9 febbraio 2024
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Biografia di Francesca Neri
Francesca Neri, nata a Trento il 10 febbraio 1964 (60 anni). Attrice. Produttrice. Vincitrice di tre Nastri d’argento: due alla migliore attrice protagonista (Pensavo fosse amore… invece era un calesse di Massimo Troisi, 1992; Carne trémula di Pedro Almodóvar, 1998) e uno alla migliore attrice non protagonista (Il papà di Giovanna di Pupi Avati, 2009). «A Le età di Lulù devo tutto. […] Massimo Troisi mi scelse per Pensavo fosse amore… invece era un calesse proprio dopo aver visto Le età di Lulù. Rischiavo di scivolare nel cliché e ne uscii in un amen» (a Malcom Pagani) • «Sono una ragazza di campagna, nata a Trento da una famiglia semplice» (a Paolo D’Agostini). «È figlia di un esule istriano, partito negli anni ’40 da Pisino. […] Dov’è andato suo padre, una volta partito da Pisino? “Nel campo profughi di Savona, poi a Sanremo. La notte faceva il croupier al casinò di Sanremo, di giorno studiava all’Università di Milano. Tutta la famiglia poi si è trasferita a Trento, e lì ha conosciuto mia madre”» (Elisa Grando). «L’unica vera e sola famiglia è quella che ti costruisci tu. Nella mia famiglia di origine mi sono sempre sentita un’esule. […] La mia nonna paterna è stata la persona che mi ha fatto sentire amata. Mia madre no. Non ho avuto un’infanzia difficile ma mi è mancata la condivisione. Mi sentivo sola». Da parte della madre «mancavano gesti d’amore, come un semplice abbraccio. Lo facevano la mia nonna e, a volte, anche mio padre. Io ci provavo ma lei proprio non ce la faceva, ad abbracciarmi. Un giorno decisi di parlare chiaro una volta per tutte con i miei genitori e di raccontare loro tutto quello che provavo. Parlai per un’ora, alla fine della quale mio padre pianse, mi abbracciò è mi disse per la prima volta che mi voleva bene; mia madre, invece, mi chiese di parlare più semplicemente perché non mi capiva» (a Serena Bortone). «È la cosa che mi ha segnata… Ho imparato a vivere senza una madre ma con una madre presente. […] Era una donna semplice e umile, senza curiosità, incapace di esprimere sentimenti. Non mi ha mai fatto un complimento in vita sua, mai stretto tra le sue braccia, mai affondato le dita nei miei capelli. Il mio terrore era di diventare come lei» (a Valerio Cappelli). «Qual era il suo desiderio più grande? “Volevo conoscere il mondo, viaggiare, andare in mille posti, anche solo d’Italia. L’ho fatto da adulta”. Ma non voleva essere attrice? “Io? Ma neanche per sogno! Mi piaceva fare sport, mi piaceva stare insieme alle amiche. Sì, magari vedevo un film e per un attimo sognavo di essere quel personaggio… L’amore per il cinema, semmai, viene da mia nonna, che da giovane aveva fatto la maschera in un cinema. Ho amato prima il cinema come luogo del cinema, come macchina dei sogni”» (Luca Vinci). «Ho finito il liceo a Trento e mi sono trasferita a Roma per fare l’università, però ho anche fatto subito una scuola di teatro, e dopo un anno sono entrata al Centro sperimentale. Per cui è stata proprio la voglia di fare un’esperienza diversa che mi ha portata a Roma. C’era in me la voglia di andarmene da Trento e di cominciare appunto una vita nuova qui, a Roma. […] In realtà non avevo nessun tipo di conoscenza di cinema» (a Gianfranco Gramola). «“All’oratorio di Trento vedevamo Trinità. Bud Spencer e Terence Hill. La saga di Maciste. I peplum. Niente cineforum seriosi, niente Bergman”. A Roma? “Mi sentivo un’adolescente incompresa. Non sapevo neanche che avrei fatto l’attrice. L’ipotesi era vaga. Venivo da una famiglia tradizionale del Nord: il cinema non era un’opzione”» (Pagani). «Sono arrivata a Roma come la ragazza con la valigia». «Ho vissuto molto poveramente: mangiavo riso in bianco perché mi saziava e non costava nulla» (ad Alain Elkann). «A Roma, per far contenti i miei, mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza, per un anno. Poi, prima di mollare definitivamente l’università ed essere presa al Centro con tanto di borsa di studio, provai con Lettere. Al Centro mi promosse Lino Capolicchio. Con un amico sardo che faceva il cameriere presentai La gatta sul tetto che scotta. Da sola, un monologo tratto da Anna Frank. Parlavo un trentino stretto, si immagini cosa poteva essere. Aprivo bocca ed ero cantilenante, le o aperte, quelle chiuse: un disastro. Alle lezioni di dizione ero la peggiore. Mi hanno massacrata. […] I corsi erano aperti: a ognuno di noi, prima di lasciarci andare verso le nostre inclinazioni, veniva data un’infarinatura di montaggio, sceneggiatura e regia. Avevo compagni di corso come Iaia Forte, Roberto De Francesco, Jacopo Quadri e Paolo Virzì, con cui il secondo anno dividemmo anche un appartamento». «Ho fatto di tutto, la schiava nera con Richard Gere e la controfigura di Hanna Schygulla». Primo ruolo accreditato in Il grande Blek (1987), che «“fu il primo film di Giuseppe Piccioni come regista, il primo di Domenico Procacci come produttore, il primo di Sergio Rubini come attore. I provini, li fecero al Centro sperimentale”. […] Uno dei primi a darle un’occasione fu Luigi Comencini in Buon Natale… buon anno. “Una parte minuscola, ma importante, con Virna Lisi, su un autobus”» (Pagani). Poco dopo, «spende la sua bellezza all’apparenza algida ma carica di sottintesi nel semiscandaloso Le età di Lulù (1990) di J.J. Bigas Luna, film più ruffiano che trasgressivo, che tuttavia la impone all’attenzione degli addetti ai lavori» (Gianni Canova). Per la parte era stata scelta in circostanze fortuite. «“Ero a Cannes con Giuseppe Piccioni e Domenico Procacci, il mio fidanzato di allora. Sulla Croisette incontrammo un amico, Enzo Porcelli. Ci parlò di un film in preparazione tratto da un libro che in Spagna aveva avuto un successo strepitoso e del suo produttore Andrés Vicente Gómez, il Cecchi Gori di Madrid, alla ricerca di un’attrice dopo la rinuncia di Ángela Molina: ‘Ti va di incontrarlo?’. Accettai. Gómez rilanciò: ‘Se ti fermi stanotte, domani faccio venire il regista’. Bigas Luna, adorabile, lo conobbi così, dopo un’indimenticabile attesa in Costa Azzurra, stretta nell’unico letto disponibile nel caos del Festival tra Piccioni e Procacci”. Il film creò scandalo. “Io e Domenico leggemmo il copione e rimanemmo sconvolti. Qualunque altro fidanzato mi avrebbe intimato: ‘Non lo fai’. Lui avrebbe voluto dire la stessa cosa, ma faceva quel mestiere, sapeva che l’occasione era importante: strozzò le gelosie e si trattenne. Prima del provino, chiesi tre giorni per ragionare. Poi lo affrontai con incoscienza. Mi presero. ‘La Neri si spoglia’. A Trento il riverbero fu notevole”» (Pagani). «Le età di Lulù era una sfida con me stessa e con mia madre. Il provino era un monologo e io che mi masturbo con un vibratore. Mia madre non mi parlò per mesi. Io, senza i social, ho subìto insulti, telefonate anonime, stalking… Dopo, in Italia mi hanno vista come una intellettuale e in Spagna come un oggetto del desiderio. Destino tragicomico. In quel film ho imparato a conoscere la mia parte oscura». «Si rifà nei più concreti ruoli successivi, con buone puntate nel dramma, come La mia generazione (1996) di W. Labate, o nella commedia, come Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991) di M. Troisi e Matrimoni (1998) di C. Comencini» (Canova). Nel frattempo aveva recitato anche in Al lupo al lupo di Carlo Verdone (1992). «Giravamo al mare, dentro l’acqua, alla tenuta dell’Uccellina. Carlo, uomo fantastico per dividere una cena ma apprensivo quando non paranoico di fronte alle responsabilità del set, ci aveva tormentato per settimane: “Attenti alle tracine sotto la sabbia”. Una rottura di coglioni che non so dirle, fitta di presagi – “È pieno, è pieno” – e di raccomandazioni: “Se vi pungono, fateci subito la pipì sopra”. Finalmente giriamo. Ciak, azione e si sente un urlo sordo. Era Carlo. Urlava. Era stato punto lui. La tracina fa un male cane. Parte della troupe, piegata, provava ad aiutarlo senza smettere di ridere». Soprattutto, nel 1997 aveva interpretato la protagonista femminile di Carne trémula di Pedro Almodóvar. «Carne trémula è il film in cui ha cristallizzato il suo stile. Mi volle per una donna che rappresenta il senso di colpa. Potevo rifiutare? Eccomi, sono io, gli dissi». «“Fu dura. Pedro mi scelse e mi fece trasferire in Spagna tre mesi prima delle riprese per studiare lo spagnolo. I tre mesi più belli della mia vita. Mi fece stare benissimo. Sei un’attrice, stai per girare con Almodóvar, hai nel regista il migliore amico del mondo e in mezzo alla movida di quegli anni, al tavolino di un bar, ti confidi con lui, ti apri e racconti chi sei”. Carne trémula le valse il Nastro d’argento. Sicura di aver fatto male ad aprirsi con Almodóvar? “Un premio è un premio, la vita è un’altra cosa. Pedro è un genio intelligente e sensibile. Conosce il meccanismo della manipolazione, sa essere duro, può farti molto male. Lui pretende che gli attori si diano completamente, e conoscerli a fondo per usarne le fragilità al momento adatto fa parte di un piano che Almodóvar considera necessario al film. Ci sono tanti registi così, soprattutto in Francia. Io per fortuna ne ho incontrati pochi”. Con Almodóvar litigò? “Pedro era una belva. Era agguerrito: sostituì l’attore protagonista dopo due settimane di riprese. Fermò tutto, comunicò a lui e a noi la sua scelta e poi ricominciò. Con me Almodóvar cambiò atteggiamento all’improvviso, durante le riprese. Era stato il mio primo, dolce confidente ed era diventato aggressivo. Non lo riconoscevo più. Ero in un momento personale delicato: finiva con un fidanzato, c’era già Claudio Amendola nella mia vita, ero confusa e vissi molto male il mutamento di rapporti. Mi sentii abbandonata. Tradita. Da allora faccio fatica a fidarmi, ad aprirmi, a raccontarmi”» (Pagani). Dell’ottobre 1999 è una sue delle rare partecipazioni televisive, al fianco di Adriano Celentano nel programma Francamente me ne infischio (Rai 1). «Nel 2001 recita in Hannibal di R. Scott, il trionfo del mostro intellettuale-cannibale interpretato da A. Hopkins. In seguito appare al fianco di A. Schwarzenegger in Danni collaterali (2002) di A. Davis, in La felicità non costa niente (2003) di e con M. Calopresti e interpreta l’algida presentatrice televisiva Sonia Norton in Il siero della vanità (2003) di A. Infascelli. P. Avati la vuole per i suoi La cena per farli conoscere (2007) e Il papà di Giovanna (2008). Alla soglia dei quarant’anni si lancia in alcune esperienze produttive: nel 2005 produce Melissa P. di L. Guadagnino e nel 2008 Riprendimi di A. Negri» (Canova). «Mi sono fermata. […] Non mi reputo una produttrice. Tra i due, quello che somiglia di più a quel che volevo fare proprio in quel modo è Riprendimi». In seguito prese ancora parte a qualche film (Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati, Una famiglia perfetta di Paolo Genovese, Il ricco, il povero e il maggiordomo di Aldo, Giovanni e Giacomo e Morgan Bertacca, The Habit of Beauty di Mirko Pincelli), fino al 2016, quando abbandonò il cinema a causa di una «malattia che le ha cambiato la vita, costringendola a restare chiusa dentro una stanza di casa sua. […] Lei ha una malattia cronica che le procura grandi dolori, la cistite interstiziale. “È durata tre anni la fase acuta. Non ne sono fuori, non si guarisce: impari a gestirla e a non provocarla in modo che non sia invalidante. […] Ho accarezzato l’idea del suicidio. Ho passato mesi a giocare a burraco online di notte. Il mio lockdown è durato tre anni. E quando è arrivato per tutti, con la pandemia, sono stata meglio, perché condividevo la situazione degli altri”» (Cappelli). Nel giugno 2023 ha dichiarato: «Questa malattia oggi è parte integrante di me e del mio essere donna. […] Non vivo più la malattia come un limite. La conosco, ci convivo e oggi è un punto di forza». «Come ha reagito il mondo del cinema, un ambiente così conformista e cinico, alla sua malattia e al suo addio al cinema? “Ha detto bene, è proprio così. Da una parte c’era incredulità. Le attrici mi chiedevano: ma come hai fatto a staccare? Altri dicevano che ero talmente drogata che non mi reggevo in piedi. I miei amici non fanno parte del cinema. Ma ricordo Massimo Troisi, un poeta della vita e dell’amore che ho riconosciuto simile a me. E Pupi Avati, che mi descrisse in poche parole: “Il suo sguardo raro, profondo, di chi conosce la vita. Infatti nel suo sorriso c’è sempre anche il pianto”» (Cappelli) • Un’autobiografia, Come carne viva (Rizzoli, 2021) • Un figlio, Rocco (1999), dalla lunga relazione col collega Claudio Amendola, iniziata nel 1998, culminata nel matrimonio nel 2010 e giunta alla separazione nel 2022. «Ci siamo conosciuti in Amarsi un po’… di Vanzina: la mia prima volta come comparsa, lui protagonista. […] Claudio è il mio opposto. […] Sono stata sedotta dalla sua parte femminile nascosta. Voleva una storia: gli dissi di andare a vedere Le onde del destino di Lars von Trier. Bess, la protagonista, non è pazza: è soltanto nata nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata, come me. Ne rimasi sconvolta. Claudio mi disse: non ci ho capito niente» • Notevole la sua identificazione col personaggio di Bess McNeill, cui peraltro s’ispira anche il nome della casa di produzione cinematografica da lei fondata nel 2004 insieme ad Amendola, denominata Bess Movie. «Bess ama incondizionatamente ed è disposta a fare qualsiasi cosa per amore ma resta sempre pulita, candida. Nonostante le ferite dell’anima, ha sempre la voglia di dare e di darsi. Anch’io morirei per amore» • «Io sono nata in montagna. Ho un attaccamento fortissimo alla natura, alla terra, alla frutta, agli alberi. […] È più un discorso spirituale che materiale. Ho una certa avversione per tutto quello che è tecnologico. È un problema di educazione e di radici» (a Claudio Sabelli Fioretti) • «Per risolvere i miei casini è servito tempo. Incontravo tanta gente, giravo il mondo e nonostante questo passavo il tempo al telefono a piangere, a correre di qua e di là tra una storia d’amore e l’altra. Non ha idea di quante volte il cinema mi sia servito per scappare dalla realtà. Scappavo. Scappavo sempre. Nel 2002, pur di lasciare l’Italia, andai a recitare con Arnold Schwarzenegger in Danni collaterali. Mi sottoposi a otto provini, rinunciando a un’opera prima italiana che mi sarebbe piaciuto immensamente interpretare. Ebbe un esito pazzesco quell’opera, e io ero dall’altra parte del mondo». «L’analisi l’ha aiutata? “Certo. L’ho fatta per venticinque anni. È un lusso, c’è una fase in cui ti rendi conto dei tuoi limiti. La prima volta ero una bambina. Mi mandarono i miei quando dissi, senza avere alcuna idea del mio futuro: ‘Da grande troverò l’infinito’. Oggi ho una profonda conoscenza di me. Ho imparato ad ascoltare il mio corpo, che non è interessato al lavoro che faccio e conosce il mio inconscio meglio di me e degli analisti: le emozioni passano da lì”. Nei sentimenti lei è stata una traditrice seriale… “Quando le emozioni oltrepassavano il livello di guardia, o scappavo o tradivo. Una tattica difensiva. Sono un’inquieta, e gli inquieti scappano. Tradivo perché amavo troppo. Non avendo mai avuto il gioco del sesso scollegato dall’amore, era un modo di ferire l’altro e anche me. Ora ho paura di invecchiare, non di morire. L’anima non guarisce mai del tutto, ma dove sta? Resta sempre una lacrima”» (Cappelli) • «Per ricaricare le pile sto per conto mio. Non sono debole: sono fragile, incapace di farmi scivolare le cose, penso troppo, aborro la mediazione. Ma so amare, condividere. Chi non mi conosce dice che sono stravagante, altezzosa, depressa. Io diffido di chi non è stato almeno una volta depresso» • «Nella realtà sono pudica, non mi sono mai messa in topless. Ma nel lavoro, il mio fisico, l’ho mostrato senza problemi» (a Marina Cappa) • Laziale • «La roulette mi appassiona da morire. Per fortuna a Roma non c’è un casinò, altrimenti mi sarei già sbancata» • «Immagine di donna inquieta e tormentata che l’ha accompagnata sempre durante la carriera: […] l’attrice che non si risparmia, gettando anima e corpo in un mestiere che non sente come un mestiere» (Ettore Botti) • «Mi piace come faceva l’attrice Silvana Mangano, fuori dalle tendenze ma sempre la più moderna» • «“Mi sento antica. Da ragazzina soffrivo di essere nata nel secolo sbagliato. Poi mi sono trovata a essere una persona più libera di quello che è nella mia natura. Quante volte mi sono sentita in crisi per il fatto di avere un aspetto piacevole, sapendo di essere anche altro: finché ho capito che non devo dimostrare niente e che non è necessario imbruttirsi”. In questo è moderna. “Diceva Troisi: meglio piacere tanto a pochi che poco a tanti”» (D’Agostini) • «Il set è ogni volta la possibilità di avere un amico. Mi è successo con la parrucchiera, la costumista… e con Pupi Avati. La maggior parte delle volte vieni tradita». «Chi le piace ricordare, fra i suoi molti compagni di cinema? “Massimo Troisi, prima di tutto. Un uomo intelligentissimo e anche generoso di consigli per il mio lavoro: Massimo, che mi ha fatto vincere il Nastro d’argento, e che era un uomo delicato, timido, gentile. Bigas Luna, un folle che mi manca da morire. Giuseppe De Santis, mio professore al Centro sperimentale”» (Vinci) • «Quando mi dissero che ero l’erede di Alida Valli, ridevo. In una cosa forse sì: sono di origine istriana come lei!». «Era mia nonna in Il dolce rumore della vita di Giuseppe Bertolucci. Mi ricordava davvero mia nonna».