2 febbraio 2024
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Biografia di Franco Reviglio (Francesco Reviglio della Veneria)
Franco Reviglio (Francesco Reviglio della Veneria), nato a Torino il 3 febbraio 1935 (89 anni). Economista. Accademico. Professore emerito di Scienza delle finanze all’Università di Torino. Politico (già Partito socialista italiano). Ex ministro delle Finanze (1979-1981; 1993), del Bilancio e della Programmazione economica (1992-1993) e per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno (1992-1993). Ex senatore (1992-1994). Dirigente pubblico. Ex presidente dell’Eni (1983-1989). «Lui ama tratteggiarsi così: “Nella mia vita ho tre grandi passioni. Lo sci, il buon vino e la scienza delle finanze. Senza le prime due potrei anche vivere, senza la terza no”. Per la maggior parte degli italiani, invece, Franco Reviglio è e rimane “il ministro che ha introdotto la ricevuta fiscale”, quello che portò i pizzaioli di Napoli ad adottare una protesta senza precedenti: servire ai clienti solo pizza condita con olio e pomodoro» (Dario Di Vico) • Nobiluomo della famiglia dei conti Reviglio della Veneria, originaria di Bra. «Vengo da una famiglia di magistrati e io stesso avrei dovuto fare il magistrato» (a Giuseppe Turani). Diplomatosi al liceo classico Vittorio Alfieri di Torino («Di politica si parlava poco, ma gli studenti erano i figli della borghesia illuminata torinese, con tradizioni diverse, da quella socialista democratica a quella cattolica»), si laureò alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, presso la quale svolse quindi attività di assistente fino al 1964, quando iniziò a collaborare col Fondo monetario internazionale, per poi diventare nel 1968 professore ordinario di Scienza delle finanze e di Economia pubblica all’Università di Torino. «La sua collaborazione con il governo risale agli anni del centro-sinistra, quando collaborò con Giolitti, allora titolare del dicastero del Bilancio» (Guido J. Paglia e Renato Romanelli). In ogni caso, «il primo a immettere nel circuito della grande politica il “tecnico” Reviglio fu un democristiano, Filippo Maria Pandolfi. Correva l’estate dell’anno di grazia 1979 e Pandolfi, da presidente del Consiglio incaricato, cercava facce nuove per completare la lista dei ministri e si ricordò di un professore torinese di appena 44 anni, di area socialista, che aveva visto ripetutamente all’opera in qualità di consulente del dicastero delle Finanze. Pandolfi, in realtà, quel suo governo, non riuscì mai a farlo: dovette cedere il testimone a Francesco Cossiga, che però pensò bene di non cancellare il nome di Reviglio. Che si ritrovò ministro della Repubblica, un’incombenza che nei successivi 14 anni gli sarebbe toccata ancora quattro volte, tre alle Finanze e una al Bilancio» (Di Vico). «Ha alle spalle una storia di studioso e di persona al di sopra di ogni sospetto. Alla politica attiva, agli incarichi ministeriali, arriva piuttosto tardi e senza avere mai l’aria di aspirare a fare carriera, senza legare troppo con il suo stesso partito, che è il Psi. Per questo è sempre stato considerato un politico anomalo, più che altro un tecnico, uno studioso prestato alla politica. Non è certamente un mestatore di tessere e di incarichi politici. Ad esempio, fra il 1979 e il 1981 fa il ministro delle Finanze in ben tre governi (due presieduti da Cossiga e uno da Forlani), ma non ha alcun incarico parlamentare, non è né un deputato né un senatore. […] Sbarca a Roma nel 1979 e nessuno sa bene chi sia. Solo gli addetti ai lavori sanno che è stato due anni al Fondo monetario internazionale di Washington e che ha fatto da consulente, molto apprezzato, in una decina di commissioni governative italiane. Alle Finanze porta subito aria nuova. È l’inventore della famosa ricevuta fiscale, che fa emergere una serie di redditi rimasti fino allora nascosti. Avvia, insieme a un gruppo di giovani collaboratori, un programma molto agguerrito per la riforma dell’amministrazione finanziaria italiana» (Turani). «Come far pagare le tasse agli italiani era una questione che arrovellava il governo presieduto dal democristiano di lungo corso Francesco Cossiga, nel 1980. Il ministro delle Finanze, il socialista Franco Reviglio, aveva avuto un’idea: rendere noti i nomi dei contribuenti infedeli, una specie di gogna a mezzo stampa. Due dei suoi più stretti collaboratori si dividono su fronti nettamente opposti: Vincenzo Visco è favorevole, Giulio Tremonti del tutto contrario. Visco e Tremonti facevano parte dei cosiddetti “Reviglio boys”, tutti destinati a un fulgido futuro: Domenico Siniscalco, Franco Bernabè, Alberto Meomartini. […] È proprio dall’ambiente dei “Reviglio boys” […] che viene concepita una delle idee destinata a cambiare la storia delle tasse in Italia: lo scontrino fiscale» (Alessandro Marzo Magno). Reviglio promosse inoltre quella che nel 1982 sarebbe diventata la «legge 516 sui reati tributari, battezzata […] “manette agli evasori”, col preciso scopo di “restituire efficacia deterrente” alle sanzioni penali. Grandi ambizioni di partenza, ma risultati decisamente al di sotto delle aspettative: troppo poco selettiva, la normativa faceva praticamente di tutti i contribuenti dei “sorvegliati speciali”. Migliaia di procedure giudiziarie sono state avviate, spesso per comportamenti illeciti formali e minimali: la lentezza proverbiale dei tribunali italiani ha fatto il resto, e nella maggior parte dei casi le azioni giudiziarie sono cadute in prescrizione. Nei primi due anni di applicazione vennero arrestate solo 93 persone, compresa la Loren, 551 nei primi quattro. Più che un vero strumento di deterrenza per i contribuenti infedeli, insomma, la legge si è rivelata una grida manzoniana: finché nel 2000 si è deciso di mandarla definitivamente in soffitta» (Laura Verlicchi). «Arrivò a Roma come un buon provinciale, avvertito, sì, ma ignaro di certi meccanismi perversi. Fu subito stravolto, ad esempio, dalle dinamiche dell’informazione: non capiva come certe indiscrezioni delicate potessero uscire dal ministero e diventare notizie del diavolo, essere strumentalizzate in un senso o nell’altro. Non poteva neanche sospettare che i potenti direttori generali del ministero gli creassero volutamente fastidi continui per difendere il loro potere, che fino allora mai era stato insidiato da tutti i politici digiuni di fisco, i Preti come i Colombo, che si erano avvicendati in quel palazzo, interessati soprattutto a deliberare trasferimenti di personale per motivi clientelari. Per farsi aiutare su questo fronte scivoloso chiamò un suo giovane assistente, Alberto Meomartini, che poi diventerà l’ambasciatore nella tana craxiana, che il professore ha sempre frequentato con modesto entusiasmo. Nei primi tempi qualche cattura subita da dame e damazze dei salotti romani, ansiose di esibire il professorino che voleva costringere i ristoranti a rilasciare ricevuta fiscale, ma soprattutto un lavoro appassionato che portò per la prima volta all’elaborazione del “Libro rosso”, come dire le pagine gialle degli evasori fiscali, citati per nome, cognome e cifra evasa. Gli dedicavano allora perfino epigrammi, come questo: “Padre di aliquote e balzelli/ figlio di Irpef e di Ilor/ nemico anche ai fratelli/ con la sua erre moscia/ ad ogni pollo in tavola/ sottrasse una coscia”. Ma il libro degli evasori fu il suo canto del cigno. La sera del 28 giugno 1981 […] Spadolini, uscendo dal Quirinale, legge in televisione la lista del nuovo governo e – sorpresa – al posto di Reviglio c’è Rino Formica. Craxi non ama il professore torinese, così diverso da lui come modi e che, per di più, ha sempre manifestato simpatia per la sinistra lombardiana» (Alberto Statera). «Dopo due anni, i politici di mestiere si stufano di lui e lo rimandano a casa, a Torino, dove ricopre la cattedra di Scienza delle finanze che fu di Luigi Einaudi (cosa di cui va giustamente molto fiero). Il partito, a quel punto, non gli dà più incarichi importanti e gli chiede di fare il consigliere comunale di Torino, cosa che lui accetta. Se ne andrà nel 1983 per prendere il posto di presidente dell’Eni, dove rimarrà poi fino al 1989» (Turani). «Prima di lui c’era stato il diluvio: gli anni neri del caso Eni-Petromin, quelli grigi della presidenza Grandi e i mesi roventi della guerra, tutta in casa socialista, fra Leonardo Di Donna e Umberto Colombo, finita con la cacciata di entrambi. “Quando Prodi e io siamo stati chiamati all’Iri e all’Eni, quello era il dramma nazionale”, ha raccontato. […] “Aveva bruciato uomini come Colombo, Egidi, Gandolfi. Non sapevano più chi chiamare. De Mita disse: prendiamo i due professori. E abbiamo dimostrato che anche le imprese pubbliche possono essere sane. Servivamo per risanare e ci hanno lasciati lavorare”» (Di Vico). «Per anni […] ha gestito l’Eni con l’abilità di un gran commis eternamente in bilico sul difficile filo che vede da una parte l’autonomia delle scelte da compiere e dall’altra il premere delle forze politiche sui grandi enti delle partecipazioni statali. […] Ha portato l’Eni dai 1.600 miliardi di perdita dell’82 ai 1.500 di attivo dell’ultimo bilancio firmato da lui. Anche la complessa operazione dell’Enimont porta la sua firma. Più volte nel corso delle trattative per creare tra pubblici e privati una joint venture che potenziasse la chimica si è scontrato con la controparte, cioè con Gardini. Ma proverbiali sono anche divenuti i suoi scontri con Cuccia, gran patron di Mediobanca, un uomo certamente allergico a tutto ciò che è pubblico e con il quale non si è mai istaurata una gran simpatia» (Sergio Luciano). «Partita il 15 dicembre del 1988 con un accordo che portava la sua firma accanto a quella di Raul Gardini, all’inizio del ’90 Enimont già cominciava a scricchiolare. E al professore torinese sulla poltrona più alta dell’Eni era già succeduto nel frattempo un ingegnere milanese, più socialista di lui, di nome Gabriele Cagliari. Ma a chi gli ha chiesto […] se rifarebbe Enimont Reviglio ha risposto tutto d’un fiato: “Sono andato via che era appena nata, se ne parlava come del successo del secolo. 700 miliardi di utile il primo anno, titoli richiestissimi all’estero. Avevo inserito una clausola, nei contratti, che riservava all’Eni l’ultima parola, nel caso di risoluzione dell’accordo. L’hanno stravolta”» (Di Vico). «Quando arriva all’Eni, […] il professore ha imparato a riconoscere gli angoli bui e pericolosi della suburra. Invita gli ospiti in foresteria al ventesimo piano, a mangiare una spigola bollita e un’insalata, ma quasi tace. Soltanto dopo il caffè esorta l’interlocutore ad andare a fare due passi intorno al laghetto che circonda il grattacielo dell’Eni per parlare in libertà. Gli hanno spiegato che in quel palazzo lo spionaggio impera fin dai tempi di Cefis. […] Di certo nei sette anni nel palazzo di vetro fumé dell’Eur Reviglio non ha avuto vita facile con Craxi. A un certo punto il segretario socialista voleva che l’agenzia Testa partecipasse agli appalti del ricco budget pubblicitario. Reviglio disse di sì, ma poi quasi tutto andò all’agenzia Masi di Milano. Fu allora che Craxi cominciò a chiamarlo sprezzantemente “il Della Venaria”. Eppure, su molte richieste del partito il professore non aveva fatto nessuna resistenza. E questo, forse, era stato il suo errore» (Statera). «Reviglio […] rimette a posto i conti, cambia molte persone in posti chiave, fa una certa pulizia e rilancia l’Eni. Quando se ne andrà, nel 1989, per lasciare il posto a Gabriele Cagliari, […] i conti del gruppo sono tornati buoni. Tutti capiscono che ha dovuto lasciare l’incarico perché Craxi voleva alla testa dell’Eni una persona più malleabile e più gradita al suo clan, Cagliari appunto» (Turani). «Scaduto il suo mandato, di nuovo lo mandano a casa, e senza alcun ringraziamento. A quel punto il Psi sembra dimenticarsi di lui. Lo lasciano a Torino, a cuocere nel suo brodo. Reviglio studia, fa un libro sulle prospettive del 2000 e si occupa del Cesec, il Centro studi economici e sociali di orientamento socialista che ha sempre diretto. Elabora con i suoi amici del Cesec, nel 1991, un piano per il risanamento finanziario ed economico dell’Italia. A riscoprirlo, nel 1992, è […] Giuliano Amato (anche lui attivo nel Cesec), che gli offre una candidatura al Senato, nelle elezioni del 5-6 aprile 1992. “Giuliano mi disse che dovevo entrare in Parlamento per rinvigorire un po’ la politica, e io ho accettato”, mi ha raccontato. […] E così, finalmente, nel 1992 Reviglio entra in Parlamento. Quando Amato è chiamato a formare il suo governo, dopo le elezioni, gli offre subito l’incarico di ministro del Bilancio, con il compito speciale di sorvegliare la compatibilità dei vari provvedimenti economici rispetto al fine generale del risanamento del Paese. Per Reviglio si tratta quasi di una resurrezione politica. Più tardi, […] quando il titolare del ministero delle Finanze, Giovanni Goria, decide di lasciare per potersi meglio difendere da alcune accuse che reputa ingiuste, Reviglio accetta di essere spostato dal Bilancio al Tesoro, lasciando la poltrona del Bilancio a un altro “professore”, Nino Andreatta. Non fa storie. D’altra parte, sembra che non ne abbia mai fatte. Si è sempre considerato un tecnico di tradizione “inglese”: quando l’amministrazione ha bisogno di lui, e lo chiama, si presenta. Altrimenti, torna a immergersi nei suoi studi» (Turani). Così fece anche dopo aver rassegnato le proprie dimissioni dal governo, il 31 marzo 1993. «Anche lui, come i colleghi del governo Amato che l’hanno preceduto, “travolto” dalle inchieste giudiziarie. Come ex presidente dell’Eni la Procura di Milano gli ha infatti inviato un avviso di garanzia in cui si ipotizza il reato di ricettazione. Altri reati, quali falso in bilancio e violazione delle legge sul finanziamento ai partiti, non sono più contestabili, perché il primo prescritto e il secondo coperto da amnistia: Reviglio è stato all’Eni fino all’ottobre dell’89 e in questi anni i reati si sono “estinti”. La vicenda riguarda infatti i “fondi neri” che l’ente petrolifero elargiva ai partiti. In particolare a Reviglio vengono contestati due finanziamenti al Psi, di tre miliardi l’uno: secondo l’accusa l’ex ministro sarebbe stato a conoscenza della provenienza illecita del denaro, che proveniva infatti da fondi formati attraverso speculazioni e sottratti dai bilanci dell’ente. Alle accuse Reviglio si dichiara “totalmente estraneo”» (Susanna Marzolla). In seguito, pur essendo stato prosciolto da ogni accusa, non si avvicinò più alla politica, dividendosi tra l’insegnamento universitario, l’attività di consulente (ad esempio per Lehman Brothers) e la gestione dell’Azienda energetica metropolitana di Torino, di cui è stato presidente e amministratore delegato. Dal 2002 è professore emerito di Scienza delle finanze all’Università di Torino • Tre figli dal matrimonio con la nobildonna Paola Thaon di Revel, «il cui bisnonno era il ministro delle Finanze che risanò il bilancio dello Stato piemontese nel 1844, mentre lo zio, Paolo Thaon di Revel, passò alla storia per l’introduzione, avvenuta nel 1936, in pieno regime fascista, della nominatività dei titoli azionari» (Di Vico) • «Un po’ socialista, tanto liberal» (Di Vico) • «Amabilmente soprannominato dai suoi colleghi “il professor Groviglio”» (Filippo Ceccarelli). «È ingenuo, quasi goffo, appassionatamente aggrovigliato nell’eloquio come nei suoi saggi» (Statera). «È una delle personalità migliori emerse negli anni ’80, uno dei migliori economisti di governo, paragonabile solo a Guido Carli e a Francesco Forte, l’erede della cattedra di Einaudi» (Gianni De Michelis) • «Di lui restano parecchie idee innovative, uno stile politico fatto per metà di rigore, di disciplina, e per metà di entusiasmo, e resta anche una insolita eredità formativa, una nidiata di ragazzi avviata alla vita pubblica, nota sotto la definizione giornalistica di “Reviglio boys”» (Marco Ferrante). «Che effetto le fa quando le enumerano i Reviglio boys che hanno fatto carriera? “Per un professore, come io nella sostanza sono, è una soddisfazione avere degli allievi che in qualche misura contribuiscono ad amministrare il Paese. Siniscalco è mio allievo da quando aveva 21 anni, Tremonti da quando ne aveva 25-26, Mario Baldassarri si è laureato con me, anche Franco Bernabè ha fatto tutta la carriera con me”» (Di Vico) • «Ho fatto dell’integrità la regola base della mia vita». «In casa nostra l’onestà è una cosa che non si discute nemmeno: fa parte del nostro patrimonio, e basta».