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 2024  aprile 14 Domenica calendario

Guardie, ladri e Vidocq Una vita nel crimine


Eugène-François Vidocq, di cui Luni pubblica ora un’edizione parziale delle Memorie (pagg. 182, euro 22, traduzione di Ferdinando Bruno), è una di quelle figure mitiche della Francia Ancien Régime di fine ’700 e poi rivoluzionaria e repubblicana, bonapartista e legittimista. Era nato ad Arras, nel 1775, morì a Parigi, nel 1857: fu ladro e bandito, finì in carcere e poi evase, divenne spia e confidente della polizia e poi direttore della polizia stessa, infine investigatore privato e scrittore... Era un uomo erculeo, di grande intelligenza, amante delle donne e dalle donne riamato, una passione per i duelli e per i travestimenti, un gusto innato per gli intrighi, il doppio gioco, gli appostamenti e le trappole. Ebbe fra i suoi estimatori Balzac, Hugo, Dumas, il che è comprensibile: incarnava al tempo stesso il crimine e la redenzione, il carattere e la voglia di emergere, la fiducia cieca nel proprio genio e la capacità di risorgere dalle proprie ceneri. Il suo critico più sottile fu, non a caso, un americano, Edgar Allan Poe, che senza nominarlo ne fece il contraltare del suo investigatore deduttivo Dupin, il protagonista di La lettera rubata, laddove quest’ultimo arrivava a scoprire dove era stata nascosta la missiva attraverso una serie di indizi mentre l’altro, nelle vesti di capo della polizia non era in grado di comprenderli... E del resto, tutta l’attività poliziesca di Vidocq era basata sugli informatori, le soffiate, la delazione, gli agenti infiltrati, le retate...
Nato nella città che aveva dato i natali a Robespierre, Vidocq era figlio di un fornaio, scapestrato quel tanto che bastava per rubare in casa i soldi dalla cassa, le posate buone dalla credenza, le galline dal cortile, e finito una prima volta in carcere proprio per denuncia paterna... Le preghiere della madre ottennero il perdono del padre e il ritorno in famiglia. Ci rimase il tempo necessario per ripulire ancora la cassa, questa volta da cima a fondo, e mettere più chilometri possibili fra lui e il domicilio domestico. L’idea era d’imbarcarsi e girare il mondo: non riuscì mai a mettere un piede su una nave, ma si ritrovò arruolato nella guerra allora scoppiata contro l’Austria. Aveva diciassette anni, la Francia era in piena effervescenza rivoluzionaria e con gli eserciti stranieri alle sue frontiere, si fucilavano i generali «felloni», il Comitato di Salute pubblica affiancava ai militari i suoi commissari del popolo, c’era la guerra civile in Vandea e il terrore rivoluzionario serpeggiava per tutto il Paese... Vidocq combatté, fu ferito, disertò, passò al nemico, poi si arruolò di nuovo grazie a un’amnistia, ritornò ad Arras, ma non ci rimase a lungo, passò qualche tempo in una delle tante bande di ex militari che incendiavano le fattorie di campagna con dentro i loro proprietari, praticò il gioco d’azzardo e diede lezioni di scherma, si affiliò a bande di zingari, ladri, falsari... Nel 1797, quando aveva ventidue anni, gli vennero aperte le porte del bagno penale di Tolone, poi di Brest. Un collare di ferro e una catena ai piedi, forzato da qui all’eternità...
Comincia allora la seconda vita di Vidocq, in cui è un po’ difficile raccapezzarsi, così come del resto nella prima, non aiutati dal fatto che queste memorie parziali rappresentano appena un quarto di quelle originali, e quindi il filo del racconto risulta spesso spezzato e quando si riannoda manca sempre qualche particolare. Quello che è certo è che rispetto ai suoi compagni di sventura Vidocq ha una marcia in più: è più intelligente e più ambizioso, sa capire meglio il gioco delle forze in campo, mette la sua mancanza di scrupoli al servizio dell’unica forza che gli può garantire un avvenire: il potere costituito, polizia e tribunali, che è poi tutt’uno con il potere politico.
Nella Francia napoleonica di quel primo Ottocento le carriere si fanno e si disfano e se è vero che nello zaino di ogni soldato può nascondersi il bastone di maresciallo dell’Impero, è altrettanto vero che preti più o meno spretati possono divenire ministri degli Esteri, vinai capi della guardia repubblicana, ex terroristi ministri di Giustizia, ex biscazzieri banchieri... La legittimità, ovvero
il raggiungimento del successo copre tutto, riscatta e nobilita. È un po’ questo il senso di quella celebre affermazione di Balzac secondo cui dietro ogni grande fortuna c’è sempre un crimine.
All’inizio Vidocq evade, è ripreso ed evade di nuovo, cerca di mimetizzarsi a Parigi, darsi a un commercio rispettabile, ma anche se l’autorità pubblica non riesce sul momento a smascherare la sua nuova identità, c’è sempre un ex ladro, un ex bandito, un forzato anche lui evaso, a battere alla sua porta, per ricattarlo con la scusa di chiedergli aiuto. Ciò che emerge con forza dalle Memorie di Vidocq, per quanto scritte pro domo propria e con l’intento di nobilitarsi, è che non esiste un patto e un codice d’onore fra delinquenti: nessuno si fida di nessuno, tutti sono pronti vicendevolmente a tradirsi. Tornato di nuovo dentro, l’unico modo vero che c’è per uscirne, e uscirne questa volta per sempre, è integrarsi nel sistema, non limitarsi a denunciare, ma costruire sulle denunce una nuova professione, e quindi una nuova identità. Da informatore, Vidocq diviene agente segreto per conto della polizia, fa il doppio gioco nei confronti della malavita finché non trova la sponda adatta, il prefetto di polizia Henry che scommette su di lui, il barone Pasquier che gli garantisce l’appoggio politico. Lo spione che è divenuto agente segreto assume alla fine il volto del poliziotto tout court.
Come capo della polizia, Vidocq si muove con la stessa logica che gli è servita per raggiungere quella posizione: arruola degli ex forzati come lui, ma li tiene legati a filo doppio, non permette la minima ricaduta, nessuna contaminazione. Procede come un equilibrista sempre e comunque sul filo della legalità e ben sapendo che deve guardarsi sia dal suo vecchio milieu, che ha giurato di fargli la pelle, sia dai cosiddetti «eunuchi del serraglio», gli ispettori e i funzionari di carriera che vedono nel suo successo un oltraggio: un ex capo dei ladri che è diventato il super capo delle guardie...
Va detto che l’epoca di Vidocq non è l’epoca delle rapine sensazionali, dei furti ingegnosi alle banche, del delitto o della truffa come opera d’arte. È un’epoca fosca, brutale e sordida, dove prima ci si ubriaca e poi si va a fare il colpo, dove si scassa e si scanna senza preoccuparsi troppo delle tracce che ci si lascia dietro, dove ci si vanta delle proprie imprese nelle taverne come nei bordelli. L’abilità di Vidocq sta nelle mille antenne da lui disseminate nei luoghi canonici di una Parigi della malavita che conosce quanto le sue tasche. Repressione e prevenzione sono in fondo due facce della stessa medaglia, nel senso che la seconda è appena una variante della prima, ottenuta com’è attraverso la delazione, lo scambio dei favori, la minaccia, il patteggiamento della pena. Non gli interessa, va da sé, il perché avvenga un crimine, gli interessa mettere le mani sul criminale e, se è il caso, spingerlo su quella strada.
La durata della sua carriera depone a favore dell’intelligenza e della spregiudicatezza di Vidocq, che rimase al suo posto sotto Napoleone e senza Napoleone, sotto i Borbone e sotto la monarchia borghese di Luigi Filippo che li sostituì. Affrontò processi e li vinse, si dimise e poi ritornò al suo posto. Paradossalmente, l’unico vero scacco gli verrà proprio dalle sue Memorie, inizialmente affidate a una serie di collaboratori e da questi infarcite di così tanti travisamenti e invenzioni da costringerlo a far causa all’editore, rimetterci le mani e darne finalmente una versione d’autore, nonché a scrivere una successiva serie di libri che ne dimostreranno le capacità di narratore, rinsaldandone la leggenda.
Peccato che sia una canaglia, verrebbe da dire riprendendo il titolo di un vecchio film, anche se Vidocq ammetteva di essere stato tutto, spia, ladro, delatore, ma canaglia no, proprio no. Aveva scelto l’onestà lui, e lottato per farla trionfare...