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 2024  marzo 06 Mercoledì calendario

Biografia di Mina Gregori

Mina Gregori , nata a Cremona il 7 marzo 1924 (100 anni). Storico dell’arte. Direttrice della rivista Paragone. Presidente della Fondazione degli Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi di Firenze.
Titoli di testa «È per gli storici dell’arte la signora Caravaggio» (Pierluigi Pansa)
Vita «Mio nonno si occupava del distacco degli affreschi. Era il ramo materno, le cui origini si perdono nel mondo fiammingo, che si stabilì a Cremona. Mia madre, una donna benestante, possedeva un palazzo e sposò mio padre che era un ingegnere. A lei devo la passione per l’antico. Da bambina mi piacevano le cose vecchie. Mi facevo regalare oggetti che altrimenti sarebbero stati buttati: vecchie serrature o cornici dismesse. Da mio padre presi il senso del viaggio e della libertà. Era un antifascista e Cremona negli anni Trenta non era proprio la città ideale per viverci» [ad Antonio Gnoli, Rep] • «Al mondo della musica sono stata introdotta da una zia pianista a cui devo moltissimo. Studiavo pianoforte otto ore al giorno, partendo da Bach e arrivando a Chopin. È stata lei a farmi comprendere la bellezza essenziale della musica, che riempie la vita ed è fra tutte le arti la forma più completa, che coinvolge corpo e anima in una dimensione unica e speciale; diversamente, le arti figurative sollecitano il cervello e la sfera intellettuale» [a Luca Violo, antiquariditalia.it] • «La mia passione per l’arte nasce prima come collezionista che come storica, forse per tradizione familiare. Ricordo che da piccola facevo raccolta di chiavi antiche, e ogni volta che mia nonna materna saliva in soffitta le correvo dietro, nella speranza di trovare qualcosa di importante, da aggiungere alla mia collezione di oggetti. E se nel cercare fra scatole e polverosi bauli saltava inaspettatamente fuori una cornice, all’istante le chiedevo: “È antica?”, e lei mi rispondeva: “È noiosa e vecchia!”, ed io: “Allora è mia!”» [Violo, cit.] • «Sarei ingrata, parlando della mia educazione culturale, se non affermassi l’importanza che per me hanno rivestito due persone che ho avuto la fortuna di incontrate nei miei studi liceali: il mio professore di filosofia – un torinese mandato al confino a Cremona nel periodo fascista –, e colui che di fatto mi ha iniziata all’arte, ossia Alfredo Puerari, poi designato direttore del Museo Civico di Cremona» [ibid.] • «Dissi a mio padre che avrei voluto studiare a Firenze. Lui acconsentì. Mi iscrissi alla facoltà di Lettere e iniziai a seguire i corsi di Giuseppe De Robertis. Nelle sue lezioni c’era molto Petrarca e Foscolo e poi Ungaretti, il suo poeta prediletto. Ma io amavo la storia dell’arte e mi dissero che il solo professore che valeva la pena di ascoltare e seguire insegnava a Bologna. Era Roberto Longhi. Mi presentai a lui una mattina, ansiosa e colma di soggezione. Mi scrutò di sottecchi, ironico, e disse: si accomodi pure signorina, ma sappia che l’arte non le risparmierà i dolori». La moglie di Longhi era Anna Banti. «Formavano una coppia solida. Lei era una scrittrice intelligente, credo che Artemisia sia stato il suo capolavoro. Ma era anche una donna durissima. Quando iniziai a collaborare con il maestro, lavoravo nella sua villa. E spesso, per i fine settimana, mi accadeva di tornare a Cremona per accudire mio padre e il mio fratello piccolo. Un giorno la Banti mi chiamò e davanti a tutta la servitù mi disse: cara, se tutti i sabati torni a casa ti troverai ben presto disoccupata». Come reagì? «Mi sentii umiliata per quel rilievo ingiusto. Ma lei era tranchant. Oltretutto, covava una gelosia, verso gli studenti che si avvicinavano a Longhi, grottesca». Studentesse, magari? «Senza distinzione di sesso. Immaginava di dover “proteggere” il marito da chissà quale insidia. Del resto, è significativo, che non abbiano mai voluto avere figli. Ad ogni modo, per quelle strane vicende della vita, quando Longhi morì fu lei a chiamarmi affinché mi occupassi della Fondazione» [Gnoli, cit.] • «La sera per abitudine facevamo tardi giocando a scopone scientifico e la mattina dovevo alzarmi molto presto per prendere il treno per Bologna. Longhi iniziava i suoi seminari alle due del pomeriggio, e io avevo il tempo di fermarmi ora a Modena ora a Parma per visitare i musei, non più di una sala al giorno. Studiavo e prendevo appunti così da memorizzare molti dipinti che per me sono rimasti dei punti di riferimento; poi risalivo sul treno per Bologna e arrivavo all’università, dove spesso Longhi non si presentava. Era una vita faticosa, così un giorno lo affrontai comunicandogli in maniera risoluta, seppur alle prime armi, che non avrei più seguito le sue lezioni. Lui, personaggio riverito e temuto, rimase stupefatto – non so se fu per ciò che gli dissi o per qualche altra ragione, ma da quel giorno prese a fare le sue lezioni con più regolarità» [Violo, cit.] • Ha mai conosciuto Berenson? «Una sola volta. Gli vidi salire le scale di Palazzo Pitti dove si teneva una mostra. Era ieratico. Viveva nella splendida villa dei Tatti, sulle colline sopra Firenze. In seguito, ma lui era già morto nel 1959, in quel luogo, fui borsista per un paio d’anni. Venivano molti americani a studiare e si stabilì tra noi una piacevole convivialità» [Gnoli, cit.] • «È una grande attribuzionista, nota all’estero, ma vive con semplicità con la nipote a Firenze, dividendosi tra casa sua, la Fondazione Longhi e la nativa Cremona. Ha una casa seria, borghese, da tè con i pasticcini. Niente di eversivo, parecchi quadri, ma non di artisti troppo famosi, semmai quelli di artisti che ama e sostiene» [Philippe Daverio] L’eredità longhiana è quella di esser riuscito a far vedere ciò che prima si guardava? «Ne sono profondamente convinta. Per conoscere uno storico deve saper “vedere”, e non il contrario. Non a caso l’occhio è quello che ha fatto nascere la scienza moderna alla fine del Cinquecento; è l’organo più importante per acquisire la realtà; è quello che ci trasmette il messaggio delle opere figurative. Nel nostro mestiere è fondamentale educare l’occhio l’occhio l’occhio! Non finirò mai di ribadirlo! Un giorno, ricordo che mi presentai in ritardo a un mio seminario. Entrando esclamai: “Basta andare in biblioteca!”. Vidi i miei scolari trasecolare, avranno pensato: “La professoressa è impazzita”; poi aggiunsi: “Nessuno di voi frequenta a sufficienza i musei!” – un pensiero che poi ho scoperto aveva già scritto Giovanni Morelli. Se uno studente si occupa di letteratura è giusto e prioritario che frequenti le biblioteche, ma se vuole diventare uno storico dell’arte e trattare le arti figurative, non può, in alcun modo, fare a meno del contatto diretto con le opere, che si ha solo frequentando i musei, le chiese, le collezioni d’arte private e pubbliche. Non v’è dubbio, e qui di nuovo lo affermo, che l’oggetto dei nostri studi siano le opere. Alla costruzione del contesto e alla critica relativa si deve giungere solo in un secondo tempo, poiché l’acquisizione non può che avvenire prioritariamente attraverso l’occhio, e quindi dall’opera; poi seguono la filologia, la storiografia, la critica. Occorre altresì incoraggiare gli studenti a conoscere il più possibile altri generi e oggetti che non siano esclusivamente le arti cosiddette maggiori, come il mobile, del quale uno storico dell’arte dovrebbe essere in grado di dare una valutazione, una definizione stilistica e temporale, capire in quale epoca si colloca. Il mobile si lega all’architettura quasi fosse una discendenza diretta, e pertanto è fondamentale, ma in pochi lo studiano. È un peccato che da parte di molti storici dell’arte non sia tenuto in sufficiente considerazione. Io me ne sono occupata nel lontano 1966, e ho redatto un piccolo, ma credo esaustivo, manuale su Gli stili in Italia. Il mondo dell’arte è uno e vasto. Noi dobbiamo conoscerlo nella sua unità e interezza» [Violo, cit.] • La considerano la più autorevole studiosa di Caravaggio. Cosa le ha dato o le ha tolto questo artista? «Di solito lavorare sulle leggende è molto rischioso. Ma qualcuno deve pur farlo. A me accadde di “scoprire” in anni giovanili un Caravaggio e questo ha un po’ cambiato la mia vita» [Gnoli, cit.] • La sua prima attribuzione fu il Ritratto di un cavaliere di Malta (ora a Palazzo Pitti) seguito dal Martirio di sant’Orsola. «Tra approvazioni (di Testori sul Corriere della Sera, ad esempio) e amicizie di influenti conoscitori, come il decano Denis Mahon, la Gregori proseguì da allora la sua straordinaria carriera di storica d’arte ottenendo una cattedra a Firenze, la direzione della rivista Paragone Arte e poi della Fondazione Longhi. Polemiche poche, una con i francesi. Nel ’95 il critico di Le Monde, Philippe Dagen, l’attaccò accusando il suo Preliminari a una nuova lettura di Caravaggio di essere “l’ennesima biografia che non aggiunge nulla di nuovo”. Risposta della Gregori: “I francesi dovrebbero guardare un po’ a casa loro”. La sua famiglia erano i suoi allievi, almeno sino al ’96, quando lasciò la cattedra per raggiunti limiti di età. Già allora era relatrice di tesi su Furini e sui minori come il Volterrano, il Cigoli, il Foggini... Qualcuno raccolse firme per non cancellare la sua cattedra. Non scese mai in polemiche politiche. Tuttavia, in occasione della mostra sui Campi, accusò il “moderno consumismo di far dimenticare il grande patrimonio culturale” [Pansa, cit.] • Ma il denaro che gira nel mondo dell’arte ha tolto, sostengono i più critici, ogni alibi di autenticità «Se è al mercato che pensiamo, dico che c’è sempre stato. Perfino ai tempi di Caravaggio. Lui produceva non solo per la committenza; dava i suoi quadri a dei mercanti perché li vendessero. Insomma, il mercato non va demonizzato. Bisogna sapere però cosa si acquista» [Gnoli, cit.]• Quale è stato il suo rapporto con Federico Zeri, e quanto la sua ricerca da geniale quanto solitario fuoriclasse ha dato rilevanza e originalità alla storia dell’arte italiana? «Un rapporto reciproco di grande amicizia e stima, durato tutta una vita e iniziato da giovanissimi a Firenze, sebbene egli fosse di qualche anno più grande di me. Finita la guerra, già laureato a Roma con Pietro Toesca – lo stesso eminente professore col quale molti anni prima, ossia nel 1911, si era laureato a Torino Roberto Longhi – Zeri arrivò a Firenze per conoscere il maestro. Fra i due, un accademico dal carattere fortissimo e carismatico e un allievo dalla personalità non meno forte e polemica, vi fu spesso una sana competizione. Con Zeri ho condiviso, per un breve ma intenso tratto di tempo, il lungo cammino della conoscenza della storia dell’arte, che nel suo caso – fattasi ad un certo punto della sua carriera autonoma – era divenuta amplissima, estesa a tutta l’arte italiana. I suoi contributi, in particolare fino al Cinquecento, sono stati e continuano ad essere fondamentali, coprendo un campo vastissimo, in prevalenza quello dell’Italia Centrale: dal Lazio alle Marche non v’era fatto o artista che egli non conoscesse direttamente» • Com’è la sua vita fuori dall’arte? «Mi piace viaggiare. Ma l’arte resta la mia bussola». Ha detto che da bambina scoprì l’amore per le cose antiche e cominciò a collezionarle. Ha continuato a farlo? «Nel tempo ho collezionato soprattutto la pittura fiorentina del Seicento. Prima degli anni Settanta era ancora possibile comprare. A scoprire il genere fummo soprattutto io e Piero Bigongiari». Il poeta? «Bigongiari fu tante cose, insegnò letteratura italiana all’università. Aveva una grande cultura. Come Mario Luzi proveniva dal gruppo degli ermetici fiorentini. Era un omone simpatico. Invece Luzi mi metteva una certa soggezione. E pensare che venne perfino ad assistere a qualche mia lezione di storia dell’arte» • Come giudica il mondo universitario odierno e la formazione degli studenti alla storia dell’arte? «Si scrive come di un mondo allo sfascio, ed è la verità. Da tempo l’Università è decisamente decaduta e con essa il livello degli studenti che vi vengono formati. Se ben analizziamo la questione, è altresì responsabilità di chi assegna le cattedre senza guardare al grado di preparazione degli aspiranti docenti. Non è il metodo meritocratico ad avere la meglio, ma come ovunque accade in Italia, quello clientelare. Se i professori facessero il loro mestiere al meglio, non vi sarebbero i problemi strutturali che oggi l’Università denuncia» [Violo, cit.].
Amori «“‘Vuoi sposarmi?’”, mi chiese Zeri alla fine degli anni Cinquanta. Era un’idea –racconta la stessa Mina Gregori – che, seppi da amici, lui coltivava da anni”. Si fidanzarono e quando lui andava a Firenze i due critici amavano cenare in un ristorante di campagna verso Bagno a Ripoli. Le incomprensioni che portarono alla rottura incominciarono con i primi viaggi di lui in America. Negli anni Ottanta la riconciliazione. Lei, del resto, coltivava altre idee che il matrimonio: rimanere signorina per diventare signora dell’attribuzionismo» [Panza, cit.] • È stata sposata? «No, ho avuto solo un grande amore. Finito quello basta. All’età di vent’anni cominciai a dedicarmi a un fratellino che ne aveva sei. È bello sapere che sei importante per qualcuno» [Gnoli, cit.].
Religione «Sono molto religiosa. È una delle consolazioni della mia vita. La mia famiglia non era bigotta, ma religiosa sì». La fede cos’è? «Esiste Dio, esiste la natura e noi siamo chiamati per scegliere a chi affidarci». Come si immagina l’aldilà? «Non lo so. A volte lo immagino come contemplazione di Dio. Spero sempre di rincontrarvi le persone a me più care. Ogni tanto mi tornano alla mente i dipinti di Beato Angelico. Nessuno più di lui ha saputo dare forma e colore al paradiso».
Titoli di coda «La sola cosa che rimpiango è che a causa dei tanti impegni universitari non ho scritto abbastanza. Quando si scrive è il momento in cui vengono le idee».