Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 27 Mercoledì calendario

Biografia di Mario Vargas Llosa (Jorge Pedro Mario V.L.)

Mario Vargas Llosa (Jorge Pedro Mario V.L.), nato a Ciudad de Arequipa (Perù) il 28 marzo 1936 (88 anni). Scrittore. Drammaturgo. Premio Nobel per la Letteratura nel 2010. «Senza illudersi rispetto agli enormi problemi, è preferibile avere dei governi democratici, per quanto corrotti, che le dittature, sempre corrotte ma in più brutali e sanguinarie. È preferibile rinunciare all’utopia sociale se ha solo portato guerre civili, repressioni brutali e governi dittatoriali. E abbiamo anche la letteratura, che è il modo migliore per mantenere viva la speranza, il pensiero critico. La letteratura ci salva» (a Juan Cruz) • Abbandonata dal marito al quinto mese di gravidanza, qualche mese dopo aver partorito la madre si trasferì insieme al figlio e alla famiglia d’origine in Bolivia, dove Vargas Llosa crebbe fino all’età di dieci anni, convinto che il padre fosse morto. Nel 1946 però i genitori si riconciliarono, la famiglia tornò in Perù e presto il ragazzo, che con il padre aveva instaurato un rapporto fortemente conflittuale, fu chiuso in un collegio militare. Seguì il periodo universitario, trascorso tra Lima e Madrid, e quindi, nei primi anni Sessanta, un lungo e fecondo soggiorno a Parigi. Nella capitale francese concluse il suo primo romanzo, La città e i cani (1963), in cui è descritta la vita all’interno di un collegio militare, «un posto in cui dominava il machismo e dove si esaltavano la forza della virilità e un patriottismo autoritario, violento. Ciò che ho narrato riflette in qualche maniera la mia esperienza personale. Da adolescente avevo trascorso lì due anni infernali. In questo libro come in quelli che seguirono, La casa verde e Conversazione nella Cattedrale, volevo mostrare come una dittatura entra nella vita della gente, come permea la società e condiziona la vita di tutti [tra il 1948 e il 1956 il Perù era stato dominato dal presidente Manuel Arturo Odría, di fatto un dittatore militare – ndr]. Ho raccontato l’emarginazione e le ingiustizie di quel mondo» (a Raffaella De Santis). Nel frattempo, alla fine degli anni Sessanta, Vargas Llosa si era trasferito a Londra, dove, per mantenere la famiglia, aveva temporaneamente smesso di scrivere per dedicarsi all’insegnamento. «Insegnavo letteratura al King’s College, poi un giorno Carmen Balcells, la grande agente letteraria, mi ha convinto a trasferirmi a Barcellona. Carmen era una persona straordinaria ma molto autoritaria. Per persuadermi a lasciare l’insegnamento universitario e dedicarmi esclusivamente alla scrittura ha proposto di pagarmi. Accettai, ma non ce ne fu bisogno, perché riuscii a farcela grazie ai diritti d’autore». Tra i suoi romanzi più importanti degli anni successivi, oltre a Conversazioni nella Cattedrale (1969), Pantaleón e le visitatrici (1973), La zia Julia e lo scribacchino (1977), La guerra della fine del mondo (1981) e La festa del caprone (2000), questi ultimi spesso considerati i suoi due capolavori. Nel 2010, a sorpresa, la consacrazione del premio Nobel per la letteratura, «per la sua cartografia delle strutture del potere e per le acute immagini della resistenza, rivolta e sconfitta dell’individuo». Lo scrittore accolse la notizia con incredulità: «Io ho sempre avuto poche certezze, ma di una cosa ero sicuro: che non lo avrei mai avuto. Pensavo di non essere compatibile con quel premio, perché sono del Terzo mondo e non sono di sinistra. Di tanto in tanto, il Nobel può andare a un autore del Terzo mondo, ma non a uno di destra, o meglio liberale, parola bandita dai circoli progressisti. Perciò mi consideravo fuori gioco. E invece, alle cinque e mezza di mattina, […] prendo la cornetta e sento brusii, interferenze. Non si capiva niente, ma in mezzo a tanti disturbi, colgo le parole “Swedish Academy”. A quel punto cade la linea. […] Il telefono suona di nuovo, e il segretario perpetuo dell’Accademia mi annuncia la vittoria. […] In quel momento mi dico: aspettiamo, non sarà mica uno scherzo come quello che fecero a Moravia?» (a Valerio Magrelli). Il Nobel ha cambiato la sua vita e il suo modo di scrivere?«Ha rivoluzionato la mia vita almeno per un anno! Il Nobel prevede un’agenda piena di impegni: conferenze nelle università, interventi nelle fiere del libro, discorsi e incontri... Senza contare le interviste. Certo: tutto ciò implica una grande notorietà e una diffusione ancora più massiccia delle proprie opere. Al di là della fatica e dello sforzo, devo ammettere però che è stato per me interessantissimo: ho conosciuto nuovi Paesi, tantissimi nuovi lettori e molte realtà culturali che non avrei mai raggiunto. Un anno sotto controllo, ma ne è valsa la pena» (a Nuccio Ordine) • Negli ultimi anni sono stati pubblicati i romanzi Il sogno del Celta (2010), L’eroe discreto (2013), Crocevia (2016) e Tempi duri (2019). Vargas Llosa è però anche autore di numerosi saggi politici e letterari, drammi teatrali, racconti e articoli di giornale • Inizialmente marxista e convinto sostenitore di Fidel Castro, si distaccò sempre più dal comunismo in seguito alla repressione della Primavera di Praga (1968), fino ad approdare a posizioni schiettamente liberali. Alle elezioni presidenziali peruviane del 1990 si candidò alla testa di una formazione liberale contro Alberto Fujimori, ma fu sconfitto, e precipitò in una profonda crisi personale. Ne uscì scrivendo un libro autobiografico, Il pesce nell’acqua (1993), incentrato sul periodo della sua formazione giovanile e sulla sfida elettorale che l’aveva visto protagonista: «Volevo togliermi di dosso quell’esperienza. Uno scrittore ha il vantaggio di poter trasformare un fallimento in materia letteraria, e questo è un sollievo. La scrittura è una vendetta, una rivincita sulla vita». Nel 1993 ha chiesto e ottenuto la cittadinanza spagnola, senza rinunciare a quella peruviana; l’anno successivo è stato eletto membro della Real Accademia Spagnola • Nel 2021 è stato eletto membro dell’Académie française al seggio numero 18. È il primo membro dell’Académie a non aver mai scritto nessun’opera in francese, lingua che pure parla correntemente. Gli accademici di Francia sono detti “gli immortali”. «Troverei noiosissimo essere immortale. Il domani, il dopodomani, l’infinito… No, meglio morire. Più tardi possibile, ma morire» (a Manuel Jabois) • Negli ultimi tempi ha criticato aspramente la cancel culture. «Con questo tipo di approccio a un’opera letteraria non c’è un solo romanzo della letteratura occidentale che scampi all’incenerimento. Santuario, per esempio, in cui il degenerato Popeye svergina la pura Temple con una pannocchia, non avrebbe dovuto essere proibito, e William Faulkner, il suo autore, spedito all’ergastolo?» (Giulio Meotti). Contrarissimo anche al politicamente corretto. «È una nuova inquisizione. E ci porta anche a qualcosa di molto negativo, come l’autocensura. Se esprimi la tua opinione non per convinzione, ma per paura, diventi il censore di te stesso. Hai paura di dire cose sbagliate, quindi eviti di parlare e di pensare con la tua testa. Soprattutto chi non ha idee, convinzioni, molto salde e radicate, è quello che ci casca di più» • Oggi critica sia Donald Trump sia papa Francesco. «Trump è paranoico, ha creato una confusione terribile: gli antichi amici degli Usa oggi sono avversari e gli antichi nemici sono amici. Chi è che Trump ammira di più? Putin, ha detto! Perciò è importante che sia sconfitto, altri 4 anni con lui e siamo perduti». Un appellativo per Trump? «Il Pazzo». Per Xi Jinping? «Il Muto. La Cina ha messo a tacere le prime notizie sul Covid». Che soprannome per il Papa? «Non direi il Muto, Bergoglio parla molto. È il Peronista, un caso molto interessante. Un papa che ha mescolato il peronismo con la teologia. Non credo che Perón potesse immaginare di mescolarsi con il Vaticano e la teologia...» (Luca Mastrantonio). «Per molti latinoamericani come me è un Papa che favorisce l’estrema sinistra». Siamo in molti a pensarla in questo modo. Oggi la Chiesa cattolica non ha più l’influenza di un tempo e non credo che questo Papa inciderà molto. Penso che l’esperienza di un Papa peronista sarà passeggera e che, dopo, la Chiesa recupererà la sua vera tradizione conservatrice» (a Paolo Griseri) • Ha stima per Juan Carlos di Borbone. «Ho ammirazione e riconoscenza per ciò che ha fatto per la Spagna. Non sarebbe la democrazia, la società aperta che è. Lui ha tradito Franco, che voleva una monarchia autoritaria, in tempo utile per la Spagna, da patriota. Grazie a questa monarchia democratica la Spagna non ha ceduto e non cede alle forze centrifughe. Poi, gli scandali legati a problemi sentimentali... c’è una donna risentita che lo accusa, dico che bisogna sapere la verità prima di giudicare» (Mastrantonio) • Una lunga amicizia con Gabriel García Márquez. «Ho contribuito molto a far conoscere Cent’anni di solitudine. Ho scritto tantissimi testi sul libro. Conobbi García Márquez per via epistolare, in realtà. Io vivevo in Inghilterra, e lui in Messico. Ci scrivemmo. Provammo a scrivere insieme un romanzo sulla guerra scoppiata tra Perù e Colombia a Leticia, nella foresta amazzonica». A quattro mani? «Volevamo scrivere un romanzo in due, ma era impossibile, perché García Márquez ne sapeva molto più di me di quella guerra, per me era un avvenimento molto vago, invece. Ci scambiammo tantissime lettere, che si conservano a Princeton». E più tardi, quando entrambi vivevate a Barcellona, vi frequentavate. «Sarei rimasto in Inghilterra, perché mi piaceva insegnare. Un giorno però arrivò Carmen Balcells (la celebre agente letteraria, ndr), spalancò la porta con un gran calcio, era carica di regali per i miei figli, e mi disse: “Tu da oggi pomeriggio ti trasferisci a Barcellona”. E così andammo a Barcellona. I cinque anni trascorsi lì furono meravigliosi. Era una Barcellona diversa da oggi. Non c’erano indipendentisti. Tutte le grandi case editrici avevano sede lì». Perché se n’è andato? «Perché alla fine andarono via tutti. García Máquez in Messico. E Patricia, mia moglie, rimane incinta. Ero preoccupatissimo. Andammo in Perù, facemmo il viaggio in mare, un viaggio meraviglioso». (Il 12 febbraio del 1976, dopo un lungo periodo in cui non si sono visti, Gabriel García Márquez va a trovare Vargas Llosa in Messico e quest’ultimo gli assesta un pugno, il pugno più famoso – e misterioso – della letteratura universale. Nessuno dei due ha mai voluto parlarne, e da allora smisero per sempre di essere amici). Cosa può portare a rompere un’amicizia come quella tra lei e García Márquez, così intima, di così tanti anni? «Donne, è semplice» (Manuel Jabois) • Vita sentimentale romanzesca: prima il matrimonio con una zia (la protagonista del romanzo La zia Julia e lo scribacchino), quindi il secondo matrimonio con una cugina, dalla quale ha avuto tre figli (tra cui il saggista Álvaro Vargas Llosa) e con la quale è rimasto cinquant’anni, per poi lasciarla, poche settimane dopo il festeggiamento delle nozze d’oro, per la filippina Isabel Preysler (classe 1951), ex modella ed ex moglie di Julio Iglesias. «Per lei, abbandonò il suo famoso rifugio di calle de la Flora, nel cuore di Madrid e a vivere con lei nell’esclusivissima zona madrilena delle grandi magioni, Puerta de Hierro. “Ho vissuto un’esperienza e si è conclusa, tutto qui. Ora sono di nuovo in questa casa, circondato dai miei libri”, ridendo come se avesse fatto ritorno a Itaca. “Non mi pento assolutamente di nulla”, precisa un istante dopo» (Manuel Jabois) • La cosa che più lo preoccupa oggi è che si rende conto di star perdendo la memoria • «Nessuno oggi ha scritto un tale numero di capolavori e di una tale varietà (commedia, epica, tragedia, farsa, avventura, storia d’amore, opera-mondo, giallo). Per non parlare della tecnica, anzi delle tecniche. Vargas Llosa le conosce tutte e le adopera da gran virtuoso. […] Vargas Llosa va letto come Flaubert, Stendhal, Tolstoj, Cervantes. È uno di loro, uno dei grandi classici (ne ha la potenza, l’inesauribilità)» (Antonio D’Orrico) • «Flaubert mi ha insegnato che il talento significa disciplina tenace e grande pazienza; Faulkner che è la forma – la scrittura e la struttura – ciò che esalta o impoverisce le trame. Martorell, Cervantes, Dickens, Balzac, Tolstoj, Conrad, Thomas Mann che il ritmo e l’ambizione sono importanti in un romanzo quanto l’abilità stilistica e la strategia narrativa; Sartre che le parole sono azioni e che un romanzo, un’opera teatrale, un saggio, legati all’attualità e a più alti obiettivi, possono cambiare la storia; Camus e Orwell che una letteratura priva di morale è inumana, e Malraux che l’eroismo e l’epica sono presenti nell’attualità così come al tempo degli Argonauti, dell’Odissea e dell’Iliade». «La realtà dev’essere il punto di partenza, non d’arrivo. Senza una rottura con il contingente, la letteratura non raggiunge la sua indipendenza e, quindi, la sua sovranità. Anche se bisogna fare in modo di non cadere nell’astrazione, altrimenti i lettori non si identificherebbero, non si riconoscerebbero nei personaggi. Per sintetizzare, direi che occorre instaurare tra i due mondi una relazione dialettica, perché la letteratura non è lo specchio della nostra vita, ma ci dà ciò che la vita di tutti i giorni ci nega». «Grazie al fatto che mio padre mi mise in un collegio militare, grazie al fatto che mi impedì, a volte con accanimento, di essere uno scrittore, ho avuto un’esperienza che mi ha dato l’opportunità di scrivere con un grande materiale letterario. Se non fosse successo, probabilmente non sarei stato uno scrittore. Sì, scrivere è un piacere, ti permette di uscire da qualsiasi circostanza terribile, ti porta a difenderti da qualsiasi avversità. In questo senso scrivere è “il mio paradiso”».