1 marzo 2024
Tags : Antonio Latella
Biografia di Antonio Latella
Antonio Latella , nato a Castellammare di Stabia (Napoli) il 2 marzo 1967 (57 anni). Drammaturgo di fama internazionale. Attore. In qualità di attore è stato diretto da Di Marca, Ronconi, Patroni Griffi, Castri, De Capitani, Pagliaro, Piscitelli, Gassman. Ma è il lavoro di regista, che inizia nel 1998, a conferirgli fama: Premio Ubu per il Progetto Shakespeare e oltre (2001), Premio Nazionale dell’Associazione Critici di Teatro per La cena de le ceneri, miglior spettacolo dell’anno (2005), Premio Ubu per Studio su Medea miglior spettacolo dell’anno (2007), Premio Hystrio alla regia (2012), Premio Ubu per la miglior regia per Un tram che si chiama desiderio (2012), Premio Ubu per la miglior regia, Francamente me ne infischio (2013), è Finalista del Nestroy Prize di Vienna per Die Wohlgesinnten (2014), Premio le Maschere del Teatro per Natale in casa Cupiello (2015), Premio Ubu per Santa Estasi, miglior spettacolo dell’anno (2016), Premio Ubu per Aminta (2019), Premio Ubu Hamlet, spettacolo dell’anno (2021)
Titoli di testa «Io sono Antonio. Quando torno a casa parlo raramente del mio lavoro e solo se me lo chiedono».
Vita Nasce a Castellammare di Stabia solo per il desiderio della madre che era emigrata insieme al padre in Svizzera: «Se sento parlare napoletano questa è la lingua della mia formazione, quella parlata dai miei genitori, dai miei nonni. È quello che io sono» [La misura dell’errore. Vita e teatro di Antonio Latella di Emanuele Tirelli Caracò 2016] • «Quando avevo cinque anni, mio padre trovò lavoro in provincia di Torino. Mio padre era un operaio, mio nonno un ciabattino, la mia era una famiglia di operai e a casa non c’erano libri. Lo seguimmo anche io e mia madre in quello che all’epoca era un piccolo paesino di cinquecento anime con un dialetto per noi incomprensibile. Poi ci spostammo altrove nella stessa provincia, sempre nei dintorni» • «Sono cresciuto nel sogno americano. Misi in scena Via col vento nel 2011, perché mi ricordavo di quando a 6 anni, al cinema con mia mamma e mio papà, alla scena in cui Rossella strappa le tende per farsi il vestito, urlai “anch’io”. 50 anni dopo ho capito che, forse perché sono omosessuale, era perché anche io volevo creare l’immaginario» [ad Anna Bandettini, il Venerdì] • «Il gioco teatrale faceva parte della nostra vita di bambini, e in maniera genuinamente infantile, sapevo che avrebbe fatto parte della mia vita da adulto (…) a undici anni diressi il mio primo spettacolo, I vestiti nuovi dell’imperatore di Hans Christian Andersen. Ero attratto dal teatro. Lo dissi anche ad una psicologa convocata dalla scuola perché ero e sono dislessico. Parlammo a lungo e mi chiese cosa avrei voluto fare. Mi guardò stupita e ribadì che non avevo nessun problema di ragionamento, e che potevo riuscire in quello che volevo. Quell’incontro fu davvero confortante, quasi un’illuminazione. La prima volta che entrai in un teatro vero avevo invece quattordici anni. Frequentavo il primo liceo scientifico e la scuola ci portò all’Alfieri di Torino per Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, con la regia di Giuseppe Patroni Griffi. Che emozione. Ricordo gli attori salire in scena dalla platea e la sensazione di un trasporto incredibile» • «Quando leggo che c’è bisogno della laurea per diventare direttore artistico di un teatro stabile, penso a chi un percorso teatrale l’ha fatto pur avendo solo la terza media. Penso a me, il mio titolo di studio è quello» [Roberto Rinaldi, Rumorscena] • «Lasciato il liceo scientifico, si è iscritto alla scuola infermieri di Torino, con l’ambizione, una volta diplomato, di trasferirsi a Roma dove avrebbe poi cercato di superare l’esame di ammissione all’accademia teatrale, per passare al cinema. Una professione, quella sanitaria, svolta con passione e serietà. Non era però il suo traguardo finale. Decide di fare un provino alla scuola del Teatro Carignano allora diretta da Franco Passatore. Non riuscì a superare il blocco emotivo sul palcoscenico davanti alla commissione, e nonostante la sua mancata esibizione, dopo un colloquio in cui ebbe la possibilità di parlare del suo desiderio di fare teatro, decisero di ammetterlo. Una sfida importante per Latella, non certo facilitata dalla dislessia. Carriera tutta in salita per l’aspirante attore. Scelto da Passatore per recitare allo Stabile di Torino, al suo debutto non entrò in scena in tempo e per l’agitazione cadde per le scale fratturandosi una gamba. Il provino successivo dimostrò il carattere orgoglioso e determinato tanto da arrivare ad esibirsi alla Bottega di Gassman e, dopo due tentativi andati male, fu esaminato dallo stesso attore che ne era anche direttore e lui in persona disse il fatidico sì» [Rinaldi, cit.] • «Passatore e Gassman sapevano riconoscere un talento. Anche se io preferisco evitare la parola “talento”. Non è una questione di poter fare o meno l’attore, perché in sostanza possono farlo in molti, pure con buoni risultati, ma di avere la vocazione. E chi ce l’ha la riconosce subito nell’altro. Per Passatore e Gassman era cosi. E lo è anche per me. Sono in grado di capire immediatamente chi farà l’attore e chi non lo farà, chi ha la vocazione, chi non ce l’ha e chi pensa di aver intrapreso la strada giusta ma si sta nascondendo dietro un desiderio. Che non basta. Il desiderio non basta. Ci vuole un’incredibile fame di esserci, come se fosse l’unica vita possibile» • «La strada era ormai aperta: Walter Pagliaro, l’incontro con Luca Ronconi per Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus. Anche questa volta la sfortuna volle che Latella non andasse in scena. Prima l’intervento per un’appendicite degenerata in peritonite e poi un’embolia polmonare e un coma durato 24 ore, seguito da due mesi di ricovero ospedaliero. Con Patroni Griffi recita ne La moglie saggia di Goldoni, Gassman lo chiama per Ulisse e la balena bianca. Per accettare doveva scindere il contratto con lo Stabile dell’Umbria. Nonostante la diffida di non poter più lavorare in quel Teatro, decise di rischiare e dopo l’esperienza positiva durata un anno e mezzo, fu richiamato da Massimo Castri che firmava una produzione umbra: Le smanie per la villeggiatura e Ifigenia in Tauride • «Nella sua Bottega Vittorio Gassman mi aveva preso sotto la sua ala. A 24 anni girai il mondo con lui per il suo Moby Dick. Quando gli dissi che volevo fare il regista replicò: “Mi dispiace, per farlo non sei capace di compromessi”. Era vero, ma ho difeso la mia identità» [Bandettini, cit.] • Del 1998 Agatha la sua prima regia. Seguono Otello, Romeo e Giulietta Macbeth, Trilogia Genet - Stretta Sorveglianza, Amleto. Nel 2001 vince il suo primo Premio Ubu per il progetto Shakespeare e oltre • Nel 2003 allo Stabile dell’Umbria: «L’ingresso nel teatro istituzionale fu con La dodicesima notte di Shakespeare e fu un disastro totale. Ruggeri me l’aveva detto. Iniziare un percorso così importante con una stroncatura non deve essere stato facile. Non mi lascio abbattere dalle critiche negative quando so che hanno buone fondamenta. Io stesso sono consapevole delle motivazioni che possono portare un giornalista a stroncare un mio spettacolo, e La dodicesima notte se lo meritava. Essere criticato per un lavoro non mi spaventa se sono riuscito a fare quello che volevo, ma quella regia non era venuta fuori come speravo e mi lasciò insoddisfatto. Non meritava però tutto quel livore. Molti pensarono che il mio arrivo in uno Stabile fosse desiderio di potere. Si scatenarono. Qualcuno disse che ero il favorito di Franco Quadri e che lavoravo tanto per quel motivo. Ecco, questo sì che mi diede fastidio. Solo dopo iniziarono a capire che non mi interessava il potere, bensì andare avanti con la mia regia» [Tirelli, cit.] • «La bisbetica domata è stato il mio primo spettacolo censurato per le scene di nudo. A Osimo, per esempio. I direttori di alcuni teatri dicevano agli attori di indossare le mutande, e loro mi contattavano per chiedermi cosa fare. Va bene, rispondevo. Al limite mettete un tanga. Poi i direttori telefonavano di nuovo agli attori, e gli attori a me, perché il pubblico aveva saputo dello spettacolo, della censura, e voleva vedere la pièce così com’era. Fu un grande successo» [ibid.] • I Negri e Querelle di Genet, Porcile di Pasolini, Aspettando Godot di Becket, Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams etc. • Nel 2004 debuttò nella regia lirica con un Orfeo di Monteverdi all’Opera di Lione • Dal 2004 vive a Berlino. Scrive e dirige opere anche in lingua tedesca • «Poi arrivò Tosca di Puccini allo Sferisterio di Macerata. Ebbe fischi, urla, boati e pure grandi applausi. Fece discutere e divise il pubblico. Avevo ribaltato il testo mantenendo solo il telaio dell’opera. Intervenne addirittura la Curia per la mia Madonna [che a un certo punto girava nuda dopo aver partorito angeli, ndc] e per qualche altra immagine. Prima dell’apertura del sipario, dissi alla scenografa e costumista Emanuela Pischedda che ci avrebbero fischiati. Lo sapevo che sarebbe accaduto, però almeno avevo fatto quello che volevo ed ero contento. Arrivarono pure molti applausi, gente che si opponeva e altra incuriosita. Fu un caso importante, ma decisi che non avrei più lavorato in quel campo perché era troppo facile essere contestati in modo così estremo» [Tirelli, cit.] • Nel frattempo continuava l’esperienza in Umbria e arrivò l’incontro con Giorgio Albertazzi. «Uno degli uomini di teatro più grandi che abbia avuto la fortuna di incontrare. Con me ha avuto un’umiltà rara e commovente. Si è comportato come il grande attore che è [qui Latella usa il tempo presente perché quando ne parliamo Albertazzi è ancora vivo, ndc], mettendo il suo talento al servizio del Moby Dick e poi del Lear di Ken Ponzio che avremmo fatto insieme qualche anno dopo, nel 2010, coprodotto dallo Stabile di Roma e dal Nuovo di Napoli. Albertazzi mi aveva cercato subito dopo Querelle con una lettera meravigliosa. Ero stato incredibilmente felice per il suo apprezzamento, ma alla proposta di lavorare insieme avevo risposto di no perché non capivo cosa ne sarebbe potuto venire fuori. Poi lo chiamai per essere il mio Achab e lui accettò. Ci dicemmo chiaramente di usarci a vicenda, di trarre ognuno il massimo dall’altro, e quando recitò in Lear fu incredibilmente straordinario. Mi arrabbiai tanto con i critici che non vollero riconoscerglielo per altre questioni che non c’entravano niente con quello spettacolo. Ne vidi uscire dalla sala molti con le lacrime agli occhi e poi non restituirgli quell’emozione nelle recensioni» [Tirelli, cit.] • Nell’estate 2008 è tornato dopo dieci anni su Amleto con un colossale Progetto non essere. Hamlet’s portraits (visto al Festival delle Colline Torinesi e poi a Cividale del Friuli per il Mittelfest), rivisitazione in sei spettacoli del dramma shakespeariano, «dodici ore di allestimento incentrate sui vari personaggi, undici quadri totali, ripartiti in sei serate consecutive» • Siamo arrivati al 2010. Ti saresti dovuto occupare della direzione artistica con la produzione del Nuovo e la coproduzione del Napoli Teatro Festival Italia e di Fondazione Campania dei Festival: due drammaturghi fissi per tutti gli spettacoli, sei registi, una compagnia stabile di sei attori. Un progetto ambizioso. «Molti giornali ci snobbarono e altri ci ridicolizzarono, un po’ come a dire “questo vuole fare il berlinese a Napoli” […] Dal primo giorno in cui misi piede in quel teatro per la stagione fui costretto a usare i miei soldi in attesa che arrivassero i finanziamenti. Alcuni giunsero con grande ritardo. Molti altri, in teoria, dovrei essere ancora lì ad aspettarli. Il festival non sostenne più il progetto per problemi economici e lo stesso fece soprattutto la produzione del Nuovo che, nel frattempo, scoprii avere enormi debiti pregressi. Mi ritrovai a lavorare gratis e a pagare di tasca mia la maggior parte degli artisti che erano venuti fidandosi di me. È stata un’esperienza intensa che mi è costata davvero cara. Ecco perché lasciai tutto alla fine del primo anno. La situazione era diventata insostenibile e rischiavo di compromettere davvero la mia vita privata. I debiti me li sono portati dietro per alcuni anni e ho faticato assai per estinguerli» [Tirelli, cit.] • Nel 2011 fonda stabilemobile compagnia Antonio Latella. • Dalla Russia, invece, ero stato contattato mentre lavoravo al Nuovo, anche se mi avevano già visto con Studio su Medea [Premio Ubu nel 2007 come spettacolo dell’anno, ndc]. Mi volevano per dirigere i loro attori. Allo Staryj Dom di Novosibirsk, nel 2011, ho capito che le loro linee erano troppo rigide per il mio stile, sia dal punto di vista estetico che per la scelta dei titoli. Ma durante la master class in Siberia, era stata talmente forte la comunicazione con gli attori, talmente importante il dialogo sulla grammatica teatrale, che avevo deciso di dirigerli comunque. Avevo capito che cercavano un pedagogo in grado di scuotere le loro modalità, e che volevano la mia astrazione davanti al loro realismo. Poi il 2012 è stato l’anno di Elettra, Oreste e Ifigenia in Tauride, e il 2014 di Peer Gynt di Ibsen: sono ancora in programmazione. Sono spettacoli che altrove non avrei mai diretto in quel modo, ma era necessario per loro e per lo scambio che mi avrebbe travolto» [Tirelli, cit.] • Portare in Friuli lo spettacolo sulla madre di Pasolini è un’emozione particolare? «Ero in Russia, impegnato sul Peer Gynt, e, pensando a quanto sarebbe interessante proporre Pasolini in un paese dove è pressoché sconosciuto, essendo stato tradotto solo un testo, mi è venuto in mente di raccontarlo allontanandomi dalle sue parole, andando a cercare qualcosa di non detto. Lungo questo percorso ho incontrato la figura della madre, così profondamente amata e omaggiata da Pasolini, che addirittura l’ha messa ai piedi della croce come Madonna nel film Il Vangelo secondo Matteo. Ho pensato, allora, di avvicinarmi al dolore silenzioso di questa madre. Un dolore che non è mai potuto esplodere, che non è mai urlato, tanto che anche il grido di Maria nel film stesso non ha audio» [Rochira, centro studi PPP]. • Perché dopo tanti anni hai deciso di mettere in scena Eduardo De Filippo? «Forse perché era arrivato il momento giusto. Enrico Fiore [critico de «Il Mattino», ndc] me l’aveva detto durante gli anni del Nuovo: Prima o poi devi fare Eduardo. Quasi come un passaggio importante di crescita registica e personale. E quando è arrivata l’occasione con lo Stabile di Roma sono stato contento di coglierla. Anche Eduardo ha fatto parte della mia infanzia perché a casa lo guardavamo sempre in televisione, ma era naturale che non avrei mai potuto, e soprattutto voluto, replicare i suoi tratti distintivi. Ho cercato invece di fornire la mia lettura del Natale in casa Cupiello e di tirare fuori la sua parte più scura e critica» [Tirelli, cit.] • Perché dopo tanti anni hai deciso di mettere in scena Eduardo De Filippo? «Forse perché era arrivato il momento giusto. Enrico Fiore [critico de «Il Mattino», ndc] me l’aveva detto durante gli anni del Nuovo: Prima o poi devi fare Eduardo. Quasi come un passaggio importante di crescita registica e personale. E quando è arrivata l’occasione con lo Stabile di Roma sono stato contento di coglierla. Anche Eduardo ha fatto parte della mia infanzia perché a casa lo guardavamo sempre in televisione, ma era naturale che non avrei mai potuto, e soprattutto voluto, replicare i suoi tratti distintivi. Ho cercato invece di fornire la mia lettura del Natale in casa Cupiello e di tirare fuori la sua parte più scura e critica» [Tirelli, cit.] • Nel 2015 Ma che rinnova, a una decina d’anni dalle messinscene di Pilade, Porcile e Bestia da stile e a 40 anni dalla morte dell’autore, l’incontro con il teatro di Pier Paolo Pasolini. Tante sono “le” madri quanti sono i tempi, i ritmi non solo drammaturgici ma anche fisici – quasi fossero generati di continuo dalla figura stessa – attraversati dallo spettacolo • Dal 2017 al 2020 è direttore di Biennale Teatro. «Fa bene prendere la distanza da quello che ho fatto in questi anni, che è tanto. Se penso ai quattro anni di direzione della Biennale Teatro, la bellezza di aver fatto da testimone a sei o sette registi che adesso sono considerati bravi, Fabio Condemi, Giovanni Ortoleva, Leonardo Manzan, Leonardo Lidi, o a una nuova generazione di attori e attrici come Federica Rossellini, Matilde Vigna... Ho dato un senso culturale al fare teatro di cui mi sento ripagato» [Bandettini, cit.] • «Quanto al lavoro, e lo dico senza vantarmi, solo quest’anno in Germania ho avuto tre produzioni di cui sono regista e autore, Wonder woman, Cyrano e Zorro considerato uno dei più bei testi degli ultimi anni sulla povertà. La Germania ha questo di bello: che fa il repertorio. A Monaco i miei Tre moschettieri sono in scena da quattro anni, non come in Italia dove ogni anni devi fare spettacoli nuovi che girano, destinati al circuito, senza salvaguardare l’autorialità. La mia regia di La valle dell’Eden è stata importante, ma nessuno se ne è accorto, è morta subito» [Bandettini, cit.] • A novembre del 2020 si prende un anno sabatico «Ho deciso di prendermi un anno di pausa. La mia paura è non rigenerarmi, fare spettacoli tanto per farli, restare in una zona sicura. Meglio una sosta». L’anno sabbatico è iniziato con una vacanza su un’isola greca al confine con la Turchia dove si è fatto crescere la barba e insieme al marito, sposato in Germania, ha comprato un rudere con l’idea di metterlo a posto. “Sarà cronaca rosa, ma confesso che mi sono detto: io e Robert siamo insieme da 28 anni, un anno solo per noi ce lo possiamo regalare?» [ibid.] • Un romanzo di «seicento pagine. È un’operazione artistica, un tentativo di romanzo teatrale, né prosa, né narrativa. Quando rientrerò, mi piacerebbe farne una serie teatrale, uno spettacolo in sei-sette puntate. È ispirato al Mago di Oz e parla della perdita continua dell’identità, un po’ alla Lynch. Per me è stato un modo per evitare lo psicologo» [Bandettini, cit.]. Uscirà nel 2023 per il Saggiatore • Nel 2023 dirige la Bottega amletica testoriana• Fino al 3 marzo è al Piccolo teatro Strehler di Milano con La locandiera di Goldoni: « Credo che Goldoni con questo testo abbia fatto un gesto artistico potente ed estremo, un gesto di sconvolgente contemporaneità: innanzitutto siamo davanti al primo testo italiano con protagonista una donna, ma Goldoni va oltre, scardina ogni tipo di meccanismo, eleva una donna formalmente a servizio dei suoi clienti a donna capace di sconfiggere tutto l’universo maschile, soprattutto una donna che annienta con la sua abilità tutta l’aristocrazia. Di fatto Mirandolina riesce in un solo colpo a sbarazzarsi di un cavaliere, di un conte e di un marchese»
Titoli di coda «Shakespeare è la palestra che ogni regista dovrebbe frequentare, e nonostante sia l’autore più rappresentato di sempre c’è molta gente che non lo hai mai visto, o non l’ha visto fatto in un certo modo».