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 2024  aprile 14 Domenica calendario

L’attacco militare dell’Iran su Israele

L’attacco militare dell’Iran su Israele riassume le diverse dimensioni del conflitto in corso in Medio Oriente.
L’esposizione diretta di Teheran come guida del fronte militare anti-Israele porta infatti a compimento una strategia di lungo termine che già vede l’Iran usare le milizie alleate per dissanguare lo Stato ebraico al fine di affermare la propria egemonia sulla regione, indebolendo la presenza degli Stati Uniti fino al punto da poterli sostituire con i rivali, Russia e Cina.
Per comprendere dimensioni e identità del conflitto che la Repubblica Islamica conduce contro lo Stato ebraico bisogna partire dal fatto che si tratta di una guerra diversa da quelle che il Medio Oriente ha visto in passato: perché è di attrito ed ibrida, sviluppandosi contemporaneamente su più fronti e più livelli.
Il primo fronte è quello più sanguinoso perché Teheran finanzia, addestra ed arma milizie alleate in Libano-Siria (Hezbollah), Gaza-West Bank (Hamas e Jihad islamica), Yemen (Houthi) e Iraq (Kataib Hezbollah) usandole tutte, e assieme, dall’indomani del 7 ottobre, per obbligare Israele a combattere su più fronti. È dalla guerra di indipendenza del 1948 che Israele non si trovava a fronteggiare simultaneamente attacchi militari provenienti da sei direzioni geografiche differenti. Ma con una differenza: nel 1948 si trattava sempre e solo di eserciti regolari o bande armate arabe mentre in questo caso la tipologia degli attacchi è assai variegata. Hamas ha usato la tattica del pogrom contro i villaggi del Negev Occidentale e combatte a Gaza una guerriglia urbana basata su combattenti senza divisa, scudi umani e tunnel oltre al fatto che, assieme alla Jihad Islamica, lancia razzi e commette attentati, mentre Hezbollah, Houti e milizie irachene dispongono di un vasto arsenale di droni e missili assai sofisticati, capaci di minacciare ogni angolo del territorio dello Stato ebraico.
Senza contare i sequestri di nave come quello avvenuto ieri nelle acque di Hormuz. Ciò significa obbligare Israele a difendersi su più fronti che non potrebbero essere più diversi: dalle infiltrazioni sotterranee agli attacchi kamikaze, dai missili più avanzati ai droni più rudimentali. È una guerra d’attrito in grande stile coordinata dalla Forza Al Quds, l’unità per le operazioni all’estero dei Guardiani della rivoluzione iraniani che rispondono direttamente all’imam Khamenei, Guida Suprema della rivoluzione. La finalità è far sanguinare il nemico il più possibile, con una campagna tesa ad esaltare il ruolo di Teheran come guida del fronte islamico che persegue la distruzione dello Stato ebraico e l’eliminazione dei suoi circa nove milioni di abitanti, ebrei, cristiani o musulmani.
La necessità di rispondere all’eliminazione del comandante dei pasdaran a Damasco da parte dell’Idf (le forze israeliane) ha offerto a Teheran l’opportunità di evidenziare proprio questo suo ruolo di guida militare del fronte anti-Israele ed èquanto sta avvenendo in queste ore. Perché ciò che conta per Teheran è rafforzare la percezione regionale che Israele è imbottigliata, sotto assedio.
Se l’Iran accelera su questo fronte è perché, come i suoi leader affermano da settimane, ritiene che la guerra a Gaza abbia “cambiato in maniera decisiva l’equilibrio in Medio Oriente” a causa del successo della campagna di delegittimazione di Israele in corso in Occidente, che facendo leva sul numero molto alto di vittime civili nella Striscia di Gaza punta ad allontanare il più possibile Usa e Ue dallo Stato ebraico. È proprio la sovrapposizione fra campagna di informazione sui social e azioni militari sul terreno a spiegare perché si tratta di un conflitto ibrido, che si sviluppa su livelli paralleli. Il cui fine ultimo, sul terreno, è però assai fisico, concreto: cementare un coordinamento operativo fra alleati in territori contigui – Iran, Iraq, Siria e Libano – al fine di creare una “Mezzaluna sciita” capace di dominare il Medio Oriente, adoperando al contempo gli Houthi per avere un’ipoteca sul commercio marittimo attraverso il Mar Rosso. L’obiettivo è l’egemonia regionale sui Paesi arabi sunniti – dall’Arabia Saudita all’Egitto, dalla Giordania agli Emirati – cogliendo per gli sciiti un risultato mai ottenuto nella storia dell’Islam. Un’egemonia che è poi, a ben vedere, legata anche all’accelerazione dello sviluppo del programma nucleare che preoccupa l’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), per il semplice motivo che diventare un Paese “sulla soglia” della bomba significa entrare nel ristretto club delle potenze nucleari del Pianeta. Potendo competere con Israele anche qui.
Ma non è tutto perché nella strategia dell’Iran in Medio Oriente c’è anche una dimensione geoeconomica di portata globale. Realizzando la “Mezzaluna sciita” Teheran vuole infatti arrivare a gestire un collegamento diretto via terra fra il Golfo Persico ed il Mediterraneo capace di offrire alla nuova “Via della Seta” di Pechino una rotta Est-Ovest alternativa al Canale di Suez gestito dal rivale Egitto. Così come gli ayatollah immaginano di realizzare una direttrice di trasporti terrestri fino a Mosca, per offrire alla Russia di Vladimir Putin – attraverso il Caucaso o l’Asia Centrale – uno sbocco diretto sullo Stretto di Hormuz e dunque sull’Oceano Indiano. Si tratta di progetti geoeconomici ostili agli “Accordi di Abramo” che invece, sostenuti dagli Usa, vogliono creare una zona di sicurezza e prosperità in Medio Oriente – grazie alle intese di pace arabo-israeliane – capace di diventare un “ponte” fra l’India ed il Mediterraneo.
Quest’ultimo terreno di sfida rende evidente l’intenzione di Teheran di far declinare in maniera irreversibile il ruolo degli Stati Uniti nella regione al fine di far emergere Russia e Cina nuovi partner privilegiati di un Medio Oriente guidato dagli sciiti, con gli Stati arabo-sunniti trasformati in pedine e Israele cancellato dalla carta geografica.
 
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