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 2024  febbraio 14 Mercoledì calendario

Biografia di Art Spiegelman (Itzhak Avraham ben Zeev)

Art Spiegelman (Itzhak Avraham ben Zeev), nato a Stoccolma il 15 febbraio 1948 (poi naturalizzato statunitense) (76 anni). Fumettista
Titoli di testa «Lo so che grazie a Maus posso entrare in qualsiasi salotto, e non grazie alle altre cose che ho fatto ma è proprio grazie a queste cose che ho fatto lui»
Vita Secondogenito di una coppia di ebrei polacchi sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. L’esperienza segnò profondamente la famiglia: il fratello maggiore, Rysio, nato nel 1937, morì nel 1943, ucciso dalla zia cui era stato affidato per sottrarlo ai rastrellamenti; la madre morì suicida nel 1968, poco dopo il suicidio del suo unico fratello superstite • Nel 1951 emigrò con i genitori negli Stati Uniti, e cambiò nome. «I miei genitori […] non erano molto assimilati alla cultura americana. Vivevamo completamente isolati dal mondo, ad esempio non avevamo la tv, e l’unica mia finestra sulla realtà americana del tempo erano i fumetti. Ho imparato a leggere con Batman. […] Da adolescente ho scoperto il sesso sulle pagine di Archie, ho imparato a conoscere il denaro leggendo le storie di Zio Paperone…Poi è arrivato Mad Magazine, che mi ha insegnato tutto quello che i miei genitori non potevano insegnarmi. A tal punto che credevo che il titolo, Mad, fosse l’acronimo di “Mum and Dad”, mamma e papà». «A quindici anni […] ero riuscito a farmi pagare i miei primi lavori: mi ero procurato una collaborazione come disegnatore freelance su una rivista del Queens, The Long Island Post. Era una bella cosa; ricevere lo stipendio è una bella cosa. E quando mi hanno dato un posto fisso alla Topps Bubble Gum mio padre sembrava incredibilmente sollevato e avrebbe voluto che me lo tenessi per tutta la vita. Mi hanno assunto per un lavoro estivo quando avevo diciotto anni, e gira e rigira il rapporto è durato ventitré anni. […] Nel 1971 avevo ventitré anni, e facevo parte di una grande comunità di fumettisti underground concentrata a San Francisco, che si era formata alla fine degli anni Sessanta, sulla scia di Zap Comix di R. Crumb. Un mio amico venne incaricato di mettere insieme un libro a fumetti intitolato Funny Animals. Io volevo realizzare qualcosa che avesse quel taglio pulp melodrammatico, con tanto di ombre degli avvolgibili sui volti, dove però i personaggi avessero sembianze animali, e il protagonista finisse stritolato da una gigantesca trappola per topi che scatta e gli imprigiona il corpo. […] Non sapevo di voler fare un libro sull’Olocausto. Se non altro per reazione allergica alle mie origini ebraiche. Non so se arriverei a definirlo odio per me stesso (anche se c’è gente che se l’è presa con Maus per la mia mancanza di zelo sionista), ma da piccolo mi sembrava che essere ebreo non fosse proprio il massimo – avevo sentito che uccidevano la gente per questo. Con Maus sono in qualche modo uscito allo scoperto in quanto ebreo. […] Comunque sia, l’impulso a lavorare su questo tema mi è stato finalmente chiaro solo mentre ero all’opera. Non era nemmeno chiaro che agivo in base al mandato di mia madre, che mi aveva chiesto di fare qualcosa con i suoi quaderni. Sono stati il concime necessario al terreno, ma me ne sono reso conto solo molto tempo dopo». Nacque così la prima idea di Maus, che Spiegelman sviluppò poi tra il 1978 e il 1991 in uno dei più riusciti esempi di «romanzo a fumetti», in cui, a partire dalle vicende familiari, l’autore raccontò il genocidio ebraico, ambientando la storia a «Mauschwitz» e imponendo ai nazisti la maschera di gatti e agli ebrei quella di topi. «Avevo un registratore per le conversazioni con mio padre, poi ne facevo delle trascrizioni, e quello è stato l’inizio del mio lavoro. Poi mi sono documentato con fotografie d’epoca, con un viaggio in Polonia, con i disegni realizzati dai prigionieri sopravvissuti ai campi di concentramento, e ho letto molto per capire quello che mio padre aveva vissuto e mi aveva raccontato. E così ho trovato la forma migliore da dare a tutto questo materiale» (ad Alfredo Castelli e Laura Scarpa). Fu un successo clamoroso, che guadagnò all’autore riconoscimenti e tributi internazionali, tra cui un’esposizione al Moma di New York e uno speciale premio Pulitzer nel 1992, e nobilitò l’arte del fumetto, conferendole dignità letteraria anche agli occhi della critica più severa • «In realtà non sono mai uscito dai bar di malaffare. Anche dopo il Pulitzer sono rimasto lì, al bancone, a guardare le mie rassicuranti pin-up e a disegnare i miei fumetti impresentabili. È sempre stato il mio modo di lavorare, da quando ho tagliato i ponti con lo standard dell’illustrazione americana del dopoguerra per puntare alle viscere, al realismo, al cuore dell’esistenza, che è anche violenza, terrore, sesso, gioia incontenibile e idiozie spaventose» [Giulio D’Antona, Sta] • Nel 1992 Spiegelman iniziò a collaborare con il New Yorker, per cui disegnò copertine fino a fine 2002, quando decise di non rinnovare il contratto • Perché, dopo nove anni al New Yorker, nel 2002 lo ha lasciato? «Questa intervista può essere l’occasione di correggere un malinteso: hanno scritto che avevo lasciato il giornale in segno di protesta, ma non è vero. Da allora non fanno che chiedermi per cosa protestavo. Per non parlare della reazione del mio editore che si è sentito insultato da parole che non ho mai pronunciato. Quello che realmente è successo è che avevo bisogno di lavorare al mio nuovo albo, L’ombra delle torri, del 2004, e per questo era preferibile che mi ritirassi. Il New Yorker è una delle riviste più aperte al mondo, né conservatrice né tantomeno superficiale. Semplicemente i nostri bisogni in quel momento erano diversi e i nostri cammini dovevano separarsi. Dico questo perché, in quanto narratore, sono molto attento a quello che si racconta di me» [Silvia Santirosi e Philippe Victor, l’Espresso] • Ne nacque la serie In the Shadow of No Towers, raccolta poi in volume e pubblicata in Italia da Einaudi nel 2004 con il titolo L’ombra delle Torri. A lungo insegnante della School of Visual Arts di New York, attualmente Spiegelman si occupa soprattutto di editoria insieme alla moglie Françoise Mouly: con lei, tra l’altro, nel 1980 fondò la rivista Raw (che durò fino al 1991, e ospitò le puntate di Maus), e tra il 2000 e il 2003 curò l’antologia di fumetti per bambini Little Lit (pubblicata in Italia da Mondadori) • È tra i maggiori detrattori de La vita è bella di Benigni, «un’idea cretina, buona al massimo per una cartolina d’auguri». Strenuo difensore della libertà di parola, in seguito all’attentato terroristico contro la redazione di Charlie Hebdo (7 gennaio 2015) espresse la propria solidarietà incondizionata al giornale satirico, stigmatizzando ogni atteggiamento di riserva e di autocensura (egli stesso inviò al settimanale britannico New Statesman una caricatura di Maometto, vedendosela rifiutare) • «I cosiddetti “fumetti” sono proprio questo: un ponte. Sanno coniugare il linguaggio dell’immagine e il linguaggio del testo e permettono al lettore di arrampicarsi fin dentro l’anima e la testa dell’altro. Puoi capire la situazione, puoi osservare una persona mentre parla e agisce in quella situazione e, al tempo stesso, metterti nella sua posizione, vedere il mondo con i suoi occhi. Trovo che questo sia straordinario» (a Marco Dotti) • Il 10 gennaio 2022 il consiglio scolastico di un istituto della contea di McMinn, Tennessee, ha votato all’unanimità per l’eliminazione della graphic novel Maus dai curricola di terza media. Motivo? Parolacce e bestemmie (“God damn”) e una rappresentazione di nudo femminile. «Sono un po’ sconcertato da questa notizia», ha detto Spiegelman, all’emittente televisiva Cnbc. «Mi lascia a bocca aperta, “like, what?”. Conosco un sacco di ragazzi che mi hanno detto di aver imparato molto da Maus. In Tennessee devono essere impazziti, sta succedendo qualcosa di molto strano laggiù» [Foglio] • «Adesso Maus è intrappolato nella questione israeliano-palestinese e non so come ne uscirà. Se lo chiede a me: è sempre in posti dove non dovrebbe stare, senza nemmeno necessariamente rappresentare il mio pensiero su nessuna delle questioni nelle quali si trova coinvolto. Anzi, venendo continuamente travisato». Qual è il suo pensiero? «Lo stesso che dovrebbe emergere dall’opera: ogni volta che un gruppo decide di essere superiore a un altro al punto da volerlo schiacciare, sterminare, estinguere, non c’è ragione o giustificazione che tenga. Che sia quel bandito di Netanyahu a considerare inferiori i palestinesi, o Hamas che ha la pretesa di combattere un mostro monolitico, o qualsiasi altro, non ci sono parole o fumetti che possano esprimere il torto in cui si trovano. Fa sorridere che un libro che cerchi di esprimersi così chiaramente contro la prevaricazione degli esseri umani sui propri simili venga sempre tanto ampiamente strumentalizzato per le ragioni contrarie» [D’Antona, Sta].
Amori Sposato con Françoise Mouly, francese di Parigi, incontrata quando era studentessa di architettura a New York.
Titoli di coda «Ora che il fumetto è dappertutto, ne sono quasi travolto. C’è troppa varietà, troppa scelta. Non so più cosa esce e quando. Una volta, quando i fumetti venivano bruciati perché traviavano le giovani menti, era terribile, ma adesso è come se si fosse persa la loro unicità. Il loro angolo di trasgressiva perfezione. Si sono trasformati in un mezzo come tanti altri».