Anteprima, 5 febbraio 2024
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Biografia di Vittorio Emanuele di Savoia
Vittorio Emanuele di Savoia (1937-2024). Unico figlio maschio di Umberto II, re d’Italia (1904-1983) e di Maria José (1906-2001), regina d’Italia, nata Sassonia-Coburgo Gota, principessa reale del Belgio • L’11 gennaio 1970 a Las Vegas (rito civile) e il 7 ottobre 1971 a Teheran (rito religioso) sposò Marina Ricolfi Doria, campionessa di sci d’acqua, dalla quale ha avuto Emanuele Filiberto • Protagonista di lunga disputa con il cugino Amedeo di Savoia che gli contestava il rango di pretendente al trono per aver sposato una non-nobile • In base alla XIII disposizione transitoria della Costituzione italiana, Vittorio Emanuele visse in esilio fino al 15 marzo 2003. Abrogata dal Parlamento italiano quella disposizione (Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto ebbero a giurare per iscritto e senza condizioni fedeltà alla Costituzione e al presidente della Repubblica, avallando l’inesistenza dei titoli nobiliari – così come scritto nella XIV disposizione transitoria – e dunque rinunciando anche al titolo di principe), tornò in Italia. L’accoglienza – a Napoli, aeroporto di Capodichino – fu assai poco cordiale: gruppi di varia estrazione politica salutarono i Savoia al grido di «Traditori!» e «Jatevenne!» • «Dopo aver lasciato il Quirinale dove abitava e poi Napoli, dove era nato il 12 febbraio 1937, per andare in esilio, conduce una vita abbastanza sopra le righe. È lui stesso a raccontarla in una autobiografia densa di aneddoti non proprio improntati alla sobrietà. Quando la sorella, principessa Maria Gabriella, non lo invita alla sua festa, lui affitta un aereo per sorvolare la villa della parente e lanciare pomodori marci sugli astanti. Quando durante un viaggio la madre Maria José gli racconta ammirata della nuova Ferrari acquistata dal fratello Leopoldo del Belgio, per farle uno scherzo si lancia a quasi trecento all’ora sull’autostrada per Reims che sta percorrendo in quel momento. Patente ritirata, con quei regicidi dei gendarmi francesi insensibili alle proteste reali. La villa di Ginevra, trenta stanze e piscina coperta, preferita come residenza d’esilio al Portogallo da lui giudicato «freddo e inospitale», diventa un crocevia di affari, chiacchiere e intrallazzi spesso fomentati da personaggi che agiscono sulla sua fissazione per un regno che non esiste più» [Marco Imarisio, CdS]. «Negli anni Settanta ebbe noie grosse a causa d’un traffico d’armi scoperto dal giudice Carlo Mastelloni di Venezia ma fu il magistrato che finì per avere la peggio: venne trasferito a Roma, aveva osato ficcare il naso su affari che coinvolgevano lobbies troppo potenti e protette. Tutto si concluse nella solita bolla di sapone. Di certo, in quel giro c’era chi spendeva il nome di Vittorio Emanuele, e qualcuno gli avrà pur detto che poteva farlo: del resto, l’erede al trono dei Savoia si era fatto una reputazione vendendo allo Scià Reza Pahlevi, di cui era buon amico, elicotteri prodotti dal conte Corrado Agusta che poi riapparivano armati di tutto punto in Sudafrica, a Singapore, in Malesia, a Taiwan, triangolazioni che l’Onu metteva spesso sotto accusa. Lui si difendeva: sono solo un intermediario d’affari, vendo persino aerei da carico russo. Andò peggio una sera d’estate del 1978 in quel di Cavallo, isolotto per vacanze miliardarie e per faccendieri ozianti come Silvano Larini, amico di Silvio Berlusconi e cassiere dei conti segreti di Bettino Craxi. Vi erano affinità, diciamo così, da affiliazione: alla P2 di Licio Gelli, visto che il principe vi figurava col numero 1621. Savoia e massoneria, un’antica storia di affari e intrallazzi, avevano scritto maliziosamente i giornali. Quanto a Larini, Vittorio Emanuele lo frequentava, e anche questa coincidenza, più tardi rivalutata da Mani Pulite, avrebbe dovuto allarmare chi non crede al caso e pensa sempre al peggio (Andreotti docet). Ma stavolta la cronaca si interessò di un’altra burrascosa amicizia, quella con Nicky Pende, playboy e figlio di uno dei medici più noti e ricchi di Roma: Vittorio Emanuele era geloso della bellissima moglie Marina Doria, quella notte si sbronzò e litigò furiosamente con Nicky a tal punto che scese sottoponte della sua barca e ne riemerse armato di un fucile. Sparò e colpì un giovanotto tedesco, Dirk Hamer. Era il 18 agosto del 1978. Il ragazzo non aveva vent’anni. Morirà, dopo atroci sofferenze (gli amputarono persino una gamba nel tentativo di salvarlo), il 7 dicembre. Fu una vicenda oscura. Ma qualche anno dopo, nel dicembre del 1991, al processo di Parigi fu assolto dalla Chambre d’accusation: niente omicidio volontario, solo una lieve condanna a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo di arma da fuoco. Erano pure gli anni in cui l’opinione pubblica italiana cominciò a parteggiare per il rientro dei Savoia in Italia: “Ormai sono politicamente inoffensivi”. Vittorio Emanuele su questo concordava pienamente: ha sempre disprezzato politica e politici, al massimo gli potevano essere utili per i suoi affari da esule regale. Merito anche del discreto lavorìo diplomatico tessuto dalla madre, la regina Maria José, che culminò nell’incontro segreto a Ginevra con il presidente Pertini. Maria José era un’interlocutrice credibile, non aveva mai celato la sua disapprovazione nei confronti delle scelte di casa Savoia. Non seguì Umberto a Cascais, in Portogallo, rimase coi figli in Svizzera: la chiamarono “regina rossa” per le sue vaghe simpatie socialiste, la contestatrice di casa Savoia. Le sinistre decisero che era venuto il momento di ripensare alla XIII disposizione transitoria della Costituzione che vietava agli eredi maschi dei Savoia di rimettere piede in Italia, e poi Vittorio Emanuele aveva dichiarato pubblicamente di rinunciare al trono, di accettare la Repubblica italiana e la sua costituzione. La suoneria del suo telefonino era l’inno di Mameli. “Vorrei poter morire da italiano in Italia”, disse una volta, ma poi continuò a preferire la sua Villa Italia, in riva al Lemano (Ginevra). Tutto era pronto per il gran rientro. Ma forse non tutti lo volevano. C’era chi non si fidava della sua conversione repubblicana. L’occasione per verificarlo fu un lugubre anniversario, quello delle leggi razziali del 1938, sottoscritte dal nonno Vittorio Emanuele III. Il Tg2 volle intervistarlo. Gli chiesero: “Principe, cosa pensa di quella firma che suo nonno appose sotto il decreto delle leggi razziali volute dal Duce? Non crede che sia giusto scusarsi?”. Vittorio Emanuele arrossì come sempre gli capita quando si trova in difficoltà. In fondo è un timido. Farfugliò: “No, perché io non ero neanche nato”. Invece, a dire il vero, era nato l’anno prima, il 12 febbraio del 1937. Ma il punto era un altro: Vittorio Emanuele reclamava da anni il ritorno in Italia, si era persino rivolto alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Non riusciva però a sconfessare quel gesto, e quindi la Shoah. In verità, al principe mancava il senso della Storia, un vuoto culturale che lo metterà sempre con le spalle al muro. Provò a rimediare: “Quelle leggi non erano poi così terribili”. Giustamente scoppiò il putiferio» (Leonardo Coen). Il 27 maggio 2004, alla cena offerta dalla regina Sofia di Spagna, dopo le nozze tra Felipe e Letizia, sentendosi dare una pacca sulla spalla dal cugino Amedeo d’Aosta lo stese davanti a tutti con due diretti in faccia. Sdegno universale, articoli di esecrazione su tutta la stampa mondiale e scuse di Marina Doria • Il 16 giugno 2006 fu arrestato a Varenna (Lecco), su disposizione del gip Alberto Iannuzzi del Tribunale di Potenza, inchiesta e richiesta del pm Henry John Woodcock: lui e un’altra dozzina di indagati furono accusati di essere coinvolti, a vario titolo, in un presunto giro di tangenti per ottenere dai Monopoli di Stato certificati per l’installazione delle cosiddette «macchinette mangiasoldi», attività che avrebbe anche favorito il riciclaggio di denaro di provenienza illecita tramite «relazioni con casinò autorizzati e, in particolare, con il Casinò di Campione d’Italia». Operazioni rese possibili, dicono le carte della procura, da un «sistematico ricorso allo strumento della corruzione e del falso» • Negli otto giorni trascorsi in carcere a Potenza, Vittorio Emanuele raccontò al suo compagno di cella e coimputato nella medesima inchiesta Rocco Migliardi […] il delitto di Cavallo. Disse tra l’altro, riferendosi ai giudici francesi del processo: «Anche se avevo torto, devo dire che li ho fregati!». Spiegò come aveva preso il fucile e come aveva colpito con una pallottola «trenta zero tre» il giovane Hamer. In cella c’era però una microscopia e queste frasi finirono sul tavolo del giudice, che ascoltò anche il seguente giudizio su di sé e sui suoi collaboratori: «Sono dei poveretti, degli invidiosi, degli stronzi. Pensa a quei coglioni che ci stanno ascoltando... Sono dei morti di fame, non hanno un soldo, devono rimanere tutta la giornata ad ascoltare, mentre probabilmente la moglie gli fa le corna». In base a questa intercettazione, il gip Rocco Pavese si rifiutò di revocare il divieto d’espatrio imposto a un imputato così chiaramente pieno di «cinismo e disprezzo per la legittima attività investigativa e giurisdizionale». La moglie Marina Doria cercò di giustificare il marito dichiarando che certamente, mentre pronunciava quelle frasi, aveva bevuto • «Moglie davvero tradita quella di Vittorio Emanuele, il principe di Savoia che via cavo “ordinava” ragazze da trovare negli hotel di lusso. Molte di loro furono individuate, rintracciate, intervistate su gusti e abitudini del principe, ma soprattutto sulla sua sbandierata tirchieria. Ai fidi collaboratori che si preoccupavano della soddisfazione Reale, sua Altezza raccomandava infatti i prezzi modici: “Duecento euro e non di più!”» (Fiorenza Sarzanini) • Nel luglio 2008 la Procura di Potenza ne ha chiesto il rinvio a giudizio per «associazione per delinquere finalizzata a commettere più delitti contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica ed il patrimonio, in particolare un numero indeterminato di delitti di corruzione e falso». Sua reazione: «Finalmente potrò dimostrare la mia innocenza davanti a un giudice terzo». Nel corso dell’inchiesta, la Procura di Potenza ha trasmesso alle procure di Roma e Como, competenti per territorio, specifici filoni d’indagine. Il 27 marzo 2007 la Procura di Como ha archiviato il procedimento. Anche la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sul presunto giro di tangenti ai Monopoli di Stato • Ora vedrebbe bene una strada con il suo nome a Potenza: «Certo, me lo devono! Era una città che non conosceva nessuno, l’ho lanciata io. Vorrei che mi dedicassero la strada che porta alla prigione. La targa la pago io, eh...» (a Laura Laurenzi) • «L’ultimo mese del principe, costretto da anni alla sedia a rotelle, due protesi al femore, è stato un calvario di salute: già a Natale non stava bene, febbre alta che non se ne andava. Fino alla decisione del ricovero che non aveva preso bene, avrebbe preferito restare con Marina al suo fianco, nello chalet di Gstaad. Ma la febbre che continuava a preoccupare ha richiesto il ricovero. Con la moglie Marina costretta a fare la spola da Gstaad a Ginevra. Trattato con antibiotici per contrastare l’infezione che non gli dava tregua, negli ultimi due giorni un’apparente ripresa del fisico di un uomo che si preparava a spegnere 87 candeline, aveva fatto sperare. Tanto che il principe aveva chiesto che si attrezzasse un ufficio provvisorio nella stanza di ospedale» [Enrica Roddolo, CdS] • Morto sabato alle ore 7:05 del mattino • Birgit Hammer, sorella di Dirk Hammer, ha dichiarato: «Sarei ipocrita se dicessi che per me è una notizia triste. Ma non provo niente per questa persona. Ho pianto così tanto per mio fratello Dirk e per mia madre. Posso aggiungere che mi fa piacere che il documentario di Beatrice Borromeo, Il Principe, sia uscito prima della sua morte, perché lì lui ha cercato ancora una volta di negare, di riabilitarsi, ma non c’è riuscito. E ora, dove si trova, non potrà più negare. Mi auguro che si sia pentito prima di morire» • Ernesto Galli della Loggia: «Si spegne in una sostanziale indifferenza il figlio dell’ultimo re d’Italia: triste testimonianza di un’assoluta incapacità personale d’interpretare non dico il ruolo di «pretendente» ma pure quello di erede di un passato familiare che aveva fatto la storia. In realtà fu proprio il peso di questo passato, unito alle vicissitudini di un’infanzia e di un’adolescenza vissute tra i dissapori familiari e il vuoto dell’esilio, a schiacciarne la troppo fragile personalità. Cavallo non fu certo un “incidente”. Fu l’inconsulta esplosione di rabbia omicida di un giovane troppo debole e troppo viziato che solo un oscuro giro di amicizie riuscì a salvare dal meritato castigo. Ascoltarlo rievocare quelle vicende in un recente documentario televisivo suscita la penosa impressione di una mancanza di consapevolezza al limite della spudoratezza quale può avere un bambino» • La camera ardente si terrà venerdì dalle 12.30 alle 21 nella chiesa di Sant’Uberto, all’interno della Venaria Reale: la salma sarà benedetta dall’arcivescovo di Torino Roberto Repole. I funerali saranno celebrati sabato prossimo nel Duomo di Torino • Poi le ceneri (è il primo Savoia a venire cremato) saranno portate nella cripta reale della Basilica di Superga. Erano queste, del resto, le sue volontà: «Superga, sulla bellissima collina di Torino, è un luogo meraviglioso e si porta appresso la storia del casato. E così come il Pantheon è il luogo deputato ad accogliere le spoglie degli ex re, a Torino riposano i Savoia che non hanno regnato. Dunque anch’io sono destinato lì».