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 2024  febbraio 08 Giovedì calendario

Biografia di Julio Velasco

Julio Velasco, nato a La Plata (Argentina) il 9 febbraio 1952 (72 anni). Allenatore di pallavolo. Dal 1° gennaio 2024 di nuovo alla guida della nazionale italiana femminile. Ha iniziato la carriera in Argentina nel 1979, nel Ferro Carril Oeste, con cui ha vinto quattro campionati consecutivi. Dal 1981 al 1983 vice-allenatore della squadra nazionale argentina maschile. In Italia ha allenato la Panini Modena dal 1985 al 1989, con la quale ha conquistato quattro campionati italiani consecutivi, una Coppa delle Coppe nel 1986 e tre Coppe Italia. A capo della nazionale italiana maschile dal 1989 al 1996, ha vinto due Campionati del mondo (1990, 1994), tre Campionati europei e l’argento olimpico ad Atlanta (1996). Dal 1997 al 1998 ha guidato la nazionale italiana femminile, e poi le nazionali ceca, spagnola, iraniana e argentina, oltre alle squadre di Piacenza, Modena, Montichiari e Busto Arsizio. Una breve parentesi nel calcio: nel 1998 direttore generale della Lazio, nel 2000 responsabile dell’area fisico-atletica dell’Inter. «Chi vince festeggia, chi perde spiega».
Vita «Papà era peruviano, studiava a La Plata. Mia madre era anglo-italiana. Il nonno era un contadino emigrato in Argentina, la nonna arrivava da Camogli. Mamma aveva un aspetto anglosassone, però amava l’Italia» (a Flavio Vanetti) • Iniziò a giocare a pallavolo a quindici anni. All’università lasciò perché iniziò ad occuparsi di politica. In Argentina era il periodo della dittatura dei Colonnelli e dei desaparecidos: «Io ho visto sequestrare un ragazzo, davanti a me. Succedeva così: arrivava una macchina, inchiodava i freni; scendevano, velocissime, alcune persone, prendevano di forza la vittima designata, la caricavano in machina puntandole una pistola alla nuca; e nessuno poteva far niente, altrimenti saliva anche lui dentro quella macchina. Uno dei miei due migliori amici dell’Università è stato assassinato, il mio migliore amico del liceo è stato assassinato» (ad Antonella Boralevi) • Scappò nei primi anni Settanta da La Plata perché tirava una brutta aria e andò a Buenos Aires lasciando l’università, solo sei esami gli mancavano alla laurea in filosofia. L’ex ragazzo iscritto al partito comunista argentino con un fratello sparito per due mesi, con gli amici ammazzati, con quell’orrore visto arrivare e poi visto davvero. Poggiò Platone, impugnò il pallone. Che lo rotolò fino in Italia. Divenuto prima marchigiano di Jesi per due anni dall’83 e poi tutto italiano dall’89 con l’Italvolley dei sogni (due mondiali e una scuola irripetuta, anche se senza un’Olimpiade)» (Alessandra Retico) • «Julio (o Giulio, dal 1992) ha trovato l’America da noi. Ma vale anche il concetto rovesciato: Velasco ha reso grande la nostra pallavolo. Storia intensa, ma dura all’inizio, “perché nessuno immagina quanto sia difficile essere emigranti, anche se si arriva in condizioni ideali”. Peraltro a Pianello Vallesina, 1.000 anime, di ideale c’era ben poco. “Nel 1981 avevo venduto l’auto per finanziare un giro europeo: così incontrai l’Italia. Poi nel 1983 due giocatori di Jesi mi proposero di venire. La squadra era in A2, l’allenatore lavorava per le Ferrovie e lo sbattevano spesso in missione. Mi offrirono 6.000 dollari più l’auto. L’appartamento di Pianello, vecchio, con i mobili della nonna, lo metteva il farmacista del paese in cambio di una consulenza sul vivaio del club, emanazione del nostro, di cui era presidente”. Il seguito è da romanzo a lieto fine: la crisi societaria di Jesi (“Mi ritrovai a cercare lavoro passando le giornate accanto al telefono e leggendo i giornali per scovare posti liberi”), lo sbarco a Modena con ritocco del salario (“L’anno prima avevo rifiutato perché non sarei stato capo-allenatore. Rinunciavo a più soldi in cambio di un’idea: era piaciuto”), l’avvio del grande ciclo.
Velasco che diventa Velasco. Senza dimenticare il percorso. “Scoprii il rito delle vasche in centro per incontrarsi, cosa sconosciuta a me che venivo da una megalopoli. Conobbi l’umanità della provincia, frequentai le sagre paesane, “imparai” l’Italia dal suo cuore pulsante”. E la lingua? “Avevo preso lezioni, non ero a terra. Ragionavo però in spagnolo e preparavo testi che traducevo: alla sera mi ritrovavo con il mal di testa. Finché un giorno, facendo la barba, realizzai che stavo pensando in italiano...”. Nel tempo libero ha letto e studiato. Poi “mamma” Rai ha fatto il resto: “I suoi programmi notturni mi hanno insegnato tanto. Pure la musica e la cultura mi hanno aiutato: sapevo di Mina e della Vanoni, ma qui ho sentito Dalla, De André e De Gregori. Ho poi conosciuto i film di Visconti, ho visto Nureyev allo Sferisterio, sono stato a teatro perfino in piccoli centri: la cultura diffusa è un valore italiano”» (Falvio Vanetti) • «Julio Velasco diventa allenatore dell’Italia del volley nel 1989: l’anno prima la Nazionale era andata alle Olimpiadi di Seul grazie al boicottaggio di Cuba, da ripescata. Con lui vince subito l’Europeo, nel 1990 il Mondiale, e poi tanto altro ancora. La squadra di Tofoli, Gardini, Lucchetta, Cantagalli, Zorzi e Bernardi diventa la squadra di tutti. Generazione di fenomeni, un modello, un ricordo felice. Velasco ha acceso una luce, facendo sentire migliore uno sport che, anche senza di lui, ha continuato ad avere successo. Velasco ci ha messo il metodo, la capacità di godere di quello che avevamo, il dono della sintesi. Racconta Andrea Zorzi: “La prima volta che ci siamo visti mi ha chiesto cosa mi serviva per diventare uno dei migliori attaccanti del mondo. Io ho cominciato a parlare di maggiore allenamento e concentrazione, di muri e battute. Lui mi ha detto: sei uno schiacciatore? Impegnati per schiacciare meglio”. Il proprio ruolo, il proprio compito, le priorità» (Valentina Desalvo) • Nel 2019 ha annunciato il suo ritiro da allenatore, ma ha continuato a lavorare con i giovani. Oggi, è direttore tecnico del settore giovanile maschile della pallavolo. «“Allenare un club ti mangia la vita, fai fatica a fare altro. Io non sono multitasking, volevo godermi i nipoti, scrivere, studiare. Forse l’età mi ha dato anche il gusto di fermarmi, di stare a bordo piscina, senza partire sempre per un altro viaggio”. La cosa più bella dei suoi anni in panchina? “Il rapporto con i giocatori. Lavorare con i giovani è un privilegio: hanno energia, allegria, spensieratezza, e sono spugne, hanno voglia di imparare. Mi mancherà”. Allenare è un lavoro? “Un signore che faceva il tuttofare per la Panini un giorno mi ha chiesto: ma lei lavorare lavorare, ha mai lavorato? Perché, giustamente, il lavoro per lui era quello manuale. Ho pensato: ecco mi ha beccato. E gli ho detto: ho fatto le pulizie da giovane, per sei mesi, dalle 6 di mattina alle 10. Per fortuna ho potuto smettere. Ma lì ho capito la differenza dei punti di vista, tra te che pulisci e quelli che entrano dalla porta. C’è chi usa la maniglia e chi spinge il vetro lasciando l’impronta e costringendoti a pulire di nuovo. Prima non ci avevo mai fatto caso. Tutta la vita è cercare di capire i punti vista diversi”. Come si diventa allenatori? “Allenare non è una scienza, è un’arte. Ci sono contenuti scientifici, ma è un’arte. La parola chiave è equilibrio: tra autorità e comprensione, per esempio. Non trovi mai un punto giusto, è una ricerca continua, devi essere motivato. Sei un po’ come un attore comico, quando si apre il palcoscenico devi far ridere, qualunque cosa ti sia capitata prima. Tu crei emozioni, non trasmetti solo nozioni: e questo va allenato, perché c’è anche un’intelligenza emotiva. Se sei pessimista fare l’allenatore è quasi impossibile. L’ottimismo serve. Il che non significa pensare che se facciamo tutto benissimo vinciamo di sicuro: c’è anche l’altra squadra, non basta fare le cose bene, dobbiamo farle meglio degli altri. Poi, in ogni grande risultato, c’è sempre un po’ di mistero...”. La partita della vita? “La semifinale mondiale del 1990 vinta con il Brasile. Ma io cancello queste cose dalla mia memoria perché così è più veloce. I ricordi li lascio nel computer”. Una delle frasi di allora: “Bisogna avere gli occhi della tigre”. Poi attribuita direttamente a lei. “Era di Rocky... comunque ho smesso di usarla. Preferisco dire che la verità si vede dagli occhi e non dagli urli”» (Valentina Desalvo) • Nel 2024 è tornato ad allenare la nazionale femminile italiana. «Ha spinto il volley italiano dove si trova adesso. Con la Generazione dei fenomeni ha vinto due Mondiali, alle azzurre ha spiegato che potevano contare anche a livello internazionale. Ha girato il mondo, Iran compreso, ha abbandonato la panchina per poi tornarci, ha scoperto che 71 anni è l’età giusta non per andare in pensione, ma per realizzare un sogno lasciato a metà: allenare la Nazionale femminile alle Olimpiadi. Tra quattro mesi Julio Velasco spiegherà a Paola Egonu e compagne la mentalità con cui provare a vincere una medaglia a Parigi. Ma intanto, si gode la quiete prima della tempesta. Nella sua casa bolognese dove è esposta una prima pagina del quotidiano O Globo datata 1990: in apertura c’è una sua foto mentre viene lanciato in aria dagli azzurri. “L’hanno scattata quando abbiamo vinto il primo Mondiale in Brasile. È stato bello, però è passato troppo, troppo tempo. Nella mia casa c’è un po’ di tutto, gli amici, la famiglia, la mia squadra del cuore: l’Argentina del calcio”. Ci pensa che potrebbe diventare il primo tecnico a portare l’Italia sul podio olimpico? “Lo stimolo è evidente, l’obiettivo è quello. Avrei accettato anche una squadra meno competitiva, ma questa è una Nazionale davvero forte. Il traguardo di una medaglia è raggiungibile, ma anche molto difficile quando arriverà il momento decisivo dei quarti di finale: magari contro Cina, Serbia, Turchia, Stati Uniti. Nel volley non esistono più i cicli di una sola nazione”» (a Mattia Chiusano) • «Bisogna essere sinceri, smettere di dire stupidaggini come quella che il doping non serve. Serve, eccome, e migliora la prestazione. Ti dà quel tocco in più. Ma non bisogna prenderlo. una scorciatoia eccezionale, guadagni dal 10 al 20 per cento in più, ma non bisogna imboccarla per una questione etica, culturale, personale, non di risultati [...] Bisogna dirglielo ai ragazzi: prendi gli steroidi? Sappi che con la tua ragazza non ce la farai più, diventerai impotente, un cane che abbaia e non morde. Il successo del cristianesimo viene anche dal fatto che prometteva l’inferno ai peccatori» (a Emanuela Audisio) • «La competizione non è per forza un male: quando i bambini fanno le squadre tra di loro, sbagliano molto meno dei dirigenti di Serie A nel scegliere i compagni. Scelgono i più forti, non i loro amici. Per vincere. La squadra non è un imperativo etico, rispetta le ambizioni individuali, non le annulla, ma lo sport insegna le regole. Per questo è sbagliato togliere i voti, sarebbe come dire che alla fine della partita non si sa chi vince per non frustrare troppo i ragazzi» (a Valentina Desalvo) • Nel 2012 ha sposato in seconde nozze la bolognese Roberta Bernobi, 22 anni più giovane di lui. Ha avuto due figlie dal primo matrimonio • Nel 2019 è stato insignito del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Politica «È diventato il maître à penser della sinistra che lo ha prima interpellato perché esprimesse la sua opinione su qualunque sensibile argomento, poi l’ha corteggiato perché scendesse in campo, politico s’intende: “Le presunte menti libere della sinistra sono piene di ipocrisia: ero contrario al boicottaggio dei mondiali in Argentina nel ’78 quando c’erano i colonnelli e a quelli di pallavolo nell´82. Ringrazio quelli che sono venuti da noi a lavorare e a imparare come Carmelo Pittera, tutti quelli che vogliono capire anziché isolare”» (Alessandra Retico) • «Da giovane Velasco era per la rivoluzione comunista. Oggi invece difende la democrazia, «pur con i suoi difetti». Lupus in fabula. È vero che la politica lo voleva? “Leggenda: non ho avuto mai proposte. E non le accetterei: la politica è mediazione, io amo le scelte decise. Però, considerandomi di sinistra, mi “affitterei” per discutere con Salvini: nessuno sa rapportarsi con lui”» (Flavio Vanetti).
Religione «Che opinione ha del suo illustre connazionale, papa Bergoglio? “Alcuni suoi messaggi sono forti e mi trovano d’accordo. Non concordo con chi ritiene che papa Francesco stia rivoluzionando la Chiesa. Io penso che sia stata la Chiesa a scegliere lui, perché riteneva che era tempo di cambiare. Il problema della società attuale è che puoi anche non essere credente, come il sottoscritto, ma devi riconoscere una scala di valori imprescindibile che ha come fine il bene. In passato si era buoni per paura del giudizio di Dio, oggi anacronisticamente spesso ci si sforza di essere delle buone persone”» (a Massimiliano Castellani)
Curiosità «Ballo il tango un paio di volte la settimana: una sera vado a lezione, l’altra ballo davvero. Come ballerino non valgo molto, da uno a dieci merito suppergiù tre» (a Flavio Vanetti).