Corriere della Sera, 14 aprile 2024
«Cossiga e i misteri italiani da Gladio, a Moro, agli euromissili. E Mosca chiamò Berlinguer»
«Per anni l’Italia è stato un Paese osservato speciale. Per questo ritengo che negli archivi dei Servizi segreti di Stati alleati o non alleati, ci possano essere tracce utili a illuminare vicende sulle quali la verità non è completa. Come la tragedia di Ustica o il caso Moro...». Quando si parla di segreti si pensa sempre a Francesco Cossiga. E di Cossiga, Luigi Zanda fu amico e collaboratore: «Anche se nella prima fase della Repubblica – spiega – c’erano questioni la cui conoscenza era riservata a pochissime persone. Infatti di alcune cose Cossiga non mi parlò mai, nonostante vivessimo praticamente insieme. Fu il suo modo di proteggermi».
Da cosa la protesse, per esempio?
«Ricordo quando divenne capo dello Stato. A quei tempi mi ero trasferito a Venezia per lavoro. Un giorno lessi sui giornali di un’organizzazione di nome Gladio, nella cui strutturazione lui era coinvolto. Allora presi l’aereo e andai a trovarlo al Quirinale. In un certo senso protestai: “Perché non mi hai detto nulla?”. Mi rispose gelido: “Perché non c’era ragione che tu sapessi. E perché se avessi saputo, la cosa ti avrebbe procurato solo guai”. Fu così che fece anche in altri casi».
Si comportò diversamente, invece, in una notte d’inverno del 1979. Una notte importante, con un viaggio segreto importante, per un appuntamento importante, di cui Cossiga – che era presidente del Consiglio – avvisò per tempo Zanda. Quella notte il premier italiano sarebbe atterrato nella capitale della Germania Ovest. A Bonn, visto che ancora esisteva la Germania Est e Berlino era divisa dal Muro. Ad attenderlo ci sarebbe stato solo il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt. Nessun altro. Ufficialmente l’incontro non era in agenda. «E quella notte Cossiga fece una scelta di campo che avrebbe cambiato il corso della storia», racconta oggi Zanda, che nella sua seconda vita è stato capogruppo del Pd al Senato, ma nella prima fu l’uomo più vicino al Picconatore.
«Nel mondo c’era un clima da guerra fredda. L’Unione Sovietica aveva puntato contro l’Europa i missili SS-20 e la Repubblica federale tedesca voleva che la Nato rispondesse al Cremlino: chiedeva che sul territorio europeo venissero installate testate nucleari da puntare contro Mosca. E insisteva perché anche Roma partecipasse al progetto». Bisognava prendere una decisione sui famosi euromissili. Così il cancelliere decise di invitare il capo del governo italiano. A tavola le portate finirono rapidamente e i toni della discussione si fecero presto accesi. «Il giorno dopo Cossiga mi raccontò la conversazione. D’altronde tra noi c’era un legame molto stretto. Ci conoscevamo dal 1973: io ero segretario di una Commissione di stanza a Palazzo Chigi, lui un deputato che a Palazzo Chigi veniva spesso. Ben presto il nostro rapporto di confidenza si trasformò in amicizia. Quando fu nominato ministro mi chiese di seguirlo. Fummo insieme anche al Viminale tra il 1976 e il 1978: anni devastati dal terrorismo. Affrontammo quella stagione come commilitoni in guerra. E di quella tragica esperienza da titolare dell’Interno, Cossiga si portò sempre dietro il senso di colpa per non essere riuscito a difendere Aldo Moro».
La cena riservata a Bonn, da presidente del Consiglio, doveva prevedere un menù pesante.
«Sapeva già cosa lo attendeva. Tempo prima l’informazione gli era arrivata per via riservata dagli Stati Uniti. Mi aveva chiamato nel suo studio. Era preoccupato e dibattuto. Da atlantista convinto, capiva la portata dell’iniziativa e la condivideva. Ma temeva per la stabilità del Paese, temeva anzitutto la reazione dell’opinione pubblica di sinistra sollecitata dal Partito comunista italiano. E lui, che con il Pci aveva una relazione privilegiata, sapeva che una sua decisione avrebbe mutato per sempre i rapporti con i comunisti. Con questi dubbi volò in Germania Ovest».
Davvero Schmidt considerava realistica l’ipotesi di una aggressione da parte dell’Urss di Leonid Breznev?
«La Germania Ovest viveva in modo angoscioso la frontiera “tedesco-tedesca” con la Germania Est, che segnava una separazione ideologica se possibile più solida di quella fisica. C’era il dramma di Berlino Ovest circondata dai check point. C’era un apparato militare nemico che dispiegava la propria potenza a ridosso del confine. Era una condizione terribile. Un problema serio per i tedeschi, per l’Europa, per l’Occidente».
E l’incontro serviva a sciogliere le riserve che si nutrivano a Roma.
«È così. Per tutta la sera Schmidt premette perché l’Italia installasse i Pershing e i Cruise. Ma durante la conversazione il cancelliere si accorse che l’ospite era titubante. E allora alzò il tono della voce, dicendo a Cossiga: “Hai queste esitazioni perché non hai 1.400 chilometri di confine con lea Germania dell’Est, cioè con l’Unione Sovietica. Tu lo sai che loro hanno decine di postazioni missilistiche puntate sul mio Paese, ma siccome non hai questo problema mi parli di questioni di politica interna”. Fu una conversazione fuori dai canoni diplomatici».
E il presidente del Consiglio?
«Tornato a Roma mi disse: “Davanti a certi argomenti ho dovuto mettere da parte ogni mia perplessità”».
Mise da parte anche la «relazione privilegiata» che aveva con il Pci e con Enrico Berlinguer, segretario di quel partito e suo primo cugino.
«Ci sono convinzioni in ognuno di noi che non si possono sradicare. Una volta Cossiga mi aveva raccontato che a sedici anni si era deciso a fare politica, ma non sapeva se iscriversi al Pci o alla Dc. Mi confidò che era stata la sua avversione all’Unione Sovietica e fargli compiere la scelta. E quando a cena Schmidt toccò quel tasto...».
I servizi segreti
Con la Cia aveva un rapporto confidenziale, lui era intrigato dai servizi segreti. Ed era estremamente curioso
Si sbloccò l’adesione italiana al progetto della Nato.
«A Roma la maggioranza di governo era compatta: c’era il sostegno del Partito Repubblicano e c’era stato prima un lavoro importante svolto dal Partito Socialista con i socialdemocratici tedeschi. Accettare gli euromissili diventò un passo determinante, perché la corsa agli armamenti rese ancor più fragile il sistema economico di Mosca. E quando, anni dopo, gli Stati Uniti avrebbero annunciato la costruzione dello scudo spaziale, l’apparato militare sovietico sarebbe stato messo definitivamente in crisi. Per stare al passo con l’Occidente, il Cremlino avrebbe avuto bisogno di investimenti troppo onerosi».
Di ritorno da Bonn fu il presidente del Consiglio ad avvisare il Pci della decisione?
«Credo che a informare Botteghe Oscure non sia stato Cossiga...».
Quindi fu Mosca.
(Pausa) «Ma non possiamo dimenticarci che quelli erano ancora gli anni della guerra fredda. E anche se nel Pci si avvertiva un grande travaglio, i due campi restavano perfettamente separati. Per i comunisti italiani era impensabile non schierarsi dalla parte dell’Unione Sovietica».
Se ad Enrico Berlinguer la notizia degli euromissili arrivò dall’Urss, a Cossiga da chi era giunta l’anticipazione?
«Conoscendo i suoi rapporti, i possibili canali possono essere stati esclusivamente tre: il segretario di Stato americano, l’ambasciatore americano in Italia o i suoi amici della Cia».
La Cia...
«Con l’intelligence statunitense, diciamo così, Cossiga teneva un rapporto confidenziale. Lui era intrigato dai servizi segreti, perché aveva la consapevolezza della forza di quello che oggi definiamo “deep state”».
Il lato oscuro della Luna.
«Beh, in ogni sistema democratico c’è il governo e poi c’è una struttura dello Stato con cui in qualche modo bisogna fare i conti. I servizi sono antenne formidabili di conoscenza. E lui era straordinariamente curioso».
In effetti non negò mai questa sua «curiosità».
«Anni prima, aveva chiesto a Moro perché lo avesse scelto come ministro dell’Interno. E Moro gli aveva risposto: “Perché tu sei una persona molto curiosa”. Forse fu proprio grazie alle informazioni che riceveva dai suoi “amici” se Cossiga capì già all’inizio degli anni Ottanta che l’Unione Sovietica sarebbe collassata. Mentre fu per intuizione politica se, nel momento in cui cadde il Muro, comprese anzitempo che i partiti italiani della Prima Repubblica sarebbero rimasti sotto quelle macerie. Ma nessuno gli diede retta. Anzi, lo presero per pazzo».