La Stampa, 13 aprile 2024
Sotto la tenda di Dall’Oglio
È una mostra in cui viene voglia di stare a oltranza, a guardare le fotografie di Mar Musa come se fossi affacciato dal balcone di pietra dove era alzata la tenda di Abramo per accogliere, insieme, santi sufi e dotti circassi, iman e poveri cristiani d’oriente e d’occidente, alla ricerca di qualche nuovo perché a cui guardare per trovare conforto alle loro agonie. Si attende che le figure escano dall’ombra del bianco e nero e camminino vive, briose, leste nella luce abbagliante. Innanzitutto lui, soprattutto lui, padre Dall’Oglio che il fotografo Ivo Saglietti in uno degli scatti ha colto, di schiena, mentre guadagna una aspra mulattiera sul monte: che si fermi, che si volti, perdio!, e ci restituisca il sorriso di chi pratica il contrario dell’attendere e vedere ma si precipita nella tempesta, la determinazione di chi ha esplorato tenebre e rivolto al cielo inaudite domande.
Undici anni! Come è lunga, lunga la strada degli scomparsi, dei rapiti! Da undici anni camminiamo, ostinati, irriducibili, con padre Dall’Oglio su vie notturne, che non portano in nessun luogo, in una polvere finora vana. Ma visitate questa mostra e non potrete dire la orrenda parola: ormai… dopo tanto tempo…! È un antidoto alla rassegnazione di chi ha poca fede. Se l’avete smarrito ritroverete l’obbligatorio coraggio per andare avanti finché il giorno dura, finché non si ha riposo, finché batte il suo e il nostro cuore, andare avanti a credere: padre dall’Oglio è vivo! Non credere è tradire.
La Siria, inesorabile gorgo dove mezzo milione di uomini hanno provato il panico odioso, il recalcitrare e l’inorridire della bestia che davanti al mattatoio fiuta il coltello dei beccai. Confesso che temevo, guardando le fotografie che Saglietti scattò tra il 2000 e il 2004 all’amico Dall’Oglio e alla sua miracolosa comunità in una serie di lunghi e memorabili reportage, temevo di trovare comodo rifugio nell’idea che il tempo produca alla fine una cicatrice. No. La ferita è ancora fresca e non sopporta che vi si accostino le mani. Per fortuna non è arrivata, non deve arrivare, l’insensibilità, non siamo diventati sasso o albero come nella mitologia greca gli dèi, magnanimi o colpevoli, concedevano perché alle vittime del fato per non sentire il dolore.
Le immagini di Ivo Saglietti raccolte e curate da Tiziana Bonomo nelle sale del castello reale di Govone in ‘Ritorno a Deir Mar Musa, l’utopia di padre Dall’Oglio’ fino al 26 maggio, rifiutano la rassegnazione della memoria che serve a staccarci senza rimorsi da colui che abbiamo amato. Questa è una mostra su un testimone di Dio e i suoi apostoli immersi nel presente. Una mostra che rifiuta il sepolcro del Tempo, lo squarcia, gli impone di essere vivo, contemporaneo.
Non è vero che le foto sono mute, che non hanno suono, non queste foto. Il silenzio non è che dalla nostra riva, è colpa nostra: se il suono, la voce, i rumori trovano un varco anche impercettibile vi sgusciano dentro. Un segno, un scorcio bastano a risuscitare un mondo disperso, il miracolo delle fedi che si fanno sorelle su quella montagna nel deserto. Certi profumi aspirati tanto tempo fa resistono più tenaci del tempo, delle profanazioni della Storia. Uno sguardo rapido e aguzzo e rivedo il monastero sparpagliato, la cappella dove la luce esplode solo a brevi ore del giorno attraverso le minuscole aperture. Figure che paiono scene del Vangelo. Tutte le anime di cui è la difesa e la consolazione chiamano per nome padre Dall’Oglio. Egli ascolta con le mani che coprono gli occhi, ha già risposto, è pronto. Sa che un’altra volta bisogna capovolgere il mondo, perché i mansueti spadroneggino sulla terra tolta al nemico, i perseguitati facciano tremare gli oppressori. È già stato fatto. Bisogna rifarlo. Chi l’aspetta sotto la tenda del padre delle religioni? Quali parole, che viso, e quale altra lotta? Perché egli la porta abbarbicata al suo cuore, larga e pesante, la sua angoscia. Sa bene che in Siria il male è al lavoro.
Una foto è senza persone, una natura morta con l’umile cibo della fraternità: olio pane formaggio... il fervore della deposizione di un crocefisso che la luce trasforma in una Ascensione... Agar che ha il nome della serva di Abramo... In quello che era un convento in rovina dimora di serpi e di gufi, ecco i personaggi caldi di questo miracolo recitano in perpetuo la loro parte, eccoli nelle loro passioni, nel loro nodo di creature vive. È per tutto questo che venivano da lontano gli uomini e le donne di Mar Musa che Saglietti ha fermato nel tempo, uomini e donne che conoscevano appena il suo nome, il santo di Mar Musa, il rivoluzionario di mar Musa, e certi racconti su di lui che già sembravano leggende. Ognuno con una spina tutta sua, un dolore soffocato che non osava mormorare a se stesso. Perché proprio da lui nel deserto e non da altri nelle belle chiese o nelle eleganti moschee di Aleppo e di Damasco dove parlano coloro che conoscono bene le cose del mondo?
C’è una foto, una foto strana su cui val la pena di fermarsi. La scattò Saglietti mentre nel convento con una carrucola veniva sollevato un grande ritratto di Bashar Assad. Nel 2005 doveva esser esposta con le altre nella mostra su Mar Musa alla Assad National Library di Damasco. Era l’epoca “liberale”, tentatrice di Bashar, che illudeva il suo popolo promettendo riforme e internet. Perfino padre Dall’Oglio fu ingannato, sperò. I mukabarath, gli sgherri del regime, ordinarono di togliere la foto. Non furono obbediti. Bashar visitò la mostra, si fermò più a lungo proprio davanti a quell’immagine. Sorrise. Il suo sorriso tremendo, implacabile, che non dimentica. —