Paese rappresenta l’Oriente per un altro, ma l’Asia è la parte terrestre che costituisce l’Oriente per sé, mentre l’Europa in parte è il centro, in parte il punto finale della storia universale». Quel punto non era quello finale. Un secolo dopo sarebbero venuti alla ribalta gli Stati Uniti, quel mondo nuovo che a Hegel appariva ancora «debole e impotente». Anche se intuì che gli emigranti verso l’America erano «in una posizione di vantaggio» dal momento che tutti portavano con sé «il tesoro della cultura europea» e non pativano per «i gravami che gli Stati europei impongono agli individui». Per di più ritrovavano in America «le tribolazioni lasciate dietro di sé». Il fatto che la storia andasse da est a ovest agli inizi dell’Ottocento divenne qualcosa di praticamente assodato. Valeva per la maggior parte degli intellettuali del tempo, italiani, francesi, tedeschi e inglesi: da Byron a Shelley, da Humboldt a Madame de Staël. L’intuizione era fondamentalmente giusta. Ma solo adesso tutti sono divenuti consapevoli che è venuto il momento di guardare con maggiore attenzione al luogo dal quale partì la freccia iniziale: la Cina.