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 2024  febbraio 03 Sabato calendario

Biografia di Gian Arturo Ferrari

Gian Arturo Ferrari, nato a Gallarate (Varese) il 4 febbraio 1944 (80 anni). Editore. Già presidente del Centro per il Libro e la Lettura, direttore generale della divisione libri Mondadori, che significa, oltre alla casa di Segrate, Einaudi, Sperling & Kupfer, Electa, una grossa fetta della scolastica e alcune importanti partecipazioni internazionali.
Titoli di testa «Cinquantamila libri posseduti (ma forse è un’esagerazione), quarant’anni da top player nel mondo di carta, tre grandi ossessioni (i libri, il potere e il potere di fare i libri)» [Mascheroni, Il Giornale].
Vita Nascita da dimenticare a Gallarate, città di ciminiere, tessiture e provincialismo, infanzia nella terra d’origine, collina emiliana, di cui ha mantenuto il modo di esprimersi con i suoi autori («Abbiamo trovato il manzo, mettiamolo all’ingrasso») [Mascheroni, cit.] • Da piccolo soffre di balbuzie: «credo in una forma che ha determinato una certa infelicità adolescenziale» • Padre duro: «Non era mai riuscito ad accettare la mia balbuzie che la nonna e la mamma vedevano invece come un motivo in più per volermi bene. Quando, giovanissimo, rovistando tra i libri che avevano fatto sognare mia madre e aggirandomi nella biblioteca dello zio, scoprii le virtù della lettura, quando gli stessi professori si accorsero di una certa predisposizione letteraria, mio padre restò allibito. Era come se per lui quell’unica predisposizione confermasse la mia inettitudine» [ad Antonio Gnoli, Rep]L’amore per la lettura, la passione della sua vita, Gian Arturo Ferrari, la deve alla nonna. «Sì, era la figura dominante della famiglia. Una maestra. Allora gli insegnanti erano al centro della società. Rispettati, riconosciuti. Le spine dorsali del Paese. Oggi sono marginali, sottovalutati e, in qualche caso, persino compatiti. Io devo molto alla scuola, al liceo, all’università. Sono in debito, non in credito. Studiare è stata ed è la più grande leva di riscatto sociale. Io sono stato fortunato, sono partito in condizioni del tutto svantaggiate». E la mamma? «Era allegra, sensibile, dolce, forse per reazione a una madre, mia nonna, molto autoritaria e a un marito scorbutico» [a Ferruccio De Bortoli, CdS] Da giovane. «Quando riesco ad acchiappare di nascosto una rivista (i miei genitori non hanno piacere che io le prenda in mano) guardo le fotografie, che sono molto più interessanti, e, se c’è tempo, leggo le didascalie • La Milano nella quale cresci è però una città ricchissima di stimoli. «A un certo punto la famiglia decollò. Si pagarono i debiti, il lavoro paterno ingranò. Papà acquistò una Millecento e poi un Telefunken da 21 pollici: un televisore rinchiuso in una cassa di mogano, vero e proprio moloch al quale avvicinarsi con curiosità e soggezione. Nelle serate davanti al Musichiere sembravamo indigeni prostrati davanti a una divinità che ci parlava» [Gnoli, cit.] • «Il mondo della mia infanzia era irto di difficoltà. Duro. Spietato. Vivere allora era come passare la mano, ogni giorno, su una superficie di carta vetrata. Io rammento non ricordo, che è etimologicamente diverso. Nessun sentimentalismo. Proibito» [a Ferruccio De Bortoli, CdS] • Ghisleriano • Nella tua formazione c’è il liceo Berchet e la progressiva scoperta della politica. Descrivi la figura di un prete le cui sembianze rinviano a Don Giussani. Che ricordo hai di lui? «Era avvolto da un carisma che non riuscivo a spiegarmi. Non c’era ancora Comunione e Liberazione, ma la Gioventù Studentesca. Che devo dirti? Non mi convinceva l’idea della fusione completa in Gesù Cristo. Sentivo che sotto a questi atteggiamenti c’era un che di artificioso. Don Giussani, che allora non sapeva cosa sarebbe diventato — era solo un prete quarantenne —, cercava di trasmettere a noi studenti una fede ardente, assoluta. Lo faceva interpellando i cuori, coinvolgendo le nostre esistenze». Per dei quindicenni poteva essere una suggestione fortissima. «Per molti lo fu, non per me. Il richiamo a una sorta di militanza o di apostolato nascondeva il rischio del fanatismo. Finii il liceo nel 1963 e fu come un cambio di passo. Favorito anche dall’incontro con scrittori e poeti che io e un ristretto gruppo di studenti cercavamo di contattare per il giornale scolastico». Racconti l’incontro con Eugenio Montale. «Adoravo le sue poesie. Gli chiedemmo un’intervista. Accettò. Ci ricevette in un salottino della redazione del Corriere della Sera dove lavorava. Ci venne incontro un uomo grassoccio, avvoltolato in un cappottone peloso. Quell’immagine così prosaica contrastava con la bellezza dei suoi versi. Non volle parlare di poesia. Anzi fu lui a farci domande con la curiosità di un entomologo davanti a degli insetti. Mi sentii a disagio. Gli chiesi perché un poeta con il suo prestigio sentisse il bisogno di lavorare per un giornale. Volevo provocarlo. Ci guardò con durezza. Vedrete, disse ironico, che ne riparleremo tra qualche anno quando magari, dopo esservi laureati in lettere, verrete a cercare proprio qui un lavoro. Non aveva nessuna fiducia nelle capacità di un poeta di potersi mantenere con i propri versi». Fu una lezione di concretezza. «Tenuta da un poeta era un po’ strano. Ma servì per crescere. Stavo uscendo dalla lunga adolescenza: l’università, l’attenzione alla politica, gli amori, la guarigione» • La guarigione. Ti riferisci alla balbuzie? «Sì, accadde nel corso di un’assemblea studentesca. Presi la parola. Nessuno si aspettava, a causa del mio difetto, che avrei potuto farlo. Invece parlai in modo argomentato e fluente. Fu come se in quel momento fosse finita la lunga adolescenza di un ragazzo» • A vent’anni corregge le bozze alla Boringhieri • Studia Lettere classiche a Pavia: «Allievo del papirologo e grecista Adelmo Barigazzi e del logico matematico Ettore Casari, già professore universitario associato in Storia del pensiero scientifico» [Paolo Bricco, Sole] • «Poi tentò la carriera accademica – scuola di Mario Vegetti, téchne, Galeno, i presocratici, l’“io collerico”... insegnando Storia del pensiero scientifico. Ma poi abbandonò tutto per l’amore dei libri. Voleva averne tanti, voleva averli tutti, voleva rubarli, deciderli, pubblicarli, venderli, vincere premi e farli fallire» [Mascheroni, cit.] • Negli anni Settanta diventa il braccio destro di Paolo Boringhieri. «Boringhieri non diceva mai nulla, non comunicava mai un numero, non spifferava mai niente a noi della redazione, secondo il precetto di stretta osservanza einaudiana per cui gli editoriali dovevano sentirsi liberi, totalmente liberi, nelle loro scelte e che, per esserlo veramente, non andavano influenzati né dai risultati di vendita dei singoli libri né tantomeno dai risultati di impresa della casa editrice» [Bricco, cit.] • Diventasti improvvisamente grande. Ma che cosa ha significato quel passaggio? «Forse prendere coscienza di una certa normalità. Il mio lavoro nell’editoria ha significato uscire dalle illusioni. Ricordo che quando vidi il film Il gigante mi innamorai perdutamente di Elizabeth Taylor. Quell’illusione fece sbiadire il ricordo della fine di un amore vero. Per poi lasciar spazio a un nuovo legame. Quell’impercettibile atmosfera di sogno ha accompagnato la mia infanzia, è stata il solo antidoto all’infelicità. Ma non puoi vivere nutrendoti soltanto di questo» [Gnoli, cit.] • «Nel 1984, quando sono arrivato alla Mondadori, mi sentivo come un monaco a Las Vegas. A Segrate, era tutta un’altra cosa. Non c’era quel silenzio da monastero della Boringhieri. In mezzo ai corridoi scampanellavano i telex che inviavano e ricevevano i documenti. Eravamo l’unica casa editrice italiana ad averli. Vivevi e lavoravi immerso in una grande energia […]. A Segrate, le cose erano diverse. Vedeva la luce un libro interessante a Parigi o a New York, a Londra o a Berlino? Lo sapevamo subito. Il libro in edizione originale non era ancora passato dall’agente letterario dell’autore alla casa editrice straniera per la prima edizione. E noi, in due giorni, per mano dei nostri scout ricevevamo il dattiloscritto» [Bricco, cit.] • «Da Segrate, contribuisce al successo di un libro autobiografico di Enzo Biagi, Mille camere (1984), “che vende due, tre, quattro, cinque volte il budget”; da quella stessa postazione, consola autori scontenti e insopportabili come Alberto Bevilacqua, ammansisce gli agenti squali, si apre al mondo e intanto guadagna terreno “in quel bagno turco che è Villa Giulia”, il teatro romano-mondano del Premio Strega. Naviga nella turbolenza dei passaggi proprietari, e - talvolta con un po’ di cinismo - cerca un punto di equilibrio fra ambizioni culturali e marketing spietato» [Paolo Di Paolo, Rep] • Direttore dei Libri Rizzoli nel 1986. «Ti accoglieva calcolatrice in mano e piedi sulla scrivania» •«Nel 1989 ero in Rizzoli, la mia amica Benedetta Craveri mi disse che l’avvocato Vittorio Ripa di Meana mi avrebbe voluto parlare, ci vedemmo con De Benedetti nella sua casa di Via Ciovassino, era molto irruente e pieno di energia e, prima che scegliesse la politica, Silvio Berlusconi (“aveva una enorme capacità di intuire i desideri del pubblico, alle cene che lui organizzò per primo mostrava grande cortesia verso i librai e grande galanteria verso le loro mogli”)» [Bricco, cit.] • Si dimette dall’università di Pavia • A Segrate ha avuto la leadership operativa e strategica di tutto il gruppo dal 1995 al 2009 • «Tutti quanti, indistintamente dalle loro ricchezze e dalle loro posizioni, hanno verso i libri qualcosa di simile al timore reverenziale. La nostra civiltà è fondata sulle tre religioni del libro. Una certa idea di verità si è formata attraverso il concetto e la realtà della biblioteca. Esiste una sorta di idea naturale del libro come frammento portatore di eternità» [Bricco, cit.] • «Don Arturo Ferrari. Così Enrico Mentana, incappando in una memorabile gaffe, lo apostrofò durante una puntata di Matrix. Ma se di gaffe si trattò, e non d’ironia come ho sempre sospettato, mai gaffe fu più rivelatrice. Gian Arturo Ferrari, il direttore generale della Divisione libri del Gruppo Mondadori, è, infatti, l’unico nell’editoria italiana odierna cui calzi a pennello il titolo onorifico di “Don”, il quale, nella cultura meridionale, non solo in quella mafiosa, indica il rispetto che precede e giustifica il potere, non la deferenza che lo segue. Il “Don” gli calza non soltanto perché, con la sua corporatura massiccia, i gessati marron a righe larghe, la mascella quadrata e i capelli a spazzola sul cranio prominente, Ferrari ha il physique du rôle del capo carismatico ma anche perché ne ha lo stile e, soprattutto, il potere» [Antonio Scurati] • «È l’uomo più potente dell’editoria italiana e questa posizione gli piace moltissimo. Nei corridoi felpati della Mondadori lo chiamano Il Professore. Letterato e manager, passionale e cinico, colto e smaliziato» [Caterina Soffici] • «Quando era potente lo chiamavano il Signore dei libri» • Quando andava a Parigi in missione editoriale e scendeva all’Hotel Crillon, e non mancava di fartelo sapere. Quando alla Buchmesse rilanciava all’asta dei diritti come a un tavolo di poker, tanto i soldi non erano suoi. Quando ti incrociava a un festival o a un premio, e ti metteva la mano sulla spalla “Stai tranquillo, ci penso io”, e poi non pensava a un cazzo, se non a quello che interessava a lui. Quando chiacchierava con Giorgio Bassani, quando imparava da Carlo Fruttero, quando citava l’amato Citati...» [Luigi Mascheroni, cit.] • «L’editore non va in bisca o al casinò. Non ne ha bisogno. Perché non c’è nulla di più rischioso e di più imprevedibile che scegliere un autore e pubblicare il suo libro» [Bricco, cit.] • «A Segrate passavano tutti. Non soltanto i grandi scrittori e i grandi giornalisti. Quando intendo tutti, intendo proprio tutti. Ho conosciuto Henry Kissinger, l’attrice Mia Farrow e la top model Cindy Crawford. Per dire le personalità più diverse. I libri sono come la scopa della strega, perché a cavallo dei libri si arriva ovunque» [Bricco, cit.] • Manager di fronte agli intellettuali (agli scrittori sbatteva in faccia numeri e tecniche gestionali: «Questa è un’industria che deve vendere!») e intellettuale davanti ai manager (agli «editoriali» parlava sempre con linguaggio aulico e citazioni letterarie, forse per impressionarli), Gian Arturo Ferrari ha – indubbiamente – decine di virtù. Fiuto, furbizia, cultura, intelligenza, sorriso sornione, battuta pronta, joie de vivre e un certo snobismo. E qualche vezzo. Il più scusabile dei quali è la tendenza ad attribuirsi i meriti degli altri. Quando, nel 2003, l’insostituibile editor Stefano Magagnoli portò in Comitato di lettura Il codice da Vinci di Dan Brown, Gianni – sia detto confidenzialmente – sbottò: “Che cosa volete che venda in Italia un libro che parla male del Vaticano...”. Naturalmente divenne un bestseller. Il suo [Mascheroni, cit.] • Presidente del Centro per il libro e la lettura dal 2010 al 2014 e ancora un ritorno a Segrate, tra il 2015 il 2018, da superconsulente, vicepresidente di Mondadori Libri» [Mascheroni, cit.] • Editorialista del Corriere della Sera dal 2012 • Amato da tanti e mal sopportato da troppi. «Gian Arturo Ferrari non se la passa tanto bene. Ha detto che l’Italia dell’editoria non conta più nulla, e i suoi “colleghi” lo stanno massacrando a colpi di editoriali, interviste, appelli... L’ultimo giorno della Buchmesse di Francoforte, Ferrari - già grande capo della Mondadori e ora presidente del Centro per il Libro e la lettura - ha affidato al Corriere della sera una scoraggiata riflessione sullo stato (pessimo) dell’editoria. E i toni si sono alzati parecchio. Contro il povero Gian Arturo. Mentre sulle pagine del suo Corriere intervenivano, marcando una certa distanza, Luigi Brioschi (gruppo Guanda) e Stefano Mauri (gruppo Mauri Spagnol), Christian Raimo sul blog minima&moralia gli consigliava di rivolgere la lamentatio contro sé stesso, chiedendogli anzi di “passare la mano”, cioè lasciare il Centro per il Libro. Ieri, poi, giornataccia. Sulla Domenica del Sole 24 Ore Giuseppe Laterza - uno che scrive per sé, ma dietro ha un bel pezzo di intellighenzia - ha lanciato un siluro: caro Gian Arturo, gli ha di fatto detto, guarda che in questa catastrofe, tu che hai guidato per anni il maggior gruppo italiano e che ora dirigi un’istituzione pubblica “che dovrebbe esprimere la politica di promozione del libro e della lettura del nostro Paese (ma chi l’ha vista?”, hai una responsabilità pesantissima... e vieni a fare la predica a noi?» [Mascheroni, cit.] • Chi lo difende gli riconosce il merito di aver tenuto insieme le esigenze culturali e quelle commerciali, i classici e il mercato, l’intellettualità e l’industria; e non è poco. Chi lo critica gli addossa la responsabilità della “deriva mercantilistica” di Mondadori (che poi ha contagiato tutto il settore), di aver svenduto la cultura per il soldo e di aver inventato il libroide, quella cosa che uno è convinto sia un libro e invece non lo è. Autobiografie dei vip, ricettari, saghe faraoniche e varia amenità [Mascheroni, cit.] • Nel 2014, scrive un libro intitolato Libro (Bollati Boringhieri) • Ritiratosi dalle fabbriche del libro, Gian Arturo Ferrari si è messo a scriverli. Uomo che ha sempre avuto un fiuto per quelli degli altri, tende ad avere meno senso critico per i propri. Quando nel 2020 pubblicò Ragazzo italiano, il suo primo romanzo – con Feltrinelli, in un momento di rivalsa con la Mondadori e di reciproco innamoramento intellettuale con Carlo Feltrinelli, chissà perché poi... decise persino di partecipare allo Strega. Di più. Credendo ancora ai premi (e forse è rimasto uno degli ultimi, oggi che per sapere chi ha vinto l’anno scorso lo Strega o il Campiello lo devi cercare su Google), si illuse di vincerlo. Lottando disperatamente. E così, lui che si è sempre gloriato di aver trasformato in una scienza il pacchetto di voti, telefonò personalmente a tutti i giurati suoi vecchi amici, ai quali quando era il kingmaker dell’editoria aveva fatto mille favori e ora ne chiedeva uno in cambio. «Pronto? Ciao, sono Gianni. Come stai? Hai visto il mio romanzo?». Arrivò penultimo della cinquina [Mascheroni, cit.] • «Interrogato su fatti e misfatti del Ninfeo, l’intervistato spiegò con l’abituale franchezza: “La bellezza del Premio Strega è che è fondato sul tradimento”. E alla domanda “Mandava i suoi collaboratori a convincere le vecchie signore a votare per voi?”, rispose: “Delle vecchie signore mi occupavo personalmente, erano la mia specialità”» [a Silvia Truzzi, Fatto] • «I due autori che ho letto, studiato e amato di più sono Aristotele e Charles Darwin». Ferrari non beve il nero d’Avola che è in tavola. Beve acqua minerale. Secondo l’ufficio studi dell’Aie, l’Associazione Italiana Editori italiani, i ricavi consolidati del settore – calcolati a valore corrente – erano pari nel 1975 all’equivalente di poco meno di 3 miliardi di euro, all’incirca lo stesso valore di oggi, molto meno dall’apice dei 4,7 miliardi di euro del 2000. Gli addetti oggi sono 17mila, la metà degli anni Settanta. Nel 1975, i titoli pubblicati sono stati 13.233 (con 75 milioni di copie stampate), nel 2017 68.022 (con 115 milioni). Negli ultimi trent’anni, il numero di case editrici è aumentato: dalle 2.540 nel 1990 alle 4.902 del 2017. «Non sono d’accordo che questa struttura industriale sia inefficiente. È una fisiologia. Non è una patologia. I costi di accesso sono diminuiti in misura strutturale fin dagli anni Ottanta. E, per questo, si è verificata una vitale proliferazione di case editrici. Tutto questo, peraltro, è ancora più accentuato dalla rivoluzione del digitale, che non soltanto riduce i costi di capitale fisso industriale ma riduce, con la diffusione progressiva degli e-book, i costi di distribuzione» [Bricco, cit.] • Nel 2023 ci regala una splendida Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio) che è due cose insieme. Per metà racconta l’avventura novecentesca degli Arnoldo Mondadori e gli Angelo Rizzoli (i dioscuri dell’editoria italiana), i Valentino Bompiani, la dinastia manualistica degli Hoepli (il successo dei libri “utili”), e poi l’elogio di Livio Garzanti (carattere difficile ma perseveranza formidabile, si pensi a Gadda...), le pagine sullo Struzzo e il cielo stellato (cioè il corpo a corpo fra Giulio Einaudi e Boringhieri), le pagine invidiosette sull’Adelphi, quelle un po’ troppo “partecipate” su Giangiacomo Feltrinelli, quelle sugli editori “medi” più originali (Sellerio) e imprevedibili (e/o). E per metà raccoglie ricordi, aneddoti» [Mascheroni, cit.] • «Gian Arturo Ferrari è una di quelle persone che quando ti incontrano passano la prima mezz’ora a parlarti di loro, e poi ti chiedono: «Ma adesso dimmi di te. Hai letto il mio libro?». Purtroppo sì [ibid.]
Tifo Tifoso assiduo ma non insensato dell’Inter, con il figlio Francesco fin dalla sua adolescenza ogni domenica allo stadio di San Siro
Amori Divorziato con due figli, Francesco e Silvia, il 9 novembre 2007 sposò nella reggia di Venaria la torinese Elena Bardin, 23 anni più giovane, pierre di Panerai, marca di orologi extra lusso. Chiara Beria di Argentine: «Antefatto: i due s’incontrano nel 1999 proprio a Venaria - il destino volle che fossero seduti vicino - a una cena per la Fiera del libro». Testimoni per lui l’ingegner Maurizio Costa, ad della Mondadori, e lo psicologo Enrico De Vito, per lei la sorella Enrica e Carla Salicini.
Titoli di coda «L’editoria è uno strano mestiere, in cui si usa lo spirito per fare i soldi e i soldi per fare lo spirito».